Il dialogo Russia - USA può avere grandi ricadute su Trieste.
Sarebbe troppo chiedere alle Autorità di almeno invitare i due Presidenti ad incontrarsi a Trieste (o almeno visitarla nell' occasione, vista la vicinanza) in considerazione dell' internazionalità e delle vicissitudini di questa città, che già ha ospitato Putin nel 2013?
Cosa ne pensano i nostri lettori?
Motivatamente Trieste ambisce al ruolo di ponte tra USA e Russia e di cerniera tra Oriente ed Occidente.
Ecco il testo dell' articolo di Limes on-line che ci permette di comprendere meglio la complessa partita geopolitica internazionale:
L'italia è l’unico paese all’interno dell’Ue a poter svolgere un ruolo di ponte – non solo nel Mediterraneo – fra Russia e Usa. Ma la sua libertà d’azione sarà limitata dall’asse Berlino-Bruxelles e dalle manovre Nato.
L'italia è l’unico paese all’interno dell’Ue a poter svolgere un ruolo di ponte – non solo nel Mediterraneo – fra Russia e Usa. Ma la sua libertà d’azione sarà limitata dall’asse Berlino-Bruxelles e dalle manovre Nato.
Cosa rischia e cosa può guadagnare l’Italia dal dialogo fra Vladimir Putin e Donald Trump?
Per cercare di rispondere a questa domanda, partiamo dall’analisi dei principali avvenimenti geoenergetici che rafforzano l’ipotesi (formulata dall’economista Giuseppe Masala) di pax petrolifera, idealmente compendiata dalla nomina di Rex Tillerson, già amministratore delegato di ExxonMobile, a segretario di Stato.
In primo luogo, l’accordo sui tetti produttivi di petrolio raggiunto dall’Opec – in cooperazione con i produttori non-Opec, a partire dalla Russia – lo scorso 30 novembre a Vienna rappresenta una conseguenza dell’evoluzione della guerra in Siria e della ripresa di Aleppo da parte dell’esercito siriano fedele ad Assad, militarmente sostenuto dalla Federazione Russa, dall’Iran e dagli Hezbollah libanesi.
In secondo luogo, la compagnia petrolifera russa Rosneft – controllata dallo Stato russo per il 50% – ha ceduto il 19,5% del proprio capitale azionario a un consorzio formato dalla svizzera Glencore e dal Fondo di investimento del Qatar (Qif), per un valore equivalente a 10,5 miliardi di euro. L’operazione prevede la garanzia di un pool di banche (anche russe), capitanate dall’italiana Intesa Sanpaolo.
In terzo luogo, Rosneft ha raggiunto un accordo con Eni per l’acquisizione del 30% del capitale di Shorouk, il giacimento gasifero facente parte di Zohr, colosso nell’offshore egiziano da 850 Gmc3 di gas naturale scoperto dalla major italiana nel 2015. Il costo totale dell’operazione è di 1,57 miliardi di dollari; le parti hanno anche concordato un’opzione per l’acquisto da parte della stessa Rosneft di un ulteriore 5% di partecipazione nel contratto di concessione.
Dopo le vittorie militari in Siria, la Federazione Russa sta operando sul piano politico attraverso petrolio e gas. D’altronde, tutte le superpotenze hanno sempre fatto dell’industria energetica nazionale uno dei pilastri della propria politica estera. Gli Stati Uniti hanno agito allo stesso modo nei confronti della Cina, impedendo che l’impresa di Stato Cnooc acquisisse la statunitense Unocal; stesso discorso per le pressioni esercitate sull’Italia relativamente al caso Knight Vinke, che solo in minima parte hanno leso gli interessi di Eni.
L’entrata del Qif nel capitale di Rosneft è stata possibile perché il Qatar, fallito il tentativo di rovesciare il regime di Assad, ha interrotto il sostegno politico e finanziario ai cosiddetti gruppi ribelli. Doha, da nemico sul campo di battaglia siriano, è così diventata partner economico di Mosca, determinando una convergenza delle politiche energetiche dei due principali esportatori di gas naturale al mondo.
Grazie all’operazione con Eni, Rosneft ha ottenuto la possibilità di entrare nel mercato dell’“oro blu” senza ledere gli interessi del colosso energetico suo connazionale, Gazprom. Nel contempo, ha messo “un piede nel Mediterraneo”.
Putin, incassati questi eccellenti risultati, dovrà però prestare particolare attenzione nel continuare a non confondere tattica e strategia. L’impressione è che al Cremlino si respiri un’eccessiva euforia per l’elezione di Trump e la nomina di Tillerson.
