1. «CHI È IL TERZO CHE SEMPRE TI CAMMINA ACCANTO? Se conto siamo soltanto tu ed io, insieme. Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca, c’è sempre un altro che ti cammina accanto». È così la Sicilia, waste land segnata dal giogo mafioso che si riverbera nelle parole del tuono. Bella, meravigliosa e terribile, terra desolata che non sempre concede di sapere con chi si parli o cammini, perché da più di due secoli c’è sempre un quid in più. Un’ombra è pronta a materializzarsi e chiedere – o chiudere – il conto: la mafia.
Dalle formazioni protomafiose del periodo prerisorgimentale all’imperio nelle campagne gestito mediante il controllo del latifondo, la mafia ha fatto irruzione in tutti i grandi agglomerati urbani. Leonardo Sciascia l’aveva previsto: «Se dal latifondo riuscirà a migrare e consolidarsi nelle città, se riuscirà ad accagliarsi intorno alla burocrazia regionale, se riuscirà ad infiltrarsi nel processo d’industrializzazione dell’isola, ci sarà ancora da parlare, e per molti anni, di questo enorme problema». Qualche anno dopo, il «maestro» di Racalmuto corresse il tiro, perché la mafia era persino andata al di là delle sue già fosche previsioni: «È diventata fenomeno più vasto, indefinibile e – visibilissima nei suoi molteplici effetti – invisibile nella sua gestione, nei suoi capi, nei suoi legami, nelle sue connivenze e protezioni. Droga e traffico d’armi l’hanno fatta dilagare in ogni parte del mondo».
Potrebbe esaurirsi qui ogni tentativo di analisi del fenomeno della mafia nel Terzo millennio. Sono in molti a sostenere che per più di un aspetto Cosa Nostra è ormai imbattibile, poiché gran parte delle sue ramificazioni hanno il volto rassicurante di una fittizia e superficiale legalità. Una soluzione comoda: chi vuole può chiudere gli occhi, chi brama può speculare ed arricchirsi.
Ecco perché «la mafia ha vinto ed io sono un sopravvissuto. La mafia si è infiltrata nei principali ingranaggi economici, specie nei grandi lavori pubblici, ha tessuto nuovi legami con le forze politiche e continua a fare i suoi affari indisturbata. La pace mafiosa regna perché Cosa Nostra non ha più bisogno della violenza per assicurare il suo predominio; è già riuscita ad eliminare, uccidendoli o mettendoli fuori gioco, la maggior parte dei giudici e dei poliziotti che la minacciavano». Giugno del 2000, la presa d’atto di uno Stato incapace di fronteggiare il crimine organizzato – se non addirittura del tutto sconfitto – reca in calce la firma di Ferdinando Imposimato, magistrato che in carriera più volte ha incrociato le trame di Cosa Nostra, coordinando, tra l’altro, le indagini sulla banda della Magliana e quelle sul finto sequestro del banchiere Michele Sindona. Una provocazione, quella di Imposimato, utile però a dimostrare l’esistenza di un conflitto ancora aperto per il controllo del territorio: la battaglia principale si gioca in Sicilia, dove la mafia s’è innestata progressivamente nel territorio, impiantandovi il suo modello criminale e i suoi codici subculturali.
Per capire quanto incida oggi questo fenomeno nella percezione della Sicilia e dei siciliani, basta ricordare che «mafia» è il termine italiano più conosciuto all’estero, soprattutto è il più utilizzato dai media quando parlano dell’Italia e degli italiani.
Secondo il teorema reso celebre da Luciano Violante, la storia della mafia va suddivisa in cicli di dieci anni. È questo il lasso di tempo orientativo che servirebbe alle cosche mafiose per cambiare pelle, obiettivi e strategie, adattandosi – e in certi casi anticipando – gli scenari sociali, economici e politici. L’ennesimo ciclo della mafia siciliana s’avvia a compimento, un ricambio generazionale dei vertici dell’organizzazione è in atto. Cosa Nostra prepara l’ennesima mutazione. Oggi la chiamano «mafia invisibile», dissimulando per novazione ciò che Sciascia aveva pronosticato mezzo secolo prima. Tutti sanno che c’è, ma chi non vuol vedere o finge di non capire può tranquillamente sostenere di non intuirne la presenza. La mafia è sommersa, ed è – per usare la metafora del procuratore di Palermo Pietro Grasso – «come una goccia d’olio che cade su una tela e si diffonde impregnando del tutto la trama del tessuto». Cosa Nostra ha rinunciato allo scontro armato per dedicarsi agli affari, leciti e non. Ha solo un punto debole: «È fatta di uomini e come in ogni vicenda umana, ad ogni inizio seguirà anche una fine». Così amava ripetere Giovanni Falcone.
Come ogni organizzazione segreta, la mafia siciliana possiede i suoi riti e le sue regole. Il suo profilo territoriale è composto da un’articolazione per mandamenti sulle nove province della Sicilia. Il rito di affiliazione mafiosa è un sincretismo religioso ed esoterico, mutuato – secondo gli storici – dalle regole carbonare e massoniche e da alcuni aspetti estremi del cattolicesimo, ai limiti della prassi inquisitoria.
