giovedì 30 novembre 2017

LA FINE DI PRALJAK SCUOTE L' EX-JUGOSLAVIA - LE FORZE POLITICHE CROATE SCHIERATE CON I CONDANNATI - articolo di Limes on Line


LA FINE DI PRALJAK [di Luca Susic]
Slobodan Praljak – ex generale del Consiglio croato di difesa (Hvo) – ha bevuto del veleno subito dopo la sentenza di condanna del Tribunale dell’Aja ed è morto in ospedale. La notizia ha fatto il giro del mondo, portando all’attenzione dell’opinione pubblica una pronuncia che, dopo quella di Ratko Mladić, sarebbe probabilmente finita nel dimenticatoio.
L’inaspettata pubblicità ha spinto numerosi leader croati e bosniaci a esprimersi sulla vicenda e, più in generale, sulla guerra civile, ancora oggi un tema di estremo interesse per il dibattito politico. La ragione è che, proprio per la presenza di ferite ancora aperte, il periodo 1992-1995 permette di scaldare immediatamente gli animi dell’elettorato. Non è un caso che le forze politiche croate si siano schierate trasversalmente a sostegno dei condannati – oltre a Praljak sono stati giudicati altri cinque croati di Bosnia – affermando quasi all’unisono che non c’è stata aggressione ai danni della Bosnia né alcun crimine di guerra.
La reazione della comunità bosgnacca è stata diametralmente opposta. Bakir Izetbegovic, membro musulmano della presidenza della Bosnia-Erzegovina, ha dichiarato che la condanna rappresenta “un timbro su un oscuro lato della verità” e una conferma di come la Croazia abbia condotto una politica ambigua nei confronti di Sarajevo.
Oltre la valenza storica, la condanna presenta un rilevante profilo d’attualità: influisce direttamente sui complessi rapporti fra le diverse comunità della Bosnia e fra i paesi confinanti, il che spiega perché è quanto mai opportuno che venga “maneggiata” con cura. Il rischio, infatti, è che venga strumentalizzata a fini elettorali o propagandistici e che riaccenda il malcontento mai sopito dei croati di Bosnia, ormai schiacciati in un’entità saldamente a maggioranza islamica.

mercoledì 29 novembre 2017

LA CINA PUNTA ALLA MITTELEUROPA - IL VERTICE DI BUDAPEST - ANNUNCIATO INVESTIMENTO DI 660 MILIONI PER L' AEREOPORTO SLOVENO DI MARIBOR - Un articolo di Limes on Line -



LI KEQIANG IN UNGHERIA PER L’EUROPA DI MEZZO
di Giorgio Cuscito

Due obiettivi stanno guidando la partecipazione del primo ministro Li Keqiang al sesto summit tra Cina e 16 paesi dell’Europa centrale e dell’Est (Ceec, di cui 5 non membri Ue) in Ungheria. Il primo è promuovere il commercio e i progetti infrastrutturali della Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta) nell’Europa di mezzo, storico terreno di scontro di grandi potenze, quali Germania, Russia, Usa e Turchia. Lo sforzo è confermato dall’annunciata istituzione di un’associazione interbancaria Cina-Ceec e di un fondo di cooperazione agli investimenti.
Il secondo obiettivo di Li è rassicurare Bruxelles sul fatto che Pechino non vuole rafforzare bilateralmente i rapporti con i paesi partecipanti per creare dissidi interni all’Unione Europea e danneggiarne la coesione. L’Ue, principale partner commerciale della Cina e chiave di volta per l’assegnazione al Dragone dello status di economia di mercato, si sta già attrezzando per tutelare maggiormente i propri asset strategici dagli investimenti stranieri e adottare nuove misure anti-dumping per le importazioni da paesi terzi.
L’interesse cinese per i paesi dell’Europa di mezzo è antecedente il lancio delle nuove vie della seta nel 2013 e dipende sia dalla loro posizione strategica tra Europa occidentale, Russia e Medio Oriente, sia per la convenienza dei costi delle acquisizioni e del capitale umano. Ungheria, Serbia e Macedonia sono le tappe della rotta ferroviaria progettata dalla Cina per trasportare verso l’Europa occidentale le merci che approdano al porto del Pireo, anche se sulla cessione dell’appalto da parte di Budapest pende un’indagine dell’Ue.
Gli effetti della partnership tra Cina ed Europa di mezzo non sono ancora marcati. Gli investimenti cinesi nell’area rappresentano solo il 2,7% di quelli realizzati dal Dragone a livello mondiale e gli scambi commerciali (58,7 miliardi di dollari nel 2016) con i paesi Ceec sono di gran lunga inferiori rispetto a quellicon l’intera Ue (514 miliardi di dollari).
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Intanto, come conseguenza del vertice di Budapest viene annunciato un investimento cinese di ben 660 milioni per l' aereoporto di Budapest (clicca QUI). Si tratta di un investimento molto grande se si pensa che il nuovo terminal della Piattaforma Logistica del Porto di Trieste, di cui si parla da decenni, costa 132 milioni.

Ecco l' articolo del Piccolo:

La Cina sbarca a Maribor e rinnova l’aeroporto

Slovenia nella Via della Seta: Pechino investe 660 milioni di euro per realizzare un hub logistico. Dal 2019 pronti 12 voli settimanali per l’Estremo Oriente
LUBIANA. La Slovenia fa ufficialmente parte del progetto cinese “La via della seta”. L’accordo è stato firmato dal premier Miro Cerar a Budapest nell’incontro tra gli stati dell’Europa centrorientale con il presidente della CinaXi Jinping. Il primo effetto si è visto subito. Il procuratore della proprietà dell’aeroporto di Maribor, ossia la Shs Aviation, Marko Gros ha sottoscritto un accordo con la China State Construction Engineering Corporation (Csec) per un investimento di 660 milioni di euro nello scalo sloveno, che sarà completamente rinnovato e pronto per fare concorrenza agli aeroporti del Nordest italiano.

La palla ora passa al premier e ai suoi rapporti con la delegazione cinese. Ieri Cerar ha parlato per più di mezz’ora con Xi Jinping gettando le basi per la realizzazione di nuove linee aeree che colleghino la Cina proprio con Maribor.

«È nell’interesse della Slovenia gettare le basi per un maggior legame con la Cina, anche in vista di un potenziamento del traffico aereo che costituirebbe anche una facilitazione per l’arrivo nel nostro Paese di turisti cinesi». «Il governo - ha affermato - appoggerà con forza tutte queste occasioni». «Per noi è un grande momento - gli ha fatto eco Marko Kovačič, consigliere del sindaco di Maribor - la firma di questo accordo con un partner di queste dimensioni significa per noi una grande promozione». «L’aeroporto di Maribor - ha concluso - in futuro sarà riconosciuto in Europa e in Asia come un moderno scalo con collegamenti aerei turistici e commerciali con la Cina».

