DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

mercoledì 27 febbraio 2019

TRIESTE: I CINESI CI SONO GIA' E TUTTO VA BENE - ASSE CON FINCANTIERI - RILANCIATO IL RUOLO DI TRIESTE SULLA VIA DELLA SETA -


Un articolo del Piccolo sul convegno di ieri a Trieste parla della  fruttuosa collaborecione tra Fincantieri e Cina.Il capo del colosso di Stato cinese promuove Bono: asse con Fincantieri Di Maio fa marcia indietro. Boom del titolo (+15%). Convegno con Carniva: rilanciato il ruolo di Trieste sulla Via della Seta

di Pircarlo Fiumanò
TRIESTE. «Bono è molto bravo nella gestione del suo gruppo. Siamo felici di lavorare con lui. Fincantieri ha un ottima reputazione nel mondo»: parla così Lin Fanpei, amministratore delegato di China State Shipbuilding Corporation, il colosso pubblico della cantieristica cinese. Ed è come se parlasse il governo di Pechino. Da Lin Fanpei arriva questo nuovo FOEPSTFNFOU a favore del numero uno del colosso cantieristico triestino al culmine di una giornata trionfale per il titolo in Borsa (+15%) dopo la presentazione dei conti chiusi con un record di ricavi. Bono “incassa” così il plauso dei mercati e un riconoscimento di peso: «Diciamo che a questo punto mi sento responsabile e sono pronto a uscire in gloria», commenta scherzosamente Bono dopo le pressioni politiche degli ultimi giorni per un ricambio al vertice del colosso navalmeccanico. Poco dopo le agenzie diffonderanno la marcia indietro del vicepremier Di Maio: «Fincantieri rappresenta una realtà di assoluto rilievo per il panorama industriale nazionale ed il Governo è pienamente consapevole del suo ruolo strategico. In vista della futura scadenza della governance aziendale, nessuna decisione è stata assunta». Fincantieri è il primo grande gruppo industriale italiano a stringere un patto pesante con i Dragoni. A Shanghai nel novembre scorso i vertici di Fincantieri hanno siglato con China State Shipbuilding Corporation (Cssc) e lo storico alleato Carnival hanno firmato i contratti per la costruzione di due navi da crociera, e ulteriori quattro in opzione, che saranno le prime unità di questo genere mai realizzate in Cina per il mercato cinese. L'accordo ha un valore di circa 1,5 miliardi di dollari per le prime due navi con consegna prevista per il 2023. Lin Fanpei, una gloria nazionale essendo un veterano dell’industria aerospaziale cinese, ha parlato a Trieste al convegno organizzato dalla Fondazione Italia-Cina che nella sostanza rilancia Trieste come uno dei capisaldi della Via Della Seta, il grande piano di espansione commerciale di Pechino dai porti dell’Asia fino all’Adriatico settentrionale. E anche di questo si discuterà il 22 e 23 marzo durante la visita ufficiale di Xi Jinping a Roma, come ha sottolineato Vincenzo Petrone, ex presidente di Fincantieri e oggi a capo della Fondazione. Sulla nuova Via Della Seta, e sul ruolo di Trieste, l’asse Fincantieri-Carnival-Cssc apre grandi prospettive. Come ha sottolineato Bono, Fincantieri «potrebbe diventare il volano per l’insediamento in Cina della propria catena italiana di fornitura, o di altre Pmi italiane, che in questo modo trarrebbero un notevole vantaggio dall’operazione». Il patto di ferro fra il gruppo triestino e i cinesi-come ha precisato Lin Fanpei-potrà ampliarsi anche ad un numero di progetti di ricerca e sviluppo in molteplici aree della navalmeccanica. Il gruppo triestino sta facendo da apripista ai futuri interscambi commerciali verso il Paese dei Dragoni. Nel periodo 2000-2017 la Cina ha investito in Italia 13,7 miliardi di euro piazzandosi al terzo posto dopo Regno Unito e Germania. Non solo. Secondo i dati elaborati dalla Fondazione Italia Cina sono oltre 600 le aziende italiane a capitale cinese principalmente nei settori chiave del Made in Italy. Michael Thamm, amministratore delegato del Gruppo Costa e Carnival Asia, ha annunciato la creazione di un nuovo brand di crociere che opererà in Cina: «Grazie all’arrivo di Costa nel 2018 ci sono stati 2,5 milioni di cinesi in crociera. Il potenziale di sviluppo futuro è ancora enorme: i crocieristi in Cina rappresentano al momento meno del 2% dei cinesi che fanno vacanze all’estero». 