Il mondo mafioso ha una «regola» informale, una sorta di codice costituzionale che stabilisce diritti, doveri e comportamenti degli affiliati. È probabile che si tratti esclusivamente di una tradizione tramandata oralmente, anche se, a metà degli anni Novanta, il collaboratore di giustizia Salvatore Facella suggerì ai magistrati palermitani l’esistenza di un codice scritto di Cosa Nostra. Sarebbe stato redatto da un avvocato siciliano nel periodo della repressione fascista del superprefetto Cesare Mori. Per Facella, la riscrittura, l’emendamento di uno o più punti di quel presunto codice segreto sarebbe stato alla base della guerra di mafia degli anni Settanta.
All’inizio degli anni Novanta, l’Arma dei carabinieri stilò un rapporto a uso interno per stimare la situazione mafiosa in Sicilia: uno dei primi tentativi di censimento dell’universo di Cosa Nostra. I dati raccolti riportavano la presenza di 142 «famiglie» – la cellula di base dell’organizzazione mafiosa – operanti nella regione, ognuna con uno specifico territorio di pertinenza. L’esercito mafioso veniva quantificato in circa 3.600 unità. La valutazione dell’Arma vedeva concordi i magistrati impegnati nel contrasto al crimine organizzato di stampo mafioso. Ma si trattava di una pericolosa sottovalutazione dell’impatto delle cosche mafiose sulla società siciliana. Il rapporto, infatti, limitava il suo campo di indagine solo a coloro che avessero prestato il giuramento di fedeltà all’organizzazione, ovvero agli affiliati nel senso stretto del termine. Si tralasciava il tentativo di quantificare l’inquinamento della società, le palesi connivenze e le contiguità.
La capacità militare ed economica di Cosa Nostra stava per mostrarsi in tutta la sua forza distruttiva. Un moloch gigantesco, in grado di contrapporsi frontalmente allo Stato, che si autolegittima come interlocutore in grado di chiedere condizioni per una coesistenza.
2. A distanza di quindici anni da quella stima effettuata dall’Arma, la rete mafiosa non solo non appare per nulla indebolita, ma continua ad espandersi a macchia d’olio. Cinquemila è il numero supposto dei presunti affiliati. Ma sommando adepti, conniventi e sostenitori occasionali si arriva sino al decuplo. Il drappello di malviventi è diventato esercito. C’è voglia di mafia.
Pessima riproduzione dei gironi danteschi, la struttura relazionale della mafia si articola in cerchi concentrici. Nel più piccolo di essi, vero e proprio «zoccolo duro » dell’organizzazione mafiosa, trovano posto gli affiliati. Sono all’incirca quei cinquemila individui indicati nelle relazioni delle forze dell’ordine e della magistratura. Già più ampio il secondo «girone», una componente connivente che consente la ramificazione degli uomini d’onore in tutti i principali gangli della società. Sono i parenti diretti degli affiliati: una dimensione in cui vedute e comportamenti sono improntati in tutto e per tutto ai codici imposti dall’uomo d’onore. La macchia d’olio si espande con il cerchio successivo, composto da individui della criminalità non associata, il cui obiettivo finale è raggiungere l’affiliazione alle cosche. Nella schiera successiva troviamo la microcriminalità: gioco d’azzardo, spaccio di stupefacenti, ricettazione. Un nucleo di manovalanza criminale a basso prezzo e disponibile sul mercato.
Infine, il sistema di connessione più importante: l’area grigia, la borghesia mafiosa. Per gli investigatori l’ordito della cupola mafiosa è capace di infiltrarsi e gestire cointeressenze in ampi segmenti di ogni categoria professionale. L’adesione alla volontà mafiosa è condizionata, in questa cerchia, dalla concreta possibilità di ottenere vantaggi immediati. È il canale di penetrazione nel mondo legale ed in quello della politica. In questa specifica dimensione operano i «colletti bianchi», professionisti nel riciclaggio e nel reinvestimento dei capitali di provenienza illecita.
Anche sotto il profilo operativo la struttura dei raggruppamenti mafiosi è profondamente diversa dal modulo dei tradizionali clan criminali. Il nucleo centrale è rappresentato allegoricamente dalla cosca, la foglia del carciofo in dialetto siciliano. Al centro del sistema c’è il mafioso, « lu trunzu ri l’omini », il torso del carciofo attorno al quale – in un sistema di relazioni di parentela, amicizia, amicizia strumentale o semplice clientela – ruotano le foglie. Che possono essere singoli individui o interi nuclei familiari e non necessariamente in contatto tra loro. Ulteriore classica distinzione si effettua tra l’alta e la bassa mafia. Gli uomini d’onore, vincolati dal patto d’omertà e di rispetto reciproco, sono inseriti nella prima fascia, riservando a semplici esecutori materiali, criminali di piccolo cabotaggio e giovani disoccupati gli spazi della bassa mafia.
Grazie alle informazioni ottenute con le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, uno dei primi collaboratori di giustizia, venne svelata anche la dimensione territoriale di Cosa Nostra e la sua articolazione in mandamenti e commissioni, su base provinciale, interprovinciale e regionale.
Ne emerse il ritratto di una rete sociale e territoriale così articolata da disporre persino di un proprio volto «istituzionale», capace di incidere sulle scelte politiche di una popolazione. «I voti condizionati dalla mafia? Non meno di 450 mila. In Sicilia una carica elettiva su dieci potrebbe risultare condizionata dal suffragio che, direttamente o indirettamente, gli organismi mafiosi possono fornire»: era il 1995 quando Gian Maria Fara – direttore di Eurispes – snocciolò i suoi dati su mafia e politica. Passarono pochi giorni e nessuno vi prestò più attenzione. «Oggi questi dati sono ancor più precisi e li confermo», dice Fara. E le motivazioni addotte sono così semplici da scoraggiare: «Ogni unità mafiosa è un potenziale moltiplicatore di consenso. I conti sono presto fatti».