Il progetto cinese a Maribor punta a un allungamento della pista, alla creazione di spazi per lo stallo degli aeromobili, alla costruzione di hangar per la logistica, alkla ristrutturazione degli ambienti aeroportuali, nonché alla costruzione di alcuni alberghi. Va precisato che proprio il 16 novembre scorso il governo della Slovenia ha approvato un progetto di rilancio dell’aeroporto di Maribor nominando ad hoc un gruppo di lavoro. Il progetto governativo prevede l’allungamento della pista dagli attuali 2.500 metri a 3.300 metri, l’ampliamento dell’area aeroportuale, la creazione di nuovi stalli per gli aerei e un’area per lo sviluppo delle infrastrutture aeroportuali. Ora si può dire che ci sono i soldi cinesi che potranno realizzare queste importanti opere che trasformeranno l’aeroporto di Maribor in uno scalo assolutamente concorrenziale con i principali aeroporti della regione, incluso il Nordest dell’Italia.

Va detto che attualmente l’aeroporto di Maribor naviga in cattive acque. È riuscito a ottenere una sola linea aerea fissa con Antwerpnom e Londra. Ma il consigliere economico del sindaco di Maribor non esclude che in futuro ci possano essere dei cambiamenti nella proprietà dello scalo il cui 60% è attualmente in mani olandesi e il residuo 40% in mani, guarda il caso, cinesi. Intanto il ministero per le Infrastrutture della Slovenia ha immediatamente chiesto alle autorità di Maribor di fornire ufficialmente i contenuti dell’accordo milionario con il partner cinese visto che lo Stato sloveno è il proprietario delle strutture pubbliche dello scalo “Edvard Rusjan” del capoluogo stiriano.

Anche il ministero dell’Ambiente di Lubiana si è immediatamente attivato visto che è già in corso la valutazione di impatto ambientale del progetto di ampliamento dell’aeroscalo approvato, come detto, il 16 novembre scorso dall’esecutivo Cerar.

In base all’accordo da 660 milioni il progetto di ampliamento dello scalo di Maribor dovrebbe essere ultimato



lunedì 27 novembre 2017

La condanna di Ratko Mladić e il senso di colpa della Serbia - Articolo di Limes on Line


MLADIĆ [di Luca Susic]

A 22 anni da Srebrenica, con la condanna al carcere a vita di Ratko Mladić per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra si conclude una delle pagine più buie della storia del conflitto nei Balcani degli anni Novanta. Il verdetto del Tribunale penale internazionale sulla ex Jugoslavia è stato atteso e sognato per anni dalle famiglie delle vittime della guerra, mentre rappresenta un motivo di divisione all’interno del popolo serbo.
Ancora oggi c’è chi ritiene Mladić un eroe (basti pensare ai “duri” della Republika Srpska o al Partito radicale di Šešelj) e pertanto si oppone con decisione alle accuse avanzate dalla comunità internazionale.
Dall’altro lato ci sono numerosi cittadini e personalità che lo reputano un criminale di guerra che ha solo avuto ciò che gli spetta.
Nel mezzo fluttua la maggioranza silenziosa della popolazione, interessata forse più a chiudere questa dolorosa vicenda che al verdetto della corte.
Proprio questo aspetto costituisce uno degli elementi su cui riflettere maggiormente. Tra i serbi è diffusa la convinzione che a loro sia stata non solo addossata l’intera responsabilità della guerra civile, ma anche imposto l’obbligo di accettare una versione della storia che non riconoscono come propria. Soprattutto per quanto riguarda la tesi che ai loro danni non siano stati commessi crimini particolarmente gravi (si pensi alle azioni di Naser Orić o all’operazione Oluja).
Questa opinione non può essere contestata in pieno, perché in una certa misura è vero che l’Europa e gli Usa hanno prestato grande attenzione al contenimento del nazionalismo dalla Serbia, lasciando che questo crescesse in altre realtà locali, come Croazia, Bosnia-Erzegovina, Kosovo e Macedonia. Ecco perché aver condannato Mladić al carcere a vita non è altro che un semplice passo avanti nella difficile strada verso la rappacificazione.

martedì 21 novembre 2017

"LA REPUBBLICA" INTERVISTA PARAG KHANNA, CHE SARA' A TRIESTE IL 28 NOVEMBRE ALLE 18, AULA MAGNA LICEO DANTE a presentare il suo nuovo libro - “Da Amburgo a Singapore, vivremo in un sistema di città-stato interconnesse” -

Oggi la Repubblica ha una pagina intera con un' intervista a Parag Khanna, l' analista geopolitico di Singapore di riferimento per la CNN e che è consulente di numerosi governi, in particolare sul suo ultimo libro: "La rinascita delle Città Stato" che fa seguito al magistrale "Connectography".
Ricordiamo che Parag Khanna sarà a Trieste 

MARTEDI' 28 NOVEMBRE ORE 18 -

Aula Magna del Liceo Dante
Via Giustiniano 11  - Trieste
“Da Amburgo a Singapore, vivremo in un sistema di città-stato interconnesse”

Ecco l' articolo pubblicato oggi  da Repubblica:

“Anche gli imperi cadono il futuro è nella polis”
di Anna Lombardi

«Il futuro è già qui: entro trent’anni la politica mondiale sarà dominata da macro-città, megalopoli influenti e così connesse fra loro da non doversi più piegare al concetto di confine. Città- stato efficienti sul modello di quelle antiche: dunque non necessariamente indipendenti ma con un’autonomia tale da potersi impegnare in relazioni globali di cui beneficerà tutto il territorio circostante».
No, il geopolitologo di origine indiana Parag Khanna, 40 anni e già un curriculum ricco di bestseller e consulenze governative internazionali, non è un visionario distopico.
Ex consigliere di Barack Obama, analista del Centre on Asia and Globalization di Singapore, nel suo ultimo saggio, La rinascita delle città-stato, pubblicato in Italia da Fazi, vede le città come motore di progresso e governabilità.

Da dove nasce questa sua visione della polis?

«Le polis, le macrocittà appunto,sono da sempre il luogo dove si danno risposte pratiche a problemi ampi: gestione del territorio ma anche lavoro, ambiente, educazione e così via. Non è qualcosa
di astratto, succede già. Penso a Singapore: città e stato. Ma anche ad Amburgo che esercita la sua influenza sul mondo da 700 anni. A Dubai, che conta su una rete di relazioni d’affari pur non essendo la capitale degli Emirati Arabi. E poi Istanbul, New York, Londra, Milano. 
Senza dimenticare le province cinesi: il Guangdong, che ha uffici ovunque e chiede voli che non passino da Pechino.
Perché questo sistema funzioni l’autonomia deve bilanciarsi con la condivisione delle rispettive migliori pratiche di governo».