mercoledì 13 febbraio 2019

L' ITALIA NAZIONALISTA: DALLA FRANCIA A ISTRIA E DALMAZIA - A proposito dei recenti "incidenti diplomatici" con Slovenia e Croazia un articolo di Limes On Line


Pubblicato su Limes On Line il 12 febbraio 2019
ITALIA E NAZIONALISMO
Il ministro della Giustizia francese ha annunciato che l’Italia ha presentato richiesta formale di estradizione di uno dei latitanti di estrema sinistra riparato Oltralpe durante gli anni di piombo. Nel frattempo, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani si è scusato per i commenti sull’Istria e la Dalmazia italiane pronunciati a una commemorazione dei martiri delle foibe, sostenendo che le sue parole non equivalevano a una rivendicazione territoriale. Slovenia e Croazia avevano accusato il politico italiano di revisionismo storico.
Perché conta: Il filo rosso fra i due avvenimenti è il crescente ricorso al nazionalismo da parte dei politici italiani, al governo ma non solo. La richiesta di estradizione approfondisce lo scontro con Parigi a pochi giorni dal richiamo dell’ambasciatore francese in Italia e costituisce un nuovo capitolo di una querelle che ci divide da decenni. Il richiamo alle comunità italiane in Istria e Dalmazia si inserisce in una lunga storia di usi strumentali della memoria. Nessuno dei due fatti fa parte di una strategia geopolitica: serve ad aumentare consensi elettorali. Ma è il segnale della diffusione nella società di sentimenti nazionalisti, che peraltro contribuisce a surriscaldare i rapporti con i vicini.

L' ITALIA DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE 
Cessate le ostilità, l’allargamento a nord-est del nostro paese fu possibile in base agli accordi internazionali sottoscritti nel dopoguerra: il trattato di Saint-Germain del 1919, che ci assegnò Trentino e Alto Adige, e il trattato di Rapallo del 1920, che fissò il confine con il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni.

Nel numero Quanto vale l’Italia :

Per togliere all’impero asburgico la componente italiana e arrivare a Trieste e a Trento si combatté fino alla prima guerra mondiale. Vienna fu forzata a gestire i rimasugli dell’impero ottomano a sud di Zagabria. Come potenza vincitrice nella Grande guerra, ovvero nella quarta guerra d’indipendenza, Roma abbracciò con gioia il principio di autodeterminazione dei popoli proposto da Woodrow Wilson – ed entusiasticamente sostenuto da Lenin in altri lidi – per sminuzzare il vecchio rivale asburgico, per qualche decennio perfino alleato nella Triplice Alleanza, specchio della carenza di orientamento strategico e della brama di riposizionamento in quello che fu il grande lago di Venezia. Quello sminuzzamento poteva essere interpretato da Wilson come la realizzazione dei princìpi di libertà e democrazia a stelle e strisce per disfarsi di strutture monarchiche incompatibili con il destino manifesto della futura potenza egemone dell’Occidente, mentre per l’Italia era il modo migliore per tentare d’applicare il principio del divide et impera in una regione di per sé caratterizzata da storiche diversità culturali, politiche ed economiche. A cento anni dalla fine della prima guerra mondiale è oramai lampante che l’Italia non ha saputo affermarsi nell’entroterra del lago veneziano e nelle antiche regioni romane del Norico e della Pannonia.
Fu l’esplodere del primo conflitto mondiale a mostrare la strategica urgenza di dominare le Alpi Retiche. Solo allora il governo italiano comprese che per ottenere tale risultato doveva rompere con l’Austria-Ungheria, padrona delle Alpi orientali. Nella primavera del 1915 il Regno d’Italia abbandonò gli Imperi centrali in favore della Triplice intesa e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino ottenne dai nuovi alleati la promessa di annessione del Tirolo cisalpino, scolpita nell’articolo 4 del patto di Londra. Quanto riconosciuto al termine della guerra dal trattato di Saint-Germain-en-Laye (1919), nonostante la vittoria mutilata. La Venezia Tridentina, dizione coniata nel secolo precedente dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli, diveniva ufficialmente italiana. Il Regno si spingeva perfino oltre lo spartiacque alpino attraverso il possesso del Comune di San Candido, presso le sorgenti del fiume Drava, affluente del Danubio.
Durante il ventennio fascista, Roma provò a trasformare in strategica l’acquisizione territoriale. Benito Mussolini decise la forzata e dolorosa assimilazione dei germanofoni dell’Alto Adige. Obiettivo ultimo era controllare la regione e la popolazione che vi abitava, ponendo un concreto diaframma tra la transalpina area germanica e il resto del paese.