Soprattutto, sembrerebbe che l’introduzione del sistema maggioritario abbia involontariamente rafforzato la capacità di espressione politica delle organizzazioni criminali. Il maggioritario rende più facile serrare i ranghi in occasione di competizioni elettorali. Prima i voti venivano distribuiti tra tutte le forze politiche dell’intero arco costituzionale, con l’eccezione delle ali estreme. La maggiore concentrazione si realizzava nei confronti di quei partiti considerati architrave del sistema politico ed amministrativo. «È anche ovvio che sia stato così», sostiene Fara, «perché non va dimenticato che la mafia è un sistema criminale dedito al profitto e ha sempre cercato di individuare i migliori interlocutori presenti sul mercato politico».
3. Appunto, il profitto prima di tutto. Stilemi pseudoculturali e relazioni politiche a parte, il conto economico delle mafie italiane ammonta a più di 100 miliardi di euro. Un giro d’affari più che raddoppiato negli ultimi dodici mesi, per Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona unita, le «quattro cupole» nostrane: un fatturato pari al 7,5% del prodotto interno lordo dell’Italia. A Cosa Nostra tocca quasi un terzo del tesoro criminale. Le principali voci all’attivo sono il narcotraffico (18,2 miliardi di euro), l’infiltrazione nel sistema delle imprese e il controllo degli appalti pubblici (6,5 miliardi di euro).
Non è facile fare i conti in tasca a Cosa Nostra. Al più si possono ipotizzare delle stime. Ci provano reparti specializzati delle forze dell’ordine, istituti di ricerca nazionali come Censis ed Eurispes ed anche i dipartimenti di economia di università straniere, tra cui gli atenei di Amsterdam e Pittsburgh. Incrociando tutti i dati disponibili è possibile ricostruire, con un discreto grado di attendibilità, la storia economica degli ultimi quindici anni di mafia in Italia.
Emerge la crescita esponenziale dei risultati finanziari: il crimine paga. Alla fine degli anni Ottanta, il prodotto di Cosa Nostra siciliana raggiungeva «appena» i 6 mila miliardi di lire. Un primo picco di crescita si registra tra il 1990 ed il 1994: il fatturato, in quel lasso di tempo, oscilla tra i 12 ed i 15 mila miliardi di lire. Nel biennio successivo i dati forniti dal ministero dell’Interno portavano il risultato economico a 23,5 mila miliardi di lire, per sfondare il tetto dei 30 mila miliardi tra il 1998 ed il 1999.
Il cambio di valuta ha notevolmente rafforzato gli affari del crimine organizzato italiano e di Cosa Nostra: 18,5 miliardi di euro nel 2002, poco più di 22 l’anno successivo. L’ultima stima fotografa un risultato economico di circa 30 miliardi di euro per l’anno 2004. E se il fronte delle entrate è sempre contraddistinto dal segno positivo, altrettanto rosea è la situazione delle uscite. Con una sola eccezione. A cavallo tra il 1994 ed il biennio successivo, nel periodo coincidente con una maggiore capacità di repressione del fenomeno criminale da parte dello Stato a seguito delle stragi mafiose, l’area di costi della mafia superava di gran lunga le entrate. Una perdita secca di 40 miliardi di lire al mese. Anche per questo la mafia si è inabissata: lo scontro frontale e violento con lo Stato si era dimostrato controproducente anche sotto il profilo dei risultati finanziari.
L’utile netto generato dagli affari mafiosi rappresenta mediamente il 35% del conto economico complessivo. Fra le voci di spesa che incidono maggiormente ci sono gli «stipendi» da garantire agli affiliati (7,5%). Vengono garantite sostanziose indennità ai latitanti ed alle famiglie dei mafiosi detenuti in carcere. Particolarmente costosi risultano gli investimenti in tecnologia e servizi (il 9% viene utilizzato per pagare auto blindate, acquistare armi, clonare telefoni cellulari e versare i «premi» ai fiancheggiatori). Non supera il 3% il costo della corruzione degli apparati istituzionali.
Tutto lascia presagire che il fatturato generato dal crimine organizzato – sia di Cosa Nostra che dell’intero sistema criminale italiano – possa continuare a crescere. La lettura del bilancio di Cosa Nostra spa dimostra che la quota di fatturato mafioso legata ai traffici è una funzione diretta di propaggini e relazioni internazionali. Relazioni con altre organizzazioni criminali di stampo mafioso che vengono agevolate anche dalla capillare presenza di Cosa Nostra: oltre allo storico rapporto con le famiglie statunitensi, l’allarme per la penetrazione mafiosa tocca quasi tutte le regioni italiane. La rete di relazioni estere degli uomini d’onore può contare su basi strategiche in Gran Bretagna, Germania, Spagna, Francia, Belgio e Turchia, sul versante europeo. Canada, Venezuela, Brasile, Australia e Bolivia sono le sponde intercontinentali più visibili.
Inoltre, è più di un’ipotesi investigativa la collaborazione tra mafia siciliana e ‘ndrangheta. Sono relazioni che si spiegano soprattutto nell’ottica di un business sempre più globale.