La tecnocrazia diretta di cui parla nel libro? Lei fa gli esempi di Svizzera e Singapore, ma non teme che siano troppo diverse da noi e che importare quei modelli sia impossibile?

«La tecnocrazia diretta è una forma di governo efficiente, capace di dare risposte immediate.
Non è un’alternativa alla democrazia che è il sistema all’interno del quale ci muoviamo: istituzioni, leggi, burocrazia sono un’altra cosa.
Certo che non si può innestare il sistema di altri: bisogna declinarlo alle proprie esigenze.
Nelle scienze politiche si parla del “problema della Danimarca”, l’eccellenza cui tutti aspirano ma nessuno raggiunge. Bisogna guardare a ciò che funziona altrove e usarlo come un menù: imparare 
da Singapore, Svizzera, Canada, Giappone...».

Le pare fattibile in un’Europa attraversata da pulsioni sempre più indipendentiste?

«Sì, e proprio perché i movimenti indipendentisti guardano a città di riferimento: Barcellona per la Catalogna, Edimburgo per la Scozia e così via. Garantiscono identità e organizzazione tecnocratica».

Quello che sta succedendo in Spagna non dimostra che polis e stati sono in rotta di collisione?

«La Catalogna è una buona idea finita male. Ho simpatia per i movimenti di autodeterminazione, ma qui ha prevalso l’emotività.
Madrid non può permettersi di perdere le entrate fiscali catalane: la Spagna non reggerebbe.
Ma bisogna trovare un accordo che dia ai catalani più autonomia fiscale in cambio di una tassa annuale per i servizi che Madrid fornisce. Il governo spagnolo dovrebbe però impegnarsi ad investire di più in infrastrutture come il corridoio costale importantissimo per la Catalogna».

Tutta questione di soldi? La gente parla di identità, di sovranismo contro globalismo.

«Ne parlano i politici per i loro interessi: la gente non sa nemmeno che significa.
Nei paesi che funzionano è un dibattito che non esiste, basato su una falsa dicotomia: nessuno è autarchico, tutto ha ormai dimensione globale»

E dunque?

«Io la vedo così: crescere separati per stare insieme. Nessuno sopravvive da solo, ma stati sempre più piccoli farebbero bene all’Europa perché vorrebbero stare al suo interno. I catalani vogliono uscire dalla Spagna non dall’Europa: sanno che se battessero moneta nessuno investirebbe.
Vogliono dividersi per ragioni fiscali. Dunque sì, è principalmente questione di soldi: l’identità viene dopo. E poi sanno che più i paesi sono grandi più i governi sprecano o sono corrotti»

L’Europa sembra perennemente in crisi, dilaniata da separatismi e populismi.

«Io vedo invece un futuro dinamico. Le crisi fanno bene all’Europa, nata proprio dal superamento di crisi dopo crisi. Creano opportunità: ma poi bisogna spiegarle alla gente. Nessun politico europeo, a parte Angela Merkel che poi ha dovuto fare marcia indietro, ha detto che l’immigrazione
serve, perché senza immigrati chi pagherà le pensioni, chi si occuperà degli anziani, visto il calo delle nascite? Si insegue l’onda emotiva, invece di guidarla».

Non ha sentito nessun politico dire certe cose, dunque: ma c’è qualcuno che le piace di più?

«Mi interessa Emmanuel Macron, l’unico capace di spiegare che la situazione non è uno scherzo e a capire che la Francia è ormai troppo grande: bisogna alleggerirne il sistema economico e politico. Anche Mark Rutte, il premier olandese, è bravo, ha saputo imporre importanti tagli a dispetto delle critiche. Ma nessuno va verso il “consenso depoliticizzato” che sicuramente funziona: governi con ampie coalizioni, dove i politici si mettono d’accordo su cose concrete da fare».

Anche sotto la spinta pressante dei populismi?

«È proprio questo il punto. I populisti al governo sono un disastro ovunque ma bisogna capire che di destre, populisti e di chi ha votato Brexit non ci libereremo con belle parole.
Non sono irrazionali: pensano ai propri interessi.
È sbagliato metterla in termini di valori: che siano nazi, cristiani oltranzisti, socialisti, hanno una visione. Dobbiamo capirla e lavorare su quella.
Il problema sono i migranti? Allora dobbiamo spiegare meglio che l’immigrazione serve ma anche 
far leggi più restrittive perché chi entra non abusi del suo diritto a star qui».

L’Italia andrà al voto tra qualche mese.

«Mi hanno cercato i Cinque Stelle, ma io lavoro solo con i governi e ho rifiutato collaborazioni.
Era ottima l’idea delle regioni metropolitane dell’ex premier Matteo Renzi. Chi governerà deve lavorare in quella direzione: città che mettono insieme risorse e competenze.
Poi il vostro credito andrebbe coperto con bond europei per permettervi di ristrutturare il debito.
E dovete risolvere la questione immigrati.
L’Italia non può farcela da sola, ma i migranti vi servono per garantire un futuro al paese. Un buon inizio sarebbe approvare lo Ius Soli. Le politiche che avete ora non aiutano l’inclusione ».



domenica 19 novembre 2017

LA BALCANIZZAZIONE DELLA SPAGNA VISTA DAI BALCANI - ISTRIA, BOSNIA, DALMAZIA ECC.- La questione Catalana e l' inerzia della UE possono alimentare fortemente gli autonomismi nei Balcani - Un articolo di LimesOnLIne


La dichiarazione d’indipendenza della Catalogna e la maldestra gestione della crisi da parte di Madrid e dell’Unione Europea possono alimentare gli autonomismi in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Serbia. Creando ulteriori margini di manovra alle potenze extracontinentali.
di 
La proclamazione dell’indipendenza della Catalogna ha portato numerosi esperti (e non) a chiedersi se una concreta secessione di Barcellona avrebbe un effetto domino in altre parti d’Europa.

A partire dai Balcani, che rappresentano ancora uno dei punti più incerti della cartina continentale, come dimostrano l’esperienza degli anni Novanta e le persistenti spinte centrifughe.

Sebbene sia improprio un paragone tra la situazione catalana e quella balcanica, non mancano nell’ex Jugoslavia regioni spesso considerate a rischio “separatismo”: l’Istria in Croazia, la Republika Srpska e l’Herceg Bosna in Bosnia-Erzegovina e la Vojvodina in Serbia.

Questa categorizzazione risulta però imprecisa, in quanto tende ad accomunare territori con trascorsi estremamente diversi e soprattutto rivendicazioni e necessità agli antipodi. Per spiegare tale affermazione è sufficiente approfondire i diversi casi e verificare come, sia dal punto di vista interno sia da quello estero, non vi siano che pochi tratti in comune.