Carta di Laura Canali, in esclusiva a colori su Limesonline.

venerdì 8 febbraio 2019

ORA LE ALPI SONO PIU' ALTE - LA CRISI ITALIA-FRANCIA COMMENTATA DA LUCIO CARACCIOLO, DIRETTORE DI LIMES


Sulla crisi Italia -Francia su Limes-On Line è uscito l’ altro ieri l’ articolo di Lucio Caracciolo che riportiamo sotto.
L’ articolo prevedeva, 
oltre al richiamo dell’ ambasciatore, delle rappresaglie da parte francese alle mosse avventate del Vicepresidente del Consiglio Di Maio che ha incontrato proprio in Francia alcuni esponenti di un’ ala particolarmente dura e di destra dei “gilet gialli” : “I colpi saranno visibili a chi deve vederli, ma sparati con il silenziatore”.

Poche ore dopo sembra che da parte francese non si voglia usare nemmeno il silenziatore: non viene rispettato l’ accordo per l’ accoglienza di una parte dei migranti della Sea Watch (il che riguarda Salvini) e salta la trattativa per l’ acquisizione di Alitalia su cui puntava Di Maio.
Speriamo non sia coinvolto anche l’ accordo con Fincantieri per l’ acquisizione dei cantieri navali francesi STX.
Lo sapremo forse dopo il Consiglio d’ amministrazione di Fincantieri appena convocato proprio per la data in cui l’ amministratore delegato Bono dovrebbe partecipare al nostro convegno del 14 a Trieste.


ORA LE ALPI SONO PIU' ALTE

Data l’intrinsechezza geopolitica, economica e commerciale fra i due paesi, abbondano i dossier su cui i francesi cercheranno di farci pagare pedaggio.
di Lucio Caracciolo