Il business mafioso generato in Italia è solo una minuscola goccia nel fiume di denaro realizzato, anno dopo anno, dal crimine organizzato: 1.500 miliardi di dollari, ovvero più del 5% del valore netto della produzione complessiva mondiale.
Un flusso di denaro enorme che scorre nelle arterie del mercato globale, creando sempre maggiore interconnessione tra le multinazionali del crimine. Questa somma di denaro è talmente imponente da rendere difficile che il mercato legale vi rinunci. D’altronde, uno studio dell’Inter Access Risk Management – compagnia tedesca che si occupa di tutelare le banche internazionali da eventuali frodi – dimostra che almeno metà di quei 1.500 miliardi di dollari è investito nel mercato finanziario americano e che l’80% delle joint-venture a capitale straniero registrate a Wall Street è ritenuto a rischio di infiltrazione criminale.
La risposta dello Stato alla crescita esponenziale della multinazionale Cosa Nostra spa è racchiusa nei dati della Direzione investigativa antimafia (Dia) sul valore dei sequestri e delle confische effettuati tra il 1992 ed il 2003. Il totale ammonta rispettivamente a 617,54 milioni di euro (273 milioni di euro sequestrati ex articolo 321 codice di procedura penale più 342,5 milioni di euro sequestrati ai sensi della legge 575/65) e 25,2 milioni di euro di confische (ai sensi della legge 575/65). Un altro dato importante per comprendere la dimensione economica dei sistemi criminali è quello relativo alla capitalizzazione. Secondo le stime della Direzione nazionale antimafia – aggiornate al 2003 – il capitale immobilizzato delle mafie italiane si aggira sui mille miliardi di euro.
Tra le poste iscritte nel bilancio della mafia, c’è un particolare tipo di crimine che connota sui territori le attività della mafia «invisibile». Nonostante non sia la principale tra le voci nell’attivo di Cosa Nostra, l’estorsione è uno dei momenti di più immediata percezione dell’invasività e del controllo del territorio da parte delle famiglie mafiose. Testimonia l’egemonia su un quartiere, l’ossequio dovuto agli uomini d’onore in ragione della protezione fornita. È la cartina al tornasole della pressione intimidatoria delle cosche. Ovvio che si tratti di una forma persecutoria: sono proprio coloro che offrono protezione a minacciare i potenziali utenti del servizio offerto. In termini di marketing è il classico esempio di bisogno indotto.
La leva utilizzata per conquistare quote di mercato è il monopolio della violenza, prerogativa degli organismi statali. Il meccanismo per acquisire clienti è abbastanza semplice. Di solito il primo «esattore» si presenta con una scusa banale, magari sostenendo di essere il funzionario di un ente statale, mandato per un controllo. Una lunga presentazione condita da sottintesi si conclude con l’invito a cercare l’amicizia «giusta». Se il messaggio non viene recepito dal potenziale utente del servizio di protezione, allora iniziano gli atti intimidatori, con una progressione sempre più cruenta. L’eliminazione fisica dell’imprenditore che non vuole soggiacere al taglieggiamento è da evitare finché possibile.
Eppure, nonostante numerose indagini testimonino come una percentuale imbarazzante dei commercianti e degli imprenditori in Sicilia venga soggiogata dal racket delle estorsioni, nelle ricerche condotte dalla Confindustria il pizzo è solo il sesto problema per gli operatori economici che decidono di investire in Sicilia. Il racket delle estorsioni è considerato ormai un costo d’esercizio sopportabile.
L’altra faccia dell’estorsione è l’usura. Il ricorso al credito usuraio viene sostenuto ed incoraggiato dagli esponenti delle cosche che indirizzano i «clienti» inadempienti o in difficoltà. Ovviamente anche i fornitori dell’usura fanno parte, direttamente o indirettamente, della rete mafiosa. Si condiziona il libero confronto tra concorrenti, privilegiando le imprese meno efficienti, più facilmente esposte al rischio di penetrazione mafiosa. Il commerciante che subisce estorsione può facilmente cadere in tentazione e decidere di affidare le proprie sorti imprenditoriali ai suoi carnefici.
L’estorsione e l’usura sono i primi due livelli – su base territoriale – della penetrazione mafiosa nel circuito legale dell’economia. Il terzo passo consiste nell’acquisizione diretta di imprese o strutture commerciali da parte delle famiglie mafiose, direttamente con propri affiliati o più discretamente con dei prestanome. Il cerchio perfetto si chiude, le strutture acquisite vanno utilizzate anche per rendere liquidi ed immediatamente disponibili i profitti illeciti. È la forma più elementare tra i sofisticati meccanismi utili a riciclare il denaro sporco.
4. «Se noi avessimo la possibilità di confiscare per intero i beni della mafia, non avremmo bisogno di manovre finanziarie e rientreremmo tranquillamente nei parametri di Maastricht», ha recentemente sostenuto il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Antonio Laudati. E ha aggiunto: «Studi recenti hanno portato ad accertare che l’indotto delle attività mafiose dà lavoro al 10% della popolazione siciliana. Ciò dimostra in maniera lampante la gravità del problema rappresentato dalla mafia moderna e dalla sua trasformazione. Oggi la mafia predilige le attività nelle quali guadagna molto e rischia di meno. Così accanto al tradizionale traffico di droga si occupa di contrabbando, di immigrazione clandestina, della contraffazione dei prodotti, attività rispetto alle quali non c’è più il tradizionale rapporto vittima-aggressore. Il nuovo modello di impresa della mafia ha l’obiettivo di offrire prestazioni illecite a persone consenzienti, a persone che le richiedono. Il problema di fondo è che una mafia che guadagna tanti soldi rappresenta un pericolo ancora maggiore. Non ha più bisogno di uccidere o di intimidire, ma compra».
Artefice di questo mutamento di rotta è Bernardo Provenzano, settant’anni appena compiuti di cui più di quaranta da latitante. È l’ultimo dei «corleonesi», la cosca storica che scalzò dai vertici dell’organizzazione mafiosa le antiche e consolidate famiglie palermitane, e annoverò tra le sue file boss sanguinari come Luciano Liggio e Totò Riina.
Per gli inquirenti c’è una data che segna l’avvento al vertice mafioso di Bernardo Provenzano: 15 gennaio 1993. Quel giorno si insediava alla procura della Repubblica di Palermo Gian Carlo Caselli. Quel giorno una squadra del Ros capitanata da Sergio De Caprio, più noto come Ultimo, assicurò alla giustizia Totò Riina, il principale tra gli ideatori delle stragi di Falcone e Borsellino. Il successo di quella cattura eccellente venne immediatamente velato da una ridda di polemiche ancora non sopite. Chi aveva collaborato alla cattura del capo di Cosa Nostra? Perché nessuno perquisì il suo ultimo rifugio? Quesiti ancora aperti, che saranno al centro del processo che vedrà alla sbarra il prefetto Mario Mori, direttore del Sisde, e il tenente colonnello Sergio De Caprio.
Le cronache degli ultimi mesi sono contraddittorie. Oltre a dirci che la mafia gode di ottima salute sul fronte dei profitti, indicano che la leadership di Provenzano è sulla via del declino. Siamo all’autunno del patriarca, come ha scritto il cronista giudiziario del Giornale di Sicilia Riccardo Arena. Segnato nel fisico dall’incedere degli anni, «Binu» soffre le malattie della terza età: problemi ai reni, cataratta agli occhi e una diagnosi di tumore benigno. È stato persino costretto a subire un’operazione alla prostata eseguita in una clinica di Marsiglia. Ovviamente a spese della pubblica amministrazione.
Gli acciacchi, però, sono l’ultimo dei problemi del boss di Cosa Nostra. A più riprese sono state smantellate, una dopo l’altra, le reti di collaboratori da lui faticosamente costruite. Soltanto per un soffio Provenzano ha evitato la cattura. A ogni flop corrisponde una polemica, e più di una volta le cronache giudiziarie hanno raccontato di pezzi deviati di organi investigativi che avrebbero contribuito a mettere in allerta l’anziano uomo d’onore, consentendogli di mantenere intatto il suo record di latitanza. Un vero incubo per polizia e carabinieri, sempre sul punto di acciuffarlo. Alla fine quel che resta è un covo «caldo» e l’ennesimo nugolo di «amici degli amici» a finire in manette. «Prima o poi lo arrestiamo, ma questo non significa che la sua cattura corrisponda alla sconfitta della mafia», sostengono a Palazzo di Giustizia.
La mafia difatti non è una monarchia. Per gli investigatori, il vertice strategico di Cosa Nostra sarebbe composto – oltre che da Provenzano – ancora da Totò Riina e Leoluca Bagarella, entrambi detenuti. Una guida che limiterebbe il suo campo d’azione alla definizione delle linee politico-strategiche. Tutti e tre, afferma la Dia, «ben poco possono fare a livello operativo, laddove invece occorre una costante presenza sul territorio per poter curare gli affari delle famiglie. Per soddisfare questa esigenza, Provenzano ha individuato un gruppo selezionato di responsabili, una sorta di direttorio che guida i diversi territori».
Il dopo Provenzano si prepara da tempo. Il futuro di Cosa Nostra è legato al destino di due uomini: Matteo Messina Denaro da Castelvetrano e Salvatore Lo Piccolo, un palermitano doc. Tra loro due si gioca la partita per la successione al boss corleonese. Profondamente diversi per stile e mentalità, entrambi sono considerati fedeli al dogma Provenzano. Ma cosa succederà quando il padrino sarà costretto a cedere il bastone del comando? Nelle pagine della relazione semestrale del 2004, la Dia spiega che «Cosa Nostra, in tutte le province della Sicilia, non teme rivali tra le altre compagini criminali. Si deve invece guardare dal sorgere di dissidi interni, per evitare processi di destabilizzazione che la porterebbero alla disgregazione. Nel giugno 2004 si è assistito al rilancio del tema della dissociazione dei mafiosi, quale unica via possibile per attenuare i rigori di condanne ormai passate in giudicato. Di fronte ai diversi momenti di difficoltà dell’organizzazione mafiosa, resta comunque l’incognita di un equilibrio difficile, che potrebbe essere rotto in qualsiasi momento e che potrebbe provocare la ripresa di atteggiamenti violenti».