L’Istria allo stato attuale non ambisce all’indipendenza, sebbene spesso venga detto diversamente. Per la regione è importante manifestare apertamente e senza limitazioni la propria diversità rispetto al resto del paese, un aspetto divenuto particolarmente sentito in virtù della svolta politica avvenuta in Croazia negli ultimi anni.

A seguito della secessione dalla Jugoslavia si è radicato nel paese un nazionalismo a tratti esasperato, che ha determinato una vera e propria riscrittura della storia nazionale, la delegittimazione del periodo socialista e l’esaltazione di ciò che potremmo definire “croatitudine” – ossia, l’insieme di comportamenti e idee che differenziano un buon croato dai “komunjari” (termine dispregiativo per i filo-jugoslavi) o dalle nazionalità confinanti.

Ciò ha incontrato l’ostilità della ragione culturalmente più eterogenea della Croazia, la quale ha finito per fare della propria peculiarità il suo leitmotiv. Sebbene oramai la componente croata sia maggioritaria, l’eredità della dominazione veneta e austriaca è ancora fortemente radicata nella topografia locale, negli usi e costumi e nella lingua, rendendo inaccettabile una politica basata su un rigido nazionalismo.

Sul piano pratico ciò è facilmente constatabile considerando che la Skupština (il parlamento regionale) tutela per legge le minoranze linguistiche senza che ciò produca tensioni come avviene, per esempio, in Slavonia (si pensi al caso di Vukovar) o come diversi parlamentari abbiano addirittura proposto di adottare una norma che vieti il revisionismo storico e l’esposizione di simboli nazi-fascisti.

Accanto a questi aspetti, c’è anche la diffusa convinzione che l’attuale centralismo della Croazia non sia rispondente alle esigenze delle regioni politicamente ed economicamente più sviluppate.

Nonostante il pil pro capite più alto del paese e spese inferiori ai contributi che versa allo Stato – nel 2013 il surplus ammontava a oltre 100 milioni di euro – l’Istria ha limitate capacità di influenzare le scelte politiche che contano. Perciò esponenti di spicco della politica locale hanno dichiarato nelle scorse settimane che l’obiettivo dei diversi partiti regionali sarà quello di ottenere maggiore autonomia dal centro, senza mettere in pericolo l’unità del paese.

Anche ammettendo che l’ala dura dei regionalisti istriani possa acquisire voce e che il tema dell’indipendenza diventi in futuro preminente, risulta difficile prevedere su quali appoggi esterni potrebbero contare.

Per buona parte dei paesi interessati ad aumentare la propria influenza nei Balcani o a
limitare il peso di Russia e Cina, infatti, la Croazia svolge un ottimo ruolo di antagonista alla Serbia (partner di Mosca e Pechino) e potrà continuare a farlo solo controllando una delle sue regioni più ricche.

Più complessa è la partita giocata in Serbia. Precisamente in Vojvodina, terra storicamente di confine tra il mondo slavo e quello magiaro, abitato da una moltitudine di nazionalità e passato più volte di mano nel corso dei secoli. La posizione strategica e le buone condizioni economiche, infatti, la rendono una zona in cui il controllo di Belgrado è limitato dalle influenze ungheresi e, in parte, croate. Per i paesi limitrofi, la presenza di connazionali e le ricchezze locali rappresentano un valido motivo per alzare la voce ogni qual volta reputino danneggiati i propri interessi.

Budapest non può contare su una quota etnica maggioritaria nell’attuale provincia autonoma della Vojvodina – dove la popolazione ungherese non ha mai rappresentato la maggioranza assoluta – ma continua a guardare con interesse a un ex territorio dell’Impero Austro-ungarico nel quale, grazie alla leggesulla cittadinanza automatica per gli “ungheresi all’estero” e gli investimenti economici, ha riguadagnato influenza negli ultimi anni, per ora solo sotto forma di soft power.

Nel parlamento locale, i partiti etnici magiari rappresentano il 7%, mentre un altro 7,5% appartiene alla Lsv (Lega dei socialdemocratici di Vojvodina) – un movimento regionalista che si dichiara rappresentante di tutti i diversi popoli residenti nell’area. Quest’ultimo, anche se decisamente meno influente del partito del presidente Vučić che da solo può contare sulla maggioranza assoluta, rappresenta una costante voce di contrasto verso l’establishment belgradese e si fa portavoce dell’insoddisfazione verso le politiche centraliste.

Sebbene la Vojvodina goda di ampia autonomia, l’Lsv e altri movimenti minori reclamano ulteriori libertà, con l’obiettivo di trasformare la Serbia in una sorta di federazione e di valorizzare ulteriormente la specificità e l’economia locali a scapito delle zone più arretrate del paese. Non a caso nel 2014 la Vojvodina costituiva il 27,4% del pil nazionale, con un valore pro capite di 564 mila dinari, che la posizionava dopo la capitale, ma prima della Serbia occidentale e di quella sud-orientale.

Va infatti riconosciuto che negli ultimi anni i governi hanno focalizzato l’attenzione sulla capitale, vera città vetrina del paese, e in misura minore sul Sud-Ovest della Serbia che, in quanto zona depressa, ha potuto beneficiare di alcune politiche ad hoc.  Il governo cerca di ridurre il gap economico e occupazionale promuovendo soprattutto gli investimenti esteri, l’ultimo dei quali effettuato dell’austriaca Zumtobel. La ricca Vojvodina è quindi rimasta in secondo piano; da qui tali rivendicazioni.

Benché l’Lsv sia ufficialmente contrario alla secessione, ha sostenuto e salutato con favore quella annunciata dalla Catalogna, lasciando ragionevolmente supporre che se si dovessero presentare le condizioni giuste potrebbe spingere nella medesima direzione.

Al momento non ci sono elementi per ipotizzare un’evoluzione in tal senso. Un’eventuale rottura tra Novi Sad e Belgrado verrebbe salutata con favore da Budapest e probabilmente Zagabria, mentre sarebbe ostacolata apertamente dal blocco di paesi contrari al revanscismo ungherese, fra cui spiccano Romania e Slovacchia.

Ben più critica e di immediata attualità è la situazione della Bosnia-Erzegovina, paese per cui urge trovare una soluzione alternativa agli ormai superati accordi di Dayton. I rappresentanti delle tre etnie conducono politiche apertamente divergenti e spesso addirittura in conflitto. Mentre la sempre più debole comunità croata guarda alla progressiva integrazione con la Dalmazia, infatti, i leader bosgnacchi hanno ormai trovato nella Turchia il loro riferimento internazionale, mentre la Republika Srpska conta i giorni che la separano dal ricongiungimento con la Serbia.