Da oggi le Alpi sono più alte. Il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore di Francia a Roma, Christian Masset, sigilla una crisi senza precedenti nei rapporti italo-francesi. Almeno dal famigerato “colpo di pugnale alle spalle” del giugno 1940, quando Mussolini ordinò alle nostre truppe di invadere la Grande Nation già sopraffatta dalla Wehrmacht, nell’illusione di presto partecipare al banchetto in cui se ne sarebbe spartito le spoglie insieme a Hitler.
Eppure il gesto volutamente clamoroso di Macron non giunge inaspettato. Quasi inevitabile replica alla missione lampo di Luigi Di Maio in terra francese, per incontrare una presunta rappresentanza dei gilet gialli, dai loro stessi capi sconfessata. A guidarla l’islamofobo Christophe Chalençon, estremista di destra che vorrebbe un uomo forte – il generale Pierre de Villiers – all’Eliseo. Insomma, il nostro numero due s’è intrattenuto fraternamente con un aspirante golpista che vorrebbe i militari al posto del numero uno del paese dove si trovava informale e indesiderato ospite. Solo l’ultimo, farsesco episodio di una tragicommedia persino esilarante (culminata nella “polemica” sul franco Cfa) se non fosse seria. Almeno per noi italiani. E adesso, pare, un poco anche per i francesi.
È fuorviante valutare il vertice Chalençon-Di Maio sotto specie politico-elettorale, in vista del voto cosiddetto europeo di maggio, cui ogni paese partecipa con liste proprie, scrutandosi rigorosamente l’ombelico, preoccupato delle ripercussioni domestiche del risultato. Certo, per i movimentisti a cinque stelle l’attrazione dei gilet gialli è formidabile, posto che ne conoscano l’indirizzo. Sentimento non reciprocato dalla grandissima parte di costoro, fosse solo perché dei presunti fratelli italiani gliene importa poco o nulla. Quello che impressiona, semmai, è l’incoscienza con cui un vicepresidente del Consiglio dei ministri fa uso del suo ruolo istituzionale.
Non entriamo qui nel merito tattico della sua mossa, che si risolverà forse in un boomerang, o forse no – vedremo il 26 maggio. Ciò che impressiona è l’allegra indifferenza ai due princìpi fondamentali di qualsiasi strategia, non importa il colore: valutare i rapporti di forza e volere le conseguenze di ciò che si vuole. Dogmi che un tempo i dirigenti politici succhiavano con il latte, anche perché formati in autentici partiti e non nei correnti facsimile.
Nella fattispecie, assumendo che la gita a Parigi sia stata progettata in sobria coscienza, è consapevole il nostro vicepresidente del Consiglio delle conseguenze che il suo gesto provocherà per il suo e nostro paese? Oppure immagina che lo Stato francese, cui non difettano una certa idea di sé e una vena di irritabilità, possa contentarsi della gesticolazione diplomatica, destinata a rientrare? Data l’intrinsechezza geopolitica, economica e commerciale fra i due paesi, abbondano i dossier su cui i francesi cercheranno di farci pagare pedaggio. Dalla Libia a Ventimiglia, dalla cantieristica civile e militare all’Alitalia, fino allo scambio di informazioni segrete necessarie alla sicurezza nazionale, Parigi avrà di che sbizzarrirsi. Pur in una congiuntura assai critica, con un presidente infragilito, incapace di leggere il suo stesso paese e perciò inutilmente arrogante – di qui il modesto tasso di popolarità e la pallida credibilità sulla scena internazionale – la Francia ce la farà pagare. Senza esagerare, perché la considerazione di Parigi per Roma non è mai stata alta ed è ora ai minimi.
I colpi saranno visibili a chi deve vederli, ma sparati con il silenziatore. I fuochi d’artificio darebbero importanza a chi non ne deve avere. Giacché quando si violano le regole di base della competizione fra nazioni, con un responsabile di governo straniero che sostiene gli avversari del tuo monarchico presidente in casa sua, la reazione istintiva è di rappresaglia. In tal caso le burocrazie si muovono in automatico. Alla vendetta fredda in salsa gallicana non potremo opporre granché. Essendo, fra l’altro, più soli che mai in ambito euroatlantico.
Italia e Francia sono vicini che non hanno mai cercato di capirsi. Forse presumendo di non averne bisogno. Roma e Parigi hanno preferito coltivare piattezze retoriche, dalla “latinità” alla “cuginanza”, evocate con velenosa eleganza nello stesso comunicato del ministero degli Esteri che annunciava il richiamo di Masset. Dove si discetta nientemeno che di “comune destino”. Finora, il destino di Italia e Francia è stato di affettare una reciproca amicizia che non ha mai avuto radici profonde. Con il risultato di scoprirsi spesso avversari, talvolta nemici, quando si arrivava al dunque e la storia ti chiedeva il conto.
Circola tuttora in quel che resta della classe dirigente nostrana la massima di Machiavelli nel De Natura Gallorum, per cui i cugini d’Oltralpe quando non possono farti del bene, te lo promettono, e quando possono fartelo, difficilmente lo fanno, o non lo fanno. Negli omologhi francesi, prevale l’opinione che dell’Italia non sia necessario avere un’opinione.
Se questo è un destino, urge cambiarlo.