Emerge, come sempre, una doppia anima all’interno dell’associazione criminale. Doppia anima che si confronta provincia per provincia: l’equilibrio raggiunto è talmente fragile da poter collassare in ogni momento, dando il via ad una nuova stagione di violenza. E questo succede a Palermo, a Catania (dove la storica contrapposizione tra i clan Santapaola e Mazzei si sta risolvendo a favore di questi ultimi), a Caltanissetta (provincia dove Cosa Nostra, creando il quarto mandamento nel tentativo di sanare il contrasto con la stidda, ha nei fatti anticipato l’azione dell’amministrazione pubblica che discute da almeno un decennio sul possibile riconoscimento di Gela come provincia), ad Agrigento. Insomma, in ogni luogo dove la mafia impera, il conflitto per la ricerca di una nuova strategia è aperto.
Da un lato vige la tesi di mantenere un profilo basso, per puntare alla massimizzazione dei profitti. È il teorema promulgato più di dieci anni fa da Bernardo Provenzano. Dall’altra parte della barricata gli eredi della stagione delle stragi. I loro eserciti sono indeboliti ed i leader sono quasi tutti assicurati alle patrie galere, ristretti al regime carcerario del 41bis. Hanno subìto innumerevoli espropriazioni e vedono scemare il potere nei confronti della rete parentale di riferimento. Hanno scelto di non collaborare con la giustizia. Mantengono intatto il comandamento dell’omertà. Almeno sino ad ora. Dalle celle del supercarcere di Ascoli, Totò Riina lancia strani messaggi. Chiede di sapere chi sia stato l’infame a tradirlo. Tesi affascinante: su quali collaborazioni hanno potuto contare le forze dell’ordine per la sua cattura? Allude forse proprio a Provenzano? Il verbo di Riina è un veleno che si spande sulla già complicata vicenda – ormai giunta alla fase di dibattimento – del suo arresto e della mancata perquisizione della sua abitazione.
C’è poi una terza via, quella citata nella relazione della Dia come ipotesi di dissociazione. Tra i suoi sostenitori vanno annoverati boss del calibro di Pietro Aglieri. Il percorso da essi evocato non trova punti di appoggio sul piano giudiziario. «Non si capisce bene cosa ci propongano parlando di dissociazione», affermano alla procura di Palermo. Non è chiaro, ma i muri delle città siciliane hanno compreso benissimo il messaggio. Parecchi boss sono pronti ad ammettere le singole responsabilità. Ma lì si fermeranno, non faranno nomi e soprattutto cognomi, la dissociazione consisterà – eventualmente – solo nel dichiararsi colpevoli al fine di ottenere anche piccoli benefici, primo tra tutti l’attenuazione del regime carcerario. Di sicuro non diranno nulla contro i loro affiliati ancora sconosciuti alla magistratura o latitanti.
5. È lecito quindi supporre che la situazione carceraria dei detenuti per reati mafiosi possa incidere sul futuro prossimo della mafia, sempre più «organizzazione» e sempre meno «associazione». È la vera emergenza per i vertici di Cosa Nostra. A Palermo, ricorda Gian Carlo Caselli, «i 650 ergastoli comminati tra il 2000 ed il 2004 sono un dato che si cita con fastidio». Da sempre i boss detenuti in carcere hanno cercato di continuare a dirigere le attività delle loro cosche di riferimento. Così raccontava la pièceteatrale di metà Ottocento I mafiosi di la Vicaria, così tentano di fare oggi i vari Riina e Bagarella. Ma il carcere duro è un limite oggettivo che rischia di tagliare per sempre ogni rapporto di comunicazione con la rete criminale.
Attualmente i detenuti in regime di 41bis sono 611. La maggior parte di loro (210) sono affiliati a Cosa Nostra. Dal settembre 2003 all’ottobre 2004 i detenuti ai quali è stato applicato il regime detentivo speciale previsto dall’ordinamento penitenziario hanno subìto una lieve flessione, passando da 637 al numero attuale. Erano 659 nel 2001 e 650 nel 2002. Una recentissima relazione della commissione parlamentare Antimafia indica come la criminalità organizzata stia tentando di avviare una strategia per eludere le regole del 41bis: «I detenuti comunicano con l’esterno e tra di loro, in modo continuo e ordinario. Si è dunque sottolineata la necessità di un’azione organica e programmata per individuare i punti critici del sistema sul piano operativo e consentire all’amministrazione penitenziaria di intervenire efficacemente ». «Riguardo a questo aspetto», continua la commissione Antimafia, «occorre innanzitutto fornire adeguato rilievo ai fenomeni che hanno accompagnato il periodo di discussione e di approvazione in parlamento della legge n. 279 del 23 dicembre 2002, con ciò facendo riferimento sia ai fenomeni di protesta, sia alla cessazione di tali proteste. Non è inutile ricordare il proclama fatto il 12 luglio 2002 da Leoluca Bagarella davanti ai giudici della Corte d’assise di Trapani (“parlo a nome di tutti i detenuti ristretti all’Aquila sottoposti al regime del 41bis, stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio. (…) Siamo stati presi in giro. (…) Le promesse non sono state mantenute. (…) Intendiamo informare anche questa corte che dal primo luglio abbiamo avviato una protesta civile e pacifica che comprende la riduzione dell’ora d’aria e del vitto”)». La commissione ricorda anche il proclama firmato nel 2002 da Cristoforo Cannella, anch’egli sottoposto al regime dell’articolo 41bis: «Dove sono gli avvocati delle regioni meridionali che hanno difeso molti degli imputati per mafia e che ora siedono negli scranni parlamentari e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi?».
Messaggi minacciosi rivolti alla classe politica, perché «Cosa Nostra si sente alternativa allo Stato, una realtà con le stesse prerogative e gli stessi elementi costitutivi di uno Stato. In quest’ottica ritiene assolutamente legittimo esercitare la sovranità su una parte di territorio nazionale». Messaggi rivolti anche ad indebolire la leadership del latitante corleonese: «Molti uomini d’onore non sono soddisfatti di quanto Bernardo Provenzano ha finora fatto per i numerosissimi affiliati detenuti, spesso con pesanti condanne da scontare». D’altronde, anche i dati ufficiali dimostrano che l’opera di don «Binu» sia da considerare del tutto fallimentare agli occhi delle fazioni «politiche» avversarie: dal 1992 al primo semestre del 2003 sono stati 1.717 i componenti di Cosa Nostra raggiunti da ordinanze di custodia cautelare.
6. La difficoltà nel conciliare i contrasti interni non impedisce agli uomini d’onore di procedere ad una nuova forma di contaminazione dell’ambiente economico e imprenditoriale, rafforzando la presenza della propria rete di interessi soprattutto al di fuori della Sicilia. Secondo la Dia «si assiste anche ad iniziative individuali a carattere prettamente finanziario e imprenditoriale, per lo più riconducibili ad elementi di spicco della consorteria mafiosa, che, essendo riusciti a polverizzare i patrimoni accumulati illegalmente, tendono ora ad emigrare lontano dalle aree di origine per svolgere una vita assolutamente anonima e in tal modo avviare attività societarie e commerciali, quasi sempre nel campo dell’edilizia, coadiuvati da esperti nel campo economico-finanziario non organici a Cosa Nostra. Si tratta, per ora, di una sorta di emigrazione che ha l’ovvio scopo di sottrarsi alla pressante attenzione investigativa dedicata ai mafiosi nelle zone dove essi sono ben conosciuti. Il fenomeno, in ogni caso, deve essere seguito con attenzione per l’ormai ben conosciuta capacità di Cosa Nostra di trasformare queste cellule in vere e proprie articolazioni organiche alla struttura, facendole diventare sue proiezioni al di fuori della Sicilia, da utilizzare per ogni sorta di traffici».
Quella della Dia è molto più di una previsione, poiché si basa su un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta sulle attività economiche dei clan della provincia. Si è così scoperto che anche le agenzie di lavoro interinale possono diventare un’ottima copertura per ramificare la presenza delle cosche. Con un’impresa creata ad hoc, infatti, il clan mafioso di Caltanissetta riusciva a fornire personale a ditte che eseguivano lavori nelle regioni del Centro-Nord ed in particolare a Lucca, Fano, Rimini, Vicenza, Formia, Codogno, Latina, Verona, Firenze, La Spezia, Piacenza, Cassino, Genova, Rho, Perugia, Lodi e Milano. Le richieste erano tante e per accontentare tutti i boss ingaggiavano cassintegrati di Gela che, spinti dal bisogno, accettavano salari bassi e condizioni di lavoro precarie. In cambio la mafia chiedeva una parte dei guadagni degli operai assunti, all’incirca il 25%.
7. Ma è possibile ipotizzare un’omologazione ed un coordinamento tra Cosa Nostra, le altre mafie italiane e le tante forme di criminalità organizzata che operano nel mondo? Poche persone credettero al collaboratore di giustizia Leonardo Messina, quando, poco più di dieci anni fa, iniziò a raccontare dell’esistenza di una supercupola mondiale. Messina descrisse ai giudici italiani le relazioni che integravano i diversi network del crimine operanti in Italia ed all’estero, raccontando l’esistenza di un «quarto livello». Veniva così ipotizzata per la prima volta l’esistenza di una sorta di holding internazionale, dove le più grandi organizzazioni criminali avrebbero pianificato le proprie strategie e concordato le linee decisionali.
Scenari successivamente integrati dalle analisi della Dia e delle altre agenzie di investigazione straniere, secondo le quali alle tradizionali famiglie mafiose siciliane presenti sul territorio italiano si affiancano nuovi gruppi criminali fondati su affinità etniche. Sia la globalizzazione del crimine organizzato – ed i suoi potenziali momenti di contatto con altri fenomeni antisistema come il terrorismo politico e religioso – sia il mantenimento dello status quo nei territori controllati si realizzano e saldano attorno ad un duplice schema di relazioni antagoniste: i gruppi criminali – siano essi di matrice mafiosa o eversiva – possono concorrere al raggiungimento di fini specifici o, in alternativa, competere per il predominio su determinati mercati o territori.
Per comprendere come si materializzi sul piano concreto questo alternarsi di ruoli e compiti, basta prendere ad esempio il circuito del narcotraffico ed in particolare il suo funzionamento nei momenti di crisi tra le varie fazioni mafiose sin dalla fine degli anni Settanta, durante quella che viene ricordata come la seconda guerra di mafia in Sicilia. I corleonesi fedeli a Luciano Leggio, guidati manu militari da Riina e Provenzano, decisero di raggiungere il comando di Cosa Nostra attaccando gli storici clan palermitani. Più che di una guerra di mafia, si trattò di un’operazione di pulizia etnica. I morti si contavano soltanto dal lato delle cosche palermitane. Quella faida mirò – riuscendoci – a sovvertire gli equilibri politici interni all’organizzazione mafiosa. Eppure, un boss del calibro di Gaetano Badalamenti, che secondo le rivelazioni di Buscetta occupava a quei tempi uno dei posti principali nel gotha della Cupola mafiosa, non venne toccato dalla stagione di sangue. Caso unico nella storia della mafia, Badalamenti venne – come si dice nel gergo mafioso – «posato», espulso dal network mafioso. Le competenze dell’anziano «don» di Cinisi e le sue relazioni con i narcotrafficanti stranieri erano considerate un patrimonio comune a tutte le famiglie. «La licenza l’ho soltanto io», gridava al telefono Badalamenti parlando con un suo affiliato, avendo compreso di essere nel mirino di Leggio, Riina e Provenzano. La «licenza» in questione era proprio il controllo internazionale del narcotraffico. Non potendo disperdere quelle risorse, il nuovo direttorio mafioso di rito corleonese risolse «pacificamente» il caso Badalamenti: pur mantenendo un profilo competitivo e sanzionatorio nei confronti del boss di Cinisi – ritenuto avversario in termini di «politica interna» – la strategia adottata con i componenti del suo circuito dedito al narcotraffico rimase di tipo collaborativo.
Più che di un modello teorico, si tratta quindi di un vero e proprio modus operandi. Supponendo che un gruppo criminale debba organizzare una spedizione di narcotici da uno scalo italiano, il primo problema da affrontare per il buon risultato dell’operazione è porsi al riparo da eventuali furti. Ovviamente, il clan non può ricorrere ai metodi legali di assicurazione né ai tradizionali metodi di protezione. O provvederà con propri uomini alla protezione della merce, sopportando i relativi costi o – nell’ipotesi che il luogo di transito sia controllato da un altro gruppo criminale – cercherà di entrare in contatto con quest’ultimo per assicurarsi che la merce giunga al destinatario. Come si vede, ogni gruppo criminale può scegliere il tipo di comportamento da adottare – competitivo o collaborativo – per ogni specifica situazione. Nulla vieta, poi, che il primo gruppo eserciti le medesime funzioni del secondo in un altro contesto, né che il secondo organizzi spedizioni di droga. Anzi, le famiglie mafiose di solito svolgono entrambe le funzioni, visto che, caratterizzandosi come «industria» della protezione privata, la mafia ha nella capacità di controllo del territorio la propria risorsa fondamentale.
Esemplificativa della prassi mafiosa sul territorio è l’inchiesta condotta contro la cosca palermitana di San Lorenzo guidata da Salvatore e Sandro Lo Piccolo. Costoro controllano mezza città e buona parte dell’area nord-occidentale della provincia, sino al confine con Trapani. Dall’inchiesta emerge una mafia ad alta vocazione imprenditoriale, che controlla tutto. Una mafia talmente forte da scoraggiare persino i rapinatori nel proseguire l’attività. I commercianti derubati, infatti, piuttosto che rivolgersi alle forze dell’ordine, contattano esponenti del clan mafioso per cercare di recuperare quanto loro sottratto. E la lunga mano della mafia, ad un costo ragionevole – comprendente l’indennità per i rapinatori e l’aggio per avere risolto il caso – riesce a ristorare il commerciante derubato. È anche il ritratto di una mafia talmente autoritaria e credibile da poter esercitare forme di controllo territoriale ben al di là dei propri confini, mediando ed investendo su aree controllate da altre cosche.
Il costo sociale della mafia è compensato dalla capacità di offrire servizi indispensabili. Non è tanto difficile capire quanto convenga ai cittadini non vedere la mafia. Proprio l’inchiesta sulla mafia di San Lorenzo ha mostrato il volto di una mafia benevola e comprensiva nei confronti delle classi sociali più emarginate. Nel territorio che fa capo alla cosca dei Lo Piccolo è ubicato uno dei quartieri più disagiati della periferia urbana di Palermo: Zona espansione nord, abbreviato Zen. Nulla a che vedere con l’armonia della disciplina orientale; definire lo Zen un quartiere ghetto è sadico eufemismo. La mafia vi alleva le nuove generazioni di manovalanza criminale. E soddisfa quelle esigenze che l’amministrazione pubblica non ha mai saputo risolvere. Scollegati dalla rete elettrica e da quella idrica, buona parte degli abitanti del quartiere hanno fatto ricorso ad una serie di allacciamenti abusivi. Il sistema integrato era gestito dal clan mafioso ad un costo assolutamente abbordabile anche per le precarie condizioni economiche del quartiere. Il costo del servizio oscillava tra i 10 ed i 15 euro. Nei giorni successivi all’operazione antimafia che ha smantellato la rete operativa della famiglia Lo Piccolo, i collegamenti abusivi sono stati rimossi e centinaia di famiglie palermitane sono rimaste senza luce e senza acqua. In quel quartiere c’è già chi comincia a rimpiangere il volto di quegli esattori così comprensivi ed efficienti.
Sarebbe facile ridurre la questione a un problema tutto siciliano. Ma proprio dai quartieri ghetto delle periferie urbane della Sicilia parte la nuova stagione di Cosa Nostra. La sfida planetaria verrà giocata – ancora una volta – con il volto insospettabile di professionisti e finanzieri. «Alterare le regole del mercato»: è questo oggi l’obiettivo di Cosa Nostra secondo Piero Luigi Vigna, procuratore nazionale antimafia.