Ciò è effetto diretto della convivenza in uno Stato menomato e a sovranità limitata di un popolo che ha passato quattro anni a combattersi con una ferocia che l’Europa non credeva più possibile, senza la possibilità di alimentarsi di qualcosa che non fosse l’odio per il proprio vicino. Le continue promesse di un’immediata integrazione, unite alla debolezza dimostrata nei confronti dell’influenza statunitense, russa e soprattutto del radicalismo islamico, hanno reso l’Europa un partner poco credibile e contribuito ad accrescere le differenze già esistenti.

Uno dei migliori candidati a seguire l’esempio catalano sarebbe proprio la Bosnia-Erzegovina, se lo scontro fra Madrid e Barcellona dovesse proseguire e lo schieramento europeo contrario all’indipendenza dovesse frammentarsi.

La Republiska Srpska ormai da anni reitera l’intenzione di porre fine all’esperienza unitaria e, imitando quanto già fatto da Slovenia, Croazia, Macedonia, Montenegro e Kosovo, procedere verso la strada dell’autodeterminazione. Data la forte maggioranza etnica serba, una sua separazione potrebbe essere “relativamente” indolore ma non verrebbe sicuramente accettata da Sarajevo, soprattutto ora che la componente islamica rappresenta la maggioranza della popolazione bosniaca – anche se concentrata nella Federazione croato-musulmana.

In tal caso è probabile che la Serbia appoggerebbe apertamente la decisione dei propri connazionali, dopo un’iniziale incertezza di facciata, magari cercando un’intesa con la Croazia che potrebbe rimpossessarsi dell’Herceg Bosna – la parte del paese abitata da croati e visceralmente contraria al nuovo corso islamico-conservatore promosso da alcuni leader bosgnacchi.

Non potendo contare sul sostengo di altri attori locali questi sarebbero costretti a rivolgersi altrove, magari usando i buoni rapporti che vantano con Turchia, Arabia Saudita ed Emirati – certamente ben contenti di poter mettere piede ufficialmente in Europa. Ciò potrebbe determinare lo scoppio di un nuovo conflitto, come ha recentemente ricordato il rappresentante musulmano-bosniaco Bakir Izetbegović, dichiarandosi pronto alla guerra per difendere la sua patria.

La scelta più difficile spetterebbe quindi all’Unione Europea, che si troverebbe costretta a decidere se supportare la linea seguita sinora o se cercare di prendere in mano la situazione e guidare una transizione pacifica cercando di tenere il più lontano possibile gli attori esterni quali Russia e Cina, sempre più vicina alla Serbia.

Scenari che sembrano lontani o irrealistici; ma fino a qualche mese fa pochi ritenevano possibile che la Catalogna si dichiarasse indipendente sfidando apertamente la Spagna e l’intero continente. Ecco perché urge prestare massima attenzione all’area balcanica, che rischia di essere pesantemente destabilizzata da questa nuova ondata di autonomismo.

venerdì 17 novembre 2017

CHE COSA È COSA NOSTRA - In occasione della morte di Totò Riina, dall' archivio di Limes -


La pax mafiosa è un segno di forza: le cosche controllano oggi gran parte del territorio siciliano. Regole, tecniche e limiti di un peculiarissimo potere criminale che l’anno scorso ha ‘fatturato’ 30 miliardi di euro. Le nuove frontiere degli uomini d’onore.

1. «CHI È IL TERZO CHE SEMPRE TI CAMMINA ACCANTO? Se conto siamo soltanto tu ed io, insieme. Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca, c’è sempre un altro che ti cammina accanto». È così la Sicilia, waste land segnata dal giogo mafioso che si riverbera nelle parole del tuono. Bella, meravigliosa e terribile, terra desolata che non sempre concede di sapere con chi si parli o cammini, perché da più di due secoli c’è sempre un quid in più. Un’ombra è pronta a materializzarsi e chiedere – o chiudere – il conto: la mafia.
Dalle formazioni protomafiose del periodo prerisorgimentale all’imperio nelle campagne gestito mediante il controllo del latifondo, la mafia ha fatto irruzione in tutti i grandi agglomerati urbani. Leonardo Sciascia l’aveva previsto: «Se dal latifondo riuscirà a migrare e consolidarsi nelle città, se riuscirà ad accagliarsi intorno alla burocrazia regionale, se riuscirà ad infiltrarsi nel processo d’industrializzazione dell’isola, ci sarà ancora da parlare, e per molti anni, di questo enorme problema». Qualche anno dopo, il «maestro» di Racalmuto corresse il tiro, perché la mafia era persino andata al di là delle sue già fosche previsioni: «È diventata fenomeno più vasto, indefinibile e – visibilissima nei suoi molteplici effetti – invisibile nella sua gestione, nei suoi capi, nei suoi legami, nelle sue connivenze e protezioni. Droga e traffico d’armi l’hanno fatta dilagare in ogni parte del mondo».
Potrebbe esaurirsi qui ogni tentativo di analisi del fenomeno della mafia nel Terzo millennio. Sono in molti a sostenere che per più di un aspetto Cosa Nostra è ormai imbattibile, poiché gran parte delle sue ramificazioni hanno il volto rassicurante di una fittizia e superficiale legalità. Una soluzione comoda: chi vuole può chiudere gli occhi, chi brama può speculare ed arricchirsi.
Ecco perché «la mafia ha vinto ed io sono un sopravvissuto. La mafia si è infiltrata nei principali ingranaggi economici, specie nei grandi lavori pubblici, ha tessuto nuovi legami con le forze politiche e continua a fare i suoi affari indisturbata. La pace mafiosa regna perché Cosa Nostra non ha più bisogno della violenza per assicurare il suo predominio; è già riuscita ad eliminare, uccidendoli o mettendoli fuori gioco, la maggior parte dei giudici e dei poliziotti che la minacciavano». Giugno del 2000, la presa d’atto di uno Stato incapace di fronteggiare il crimine organizzato – se non addirittura del tutto sconfitto – reca in calce la firma di Ferdinando Imposimato, magistrato che in carriera più volte ha incrociato le trame di Cosa Nostra, coordinando, tra l’altro, le indagini sulla banda della Magliana e quelle sul finto sequestro del banchiere Michele Sindona. Una provocazione, quella di Imposimato, utile però a dimostrare l’esistenza di un conflitto ancora aperto per il controllo del territorio: la battaglia principale si gioca in Sicilia, dove la mafia s’è innestata progressivamente nel territorio, impiantandovi il suo modello criminale e i suoi codici subculturali.
Per capire quanto incida oggi questo fenomeno nella percezione della Sicilia e dei siciliani, basta ricordare che «mafia» è il termine italiano più conosciuto all’estero, soprattutto è il più utilizzato dai media quando parlano dell’Italia e degli italiani.
Secondo il teorema reso celebre da Luciano Violante, la storia della mafia va suddivisa in cicli di dieci anni. È questo il lasso di tempo orientativo che servirebbe alle cosche mafiose per cambiare pelle, obiettivi e strategie, adattandosi – e in certi casi anticipando – gli scenari sociali, economici e politici. L’ennesimo ciclo della mafia siciliana s’avvia a compimento, un ricambio generazionale dei vertici dell’organizzazione è in atto. Cosa Nostra prepara l’ennesima mutazione. Oggi la chiamano «mafia invisibile», dissimulando per novazione ciò che Sciascia aveva pronosticato mezzo secolo prima. Tutti sanno che c’è, ma chi non vuol vedere o finge di non capire può tranquillamente sostenere di non intuirne la presenza. La mafia è sommersa, ed è – per usare la metafora del procuratore di Palermo Pietro Grasso – «come una goccia d’olio che cade su una tela e si diffonde impregnando del tutto la trama del tessuto». Cosa Nostra ha rinunciato allo scontro armato per dedicarsi agli affari, leciti e non. Ha solo un punto debole: «È fatta di uomini e come in ogni vicenda umana, ad ogni inizio seguirà anche una fine». Così amava ripetere Giovanni Falcone.
Come ogni organizzazione segreta, la mafia siciliana possiede i suoi riti e le sue regole. Il suo profilo territoriale è composto da un’articolazione per mandamenti sulle nove province della Sicilia. Il rito di affiliazione mafiosa è un sincretismo religioso ed esoterico, mutuato – secondo gli storici – dalle regole carbonare e massoniche e da alcuni aspetti estremi del cattolicesimo, ai limiti della prassi inquisitoria.
Il mondo mafioso ha una «regola» informale, una sorta di codice costituzionale che stabilisce diritti, doveri e comportamenti degli affiliati. È probabile che si tratti esclusivamente di una tradizione tramandata oralmente, anche se, a metà degli anni Novanta, il collaboratore di giustizia Salvatore Facella suggerì ai magistrati palermitani l’esistenza di un codice scritto di Cosa Nostra. Sarebbe stato redatto da un avvocato siciliano nel periodo della repressione fascista del superprefetto Cesare Mori. Per Facella, la riscrittura, l’emendamento di uno o più punti di quel presunto codice segreto sarebbe stato alla base della guerra di mafia degli anni Settanta.
All’inizio degli anni Novanta, l’Arma dei carabinieri stilò un rapporto a uso interno per stimare la situazione mafiosa in Sicilia: uno dei primi tentativi di censimento dell’universo di Cosa Nostra. I dati raccolti riportavano la presenza di 142 «famiglie» – la cellula di base dell’organizzazione mafiosa – operanti nella regione, ognuna con uno specifico territorio di pertinenza. L’esercito mafioso veniva quantificato in circa 3.600 unità. La valutazione dell’Arma vedeva concordi i magistrati impegnati nel contrasto al crimine organizzato di stampo mafioso. Ma si trattava di una pericolosa sottovalutazione dell’impatto delle cosche mafiose sulla società siciliana. Il rapporto, infatti, limitava il suo campo di indagine solo a coloro che avessero prestato il giuramento di fedeltà all’organizzazione, ovvero agli affiliati nel senso stretto del termine. Si tralasciava il tentativo di quantificare l’inquinamento della società, le palesi connivenze e le contiguità.
La capacità militare ed economica di Cosa Nostra stava per mostrarsi in tutta la sua forza distruttiva. Un moloch gigantesco, in grado di contrapporsi frontalmente allo Stato, che si autolegittima come interlocutore in grado di chiedere condizioni per una coesistenza.

2. A distanza di quindici anni da quella stima effettuata dall’Arma, la rete mafiosa non solo non appare per nulla indebolita, ma continua ad espandersi a macchia d’olio. Cinquemila è il numero supposto dei presunti affiliati. Ma sommando adepti, conniventi e sostenitori occasionali si arriva sino al decuplo. Il drappello di malviventi è diventato esercito. C’è voglia di mafia.
Pessima riproduzione dei gironi danteschi, la struttura relazionale della mafia si articola in cerchi concentrici. Nel più piccolo di essi, vero e proprio «zoccolo duro » dell’organizzazione mafiosa, trovano posto gli affiliati. Sono all’incirca quei cinquemila individui indicati nelle relazioni delle forze dell’ordine e della magistratura. Già più ampio il secondo «girone», una componente connivente che consente la ramificazione degli uomini d’onore in tutti i principali gangli della società. Sono i parenti diretti degli affiliati: una dimensione in cui vedute e comportamenti sono improntati in tutto e per tutto ai codici imposti dall’uomo d’onore. La macchia d’olio si espande con il cerchio successivo, composto da individui della criminalità non associata, il cui obiettivo finale è raggiungere l’affiliazione alle cosche. Nella schiera successiva troviamo la microcriminalità: gioco d’azzardo, spaccio di stupefacenti, ricettazione. Un nucleo di manovalanza criminale a basso prezzo e disponibile sul mercato.
Infine, il sistema di connessione più importante: l’area grigia, la borghesia mafiosa. Per gli investigatori l’ordito della cupola mafiosa è capace di infiltrarsi e gestire cointeressenze in ampi segmenti di ogni categoria professionale. L’adesione alla volontà mafiosa è condizionata, in questa cerchia, dalla concreta possibilità di ottenere vantaggi immediati. È il canale di penetrazione nel mondo legale ed in quello della politica. In questa specifica dimensione operano i «colletti bianchi», professionisti nel riciclaggio e nel reinvestimento dei capitali di provenienza illecita.
Anche sotto il profilo operativo la struttura dei raggruppamenti mafiosi è profondamente diversa dal modulo dei tradizionali clan criminali. Il nucleo centrale è rappresentato allegoricamente dalla cosca, la foglia del carciofo in dialetto siciliano. Al centro del sistema c’è il mafioso, « lu trunzu ri l’omini », il torso del carciofo attorno al quale – in un sistema di relazioni di parentela, amicizia, amicizia strumentale o semplice clientela – ruotano le foglie. Che possono essere singoli individui o interi nuclei familiari e non necessariamente in contatto tra loro. Ulteriore classica distinzione si effettua tra l’alta e la bassa mafia. Gli uomini d’onore, vincolati dal patto d’omertà e di rispetto reciproco, sono inseriti nella prima fascia, riservando a semplici esecutori materiali, criminali di piccolo cabotaggio e giovani disoccupati gli spazi della bassa mafia.
Grazie alle informazioni ottenute con le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, uno dei primi collaboratori di giustizia, venne svelata anche la dimensione territoriale di Cosa Nostra e la sua articolazione in mandamenti e commissioni, su base provinciale, interprovinciale e regionale.
Ne emerse il ritratto di una rete sociale e territoriale così articolata da disporre persino di un proprio volto «istituzionale», capace di incidere sulle scelte politiche di una popolazione. «I voti condizionati dalla mafia? Non meno di 450 mila. In Sicilia una carica elettiva su dieci potrebbe risultare condizionata dal suffragio che, direttamente o indirettamente, gli organismi mafiosi possono fornire»: era il 1995 quando Gian Maria Fara – direttore di Eurispes – snocciolò i suoi dati su mafia e politica. Passarono pochi giorni e nessuno vi prestò più attenzione. «Oggi questi dati sono ancor più precisi e li confermo», dice Fara. E le motivazioni addotte sono così semplici da scoraggiare: «Ogni unità mafiosa è un potenziale moltiplicatore di consenso. I conti sono presto fatti».
Soprattutto, sembrerebbe che l’introduzione del sistema maggioritario abbia involontariamente rafforzato la capacità di espressione politica delle organizzazioni criminali. Il maggioritario rende più facile serrare i ranghi in occasione di competizioni elettorali. Prima i voti venivano distribuiti tra tutte le forze politiche dell’intero arco costituzionale, con l’eccezione delle ali estreme. La maggiore concentrazione si realizzava nei confronti di quei partiti considerati architrave del sistema politico ed amministrativo. «È anche ovvio che sia stato così», sostiene Fara, «perché non va dimenticato che la mafia è un sistema criminale dedito al profitto e ha sempre cercato di individuare i migliori interlocutori presenti sul mercato politico».

3. Appunto, il profitto prima di tutto. Stilemi pseudoculturali e relazioni politiche a parte, il conto economico delle mafie italiane ammonta a più di 100 miliardi di euro. Un giro d’affari più che raddoppiato negli ultimi dodici mesi, per Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona unita, le «quattro cupole» nostrane: un fatturato pari al 7,5% del prodotto interno lordo dell’Italia. A Cosa Nostra tocca quasi un terzo del tesoro criminale. Le principali voci all’attivo sono il narcotraffico (18,2 miliardi di euro), l’infiltrazione nel sistema delle imprese e il controllo degli appalti pubblici (6,5 miliardi di euro).
Non è facile fare i conti in tasca a Cosa Nostra. Al più si possono ipotizzare delle stime. Ci provano reparti specializzati delle forze dell’ordine, istituti di ricerca nazionali come Censis ed Eurispes ed anche i dipartimenti di economia di università straniere, tra cui gli atenei di Amsterdam e Pittsburgh. Incrociando tutti i dati disponibili è possibile ricostruire, con un discreto grado di attendibilità, la storia economica degli ultimi quindici anni di mafia in Italia.
Emerge la crescita esponenziale dei risultati finanziari: il crimine paga. Alla fine degli anni Ottanta, il prodotto di Cosa Nostra siciliana raggiungeva «appena» i 6 mila miliardi di lire. Un primo picco di crescita si registra tra il 1990 ed il 1994: il fatturato, in quel lasso di tempo, oscilla tra i 12 ed i 15 mila miliardi di lire. Nel biennio successivo i dati forniti dal ministero dell’Interno portavano il risultato economico a 23,5 mila miliardi di lire, per sfondare il tetto dei 30 mila miliardi tra il 1998 ed il 1999.
Il cambio di valuta ha notevolmente rafforzato gli affari del crimine organizzato italiano e di Cosa Nostra: 18,5 miliardi di euro nel 2002, poco più di 22 l’anno successivo. L’ultima stima fotografa un risultato economico di circa 30 miliardi di euro per l’anno 2004. E se il fronte delle entrate è sempre contraddistinto dal segno positivo, altrettanto rosea è la situazione delle uscite. Con una sola eccezione. A cavallo tra il 1994 ed il biennio successivo, nel periodo coincidente con una maggiore capacità di repressione del fenomeno criminale da parte dello Stato a seguito delle stragi mafiose, l’area di costi della mafia superava di gran lunga le entrate. Una perdita secca di 40 miliardi di lire al mese. Anche per questo la mafia si è inabissata: lo scontro frontale e violento con lo Stato si era dimostrato controproducente anche sotto il profilo dei risultati finanziari.
L’utile netto generato dagli affari mafiosi rappresenta mediamente il 35% del conto economico complessivo. Fra le voci di spesa che incidono maggiormente ci sono gli «stipendi» da garantire agli affiliati (7,5%). Vengono garantite sostanziose indennità ai latitanti ed alle famiglie dei mafiosi detenuti in carcere. Particolarmente costosi risultano gli investimenti in tecnologia e servizi (il 9% viene utilizzato per pagare auto blindate, acquistare armi, clonare telefoni cellulari e versare i «premi» ai fiancheggiatori). Non supera il 3% il costo della corruzione degli apparati istituzionali.
Tutto lascia presagire che il fatturato generato dal crimine organizzato – sia di Cosa Nostra che dell’intero sistema criminale italiano – possa continuare a crescere. La lettura del bilancio di Cosa Nostra spa dimostra che la quota di fatturato mafioso legata ai traffici è una funzione diretta di propaggini e relazioni internazionali. Relazioni con altre organizzazioni criminali di stampo mafioso che vengono agevolate anche dalla capillare presenza di Cosa Nostra: oltre allo storico rapporto con le famiglie statunitensi, l’allarme per la penetrazione mafiosa tocca quasi tutte le regioni italiane. La rete di relazioni estere degli uomini d’onore può contare su basi strategiche in Gran Bretagna, Germania, Spagna, Francia, Belgio e Turchia, sul versante europeo. Canada, Venezuela, Brasile, Australia e Bolivia sono le sponde intercontinentali più visibili.
Inoltre, è più di un’ipotesi investigativa la collaborazione tra mafia siciliana e ‘ndrangheta. Sono relazioni che si spiegano soprattutto nell’ottica di un business sempre più globale.
Il business mafioso generato in Italia è solo una minuscola goccia nel fiume di denaro realizzato, anno dopo anno, dal crimine organizzato: 1.500 miliardi di dollari, ovvero più del 5% del valore netto della produzione complessiva mondiale.
Un flusso di denaro enorme che scorre nelle arterie del mercato globale, creando sempre maggiore interconnessione tra le multinazionali del crimine. Questa somma di denaro è talmente imponente da rendere difficile che il mercato legale vi rinunci. D’altronde, uno studio dell’Inter Access Risk Management – compagnia tedesca che si occupa di tutelare le banche internazionali da eventuali frodi – dimostra che almeno metà di quei 1.500 miliardi di dollari è investito nel mercato finanziario americano e che l’80% delle joint-venture a capitale straniero registrate a Wall Street è ritenuto a rischio di infiltrazione criminale.
La risposta dello Stato alla crescita esponenziale della multinazionale Cosa Nostra spa è racchiusa nei dati della Direzione investigativa antimafia (Dia) sul valore dei sequestri e delle confische effettuati tra il 1992 ed il 2003. Il totale ammonta rispettivamente a 617,54 milioni di euro (273 milioni di euro sequestrati ex articolo 321 codice di procedura penale più 342,5 milioni di euro sequestrati ai sensi della legge 575/65) e 25,2 milioni di euro di confische (ai sensi della legge 575/65). Un altro dato importante per comprendere la dimensione economica dei sistemi criminali è quello relativo alla capitalizzazione. Secondo le stime della Direzione nazionale antimafia – aggiornate al 2003 – il capitale immobilizzato delle mafie italiane si aggira sui mille miliardi di euro.
Tra le poste iscritte nel bilancio della mafia, c’è un particolare tipo di crimine che connota sui territori le attività della mafia «invisibile». Nonostante non sia la principale tra le voci nell’attivo di Cosa Nostra, l’estorsione è uno dei momenti di più immediata percezione dell’invasività e del controllo del territorio da parte delle famiglie mafiose. Testimonia l’egemonia su un quartiere, l’ossequio dovuto agli uomini d’onore in ragione della protezione fornita. È la cartina al tornasole della pressione intimidatoria delle cosche. Ovvio che si tratti di una forma persecutoria: sono proprio coloro che offrono protezione a minacciare i potenziali utenti del servizio offerto. In termini di marketing è il classico esempio di bisogno indotto.
La leva utilizzata per conquistare quote di mercato è il monopolio della violenza, prerogativa degli organismi statali. Il meccanismo per acquisire clienti è abbastanza semplice. Di solito il primo «esattore» si presenta con una scusa banale, magari sostenendo di essere il funzionario di un ente statale, mandato per un controllo. Una lunga presentazione condita da sottintesi si conclude con l’invito a cercare l’amicizia «giusta». Se il messaggio non viene recepito dal potenziale utente del servizio di protezione, allora iniziano gli atti intimidatori, con una progressione sempre più cruenta. L’eliminazione fisica dell’imprenditore che non vuole soggiacere al taglieggiamento è da evitare finché possibile.
Eppure, nonostante numerose indagini testimonino come una percentuale imbarazzante dei commercianti e degli imprenditori in Sicilia venga soggiogata dal racket delle estorsioni, nelle ricerche condotte dalla Confindustria il pizzo è solo il sesto problema per gli operatori economici che decidono di investire in Sicilia. Il racket delle estorsioni è considerato ormai un costo d’esercizio sopportabile.
L’altra faccia dell’estorsione è l’usura. Il ricorso al credito usuraio viene sostenuto ed incoraggiato dagli esponenti delle cosche che indirizzano i «clienti» inadempienti o in difficoltà. Ovviamente anche i fornitori dell’usura fanno parte, direttamente o indirettamente, della rete mafiosa. Si condiziona il libero confronto tra concorrenti, privilegiando le imprese meno efficienti, più facilmente esposte al rischio di penetrazione mafiosa. Il commerciante che subisce estorsione può facilmente cadere in tentazione e decidere di affidare le proprie sorti imprenditoriali ai suoi carnefici.
L’estorsione e l’usura sono i primi due livelli – su base territoriale – della penetrazione mafiosa nel circuito legale dell’economia. Il terzo passo consiste nell’acquisizione diretta di imprese o strutture commerciali da parte delle famiglie mafiose, direttamente con propri affiliati o più discretamente con dei prestanome. Il cerchio perfetto si chiude, le strutture acquisite vanno utilizzate anche per rendere liquidi ed immediatamente disponibili i profitti illeciti. È la forma più elementare tra i sofisticati meccanismi utili a riciclare il denaro sporco.

4. «Se noi avessimo la possibilità di confiscare per intero i beni della mafia, non avremmo bisogno di manovre finanziarie e rientreremmo tranquillamente nei parametri di Maastricht», ha recentemente sostenuto il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Antonio Laudati. E ha aggiunto: «Studi recenti hanno portato ad accertare che l’indotto delle attività mafiose dà lavoro al 10% della popolazione siciliana. Ciò dimostra in maniera lampante la gravità del problema rappresentato dalla mafia moderna e dalla sua trasformazione. Oggi la mafia predilige le attività nelle quali guadagna molto e rischia di meno. Così accanto al tradizionale traffico di droga si occupa di contrabbando, di immigrazione clandestina, della contraffazione dei prodotti, attività rispetto alle quali non c’è più il tradizionale rapporto vittima-aggressore. Il nuovo modello di impresa della mafia ha l’obiettivo di offrire prestazioni illecite a persone consenzienti, a persone che le richiedono. Il problema di fondo è che una mafia che guadagna tanti soldi rappresenta un pericolo ancora maggiore. Non ha più bisogno di uccidere o di intimidire, ma compra».
Artefice di questo mutamento di rotta è Bernardo Provenzano, settant’anni appena compiuti di cui più di quaranta da latitante. È l’ultimo dei «corleonesi», la cosca storica che scalzò dai vertici dell’organizzazione mafiosa le antiche e consolidate famiglie palermitane, e annoverò tra le sue file boss sanguinari come Luciano Liggio e Totò Riina.
Per gli inquirenti c’è una data che segna l’avvento al vertice mafioso di Bernardo Provenzano: 15 gennaio 1993. Quel giorno si insediava alla procura della Repubblica di Palermo Gian Carlo Caselli. Quel giorno una squadra del Ros capitanata da Sergio De Caprio, più noto come Ultimo, assicurò alla giustizia Totò Riina, il principale tra gli ideatori delle stragi di Falcone e Borsellino. Il successo di quella cattura eccellente venne immediatamente velato da una ridda di polemiche ancora non sopite. Chi aveva collaborato alla cattura del capo di Cosa Nostra? Perché nessuno perquisì il suo ultimo rifugio? Quesiti ancora aperti, che saranno al centro del processo che vedrà alla sbarra il prefetto Mario Mori, direttore del Sisde, e il tenente colonnello Sergio De Caprio.
Le cronache degli ultimi mesi sono contraddittorie. Oltre a dirci che la mafia gode di ottima salute sul fronte dei profitti, indicano che la leadership di Provenzano è sulla via del declino. Siamo all’autunno del patriarca, come ha scritto il cronista giudiziario del Giornale di Sicilia Riccardo Arena. Segnato nel fisico dall’incedere degli anni, «Binu» soffre le malattie della terza età: problemi ai reni, cataratta agli occhi e una diagnosi di tumore benigno. È stato persino costretto a subire un’operazione alla prostata eseguita in una clinica di Marsiglia. Ovviamente a spese della pubblica amministrazione.
Gli acciacchi, però, sono l’ultimo dei problemi del boss di Cosa Nostra. A più riprese