Con Trump-Tillerson la nuova guerra fredda con gli Stati Uniti potrebbe certamente cambiare natura. Rispetto all’amministrazione Obama, l’approccio nei confronti di Mosca appare senza dubbio differente e volto alla ricerca di una soluzione reciprocamente vantaggiosa. Ma l’esito è tutt’altro che scontato: non si può escludere che nel prossimo futuro lo scontro diventi ancora più duro in virtù della grave crisi economica che persiste in Russia.
In tale contesto, sono certamente apprezzabili le parole del primo ministro italiano. Paolo Gentiloni ha spiegato che “con la presidenza del G-7 cercheremo di mettere sul binario giusto i rapporti con la Russia, fermi nei nostri princìpi, leali con i nostri alleati e non disponibili al rilancio di logiche da guerra fredda”.
L’Italia è al momento l’unico paese all’interno dell’Ue che ha la concreta possibilità di svolgere un ruolo di ponte, non solo nel Mediterraneo, senza più incorrere nel rischio di essere descritta da Washington come l’anello debole nelle mani di Mosca, esattamente come ai tempi del progetto South Stream.
Tale ruolo non può essere incarnato né dal Regno Unito – vista la scelta di uscire dal mercato unico europeo (hard Brexit) – né dalla Germania o dalla Francia, i cui rispettivi interessi economici e di politica estera confliggono con il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Almeno due sono i rischi che l’Italia potrebbe trovarsi dinnanzi.
Il primo consiste nel fatto che l’asse Berlino/Bruxelles, proprio perché conscio del nuovo contesto geopolitico venutosi a determinare, utilizzerà a maggior ragione l’attuale impalcatura comunitaria come strumento di pressione per continuare ad indebolire il nostro sistema manifatturiero e bancario.
Di fatto, la Germania teme che il tentativo di mediazione di Henry Kissinger tra Usa e Russia sui dossier ucraino, baltico, siriano e libico – quindi anche sulle sanzioni – la possa vedere scavalcata. Per questa ragione, come ha ben chiarito l’ex ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, Berlino deve tentare di “blindare” l’Europa nell’era Trump evitando che quest’ultimo tolga l’ombrello protettivo della Nato e favorendo l’incremento del contributo alla sicurezza collettiva di tutti gli Stati membri dell’Ue all’Alleanza atlantica.
Il secondo attiene l’operato della Nato in Europa. A inizio gennaio, pochi giorni dopo il discorso di saluto pronunciato da Barack Obama, abbiamo assistito al più grande dispiegamento di forze terrestri statunitensi nell’Europa orientale dalla fine della guerra fredda. Scelta strategica che non va di certo nella direzione di una de-escalation con Mosca e appare in contrasto anche con gli oggettivi interessi di Roma.
Secondo l’economista Guido Salerno Aletta, “l’America cambia strategia economica […] perché non può più mantenere il ruolo di locomotiva globale crescendo a debito verso l’estero. Nel corso della presidenza Obama, l’esposizione finanziaria netta è peggiorata esponenzialmente, passando dai -2,627 miliardi di dollari del 2009 ai -7,281 miliardi del 2015. […]. Il punto di partenza, non solo per l’America, è la ricostituzione della base produttiva manifatturiera, impoveritasi sin dai primi anni Settanta”.
Per gli Stati Uniti, il riequilibrio nelle relazioni commerciali internazionali non è più rinviabile. A partire da quello verso la Cina, il cui surplus nei confronti di Washington ha raggiunto i 335 miliardi di dollari nel solo 2015 e ben 3.234 miliardi di dollari dal 2003 al 2015.
Viste le parole del portavoce del ministro cinese del Commercio, Sun Jiwen, a Davos, Pechino appare disponibile, non costretta ad affrontare il problema. Ciò detto, Trump deve essere consapevole che difficilmente spunterà un buon compromesso se prima non giungerà a un accordo con Putin su alcuni dei principali dossier come Siria, Ucraina e sanzioni, abbandonando l’idea che ciò possa avvenire in cambio della fine del rapporto strategico tra Russia e Cina, come chiaramente affermato dal ministro degli Esteri Russo, Sergej Lavrov.
Il 16 gennaio, il direttore uscente della Cia John Brennan aveva però ammonito Donald Trump a non sottovalutare Mosca. “Non credo che possieda una comprensione completa delle capacità, delle intenzioni e delle azioni della Russia”, ha detto a Fox. “Penso che Trump debba capire che assolvere la Russia sia una strada che deve stare molto, molto attento a intraprendere”.
Minacce velate? Di certo, lo scontro all’interno dell’intelligence – che perdura ben oltre l’elezione presidenziale – e quello tra Casa Bianca e una parte dei servizi Usa è fra i più interessanti di questo inizio 2017.
PUTIN E LETTA A TRIESTE IL 25 NOVEMBRE 2013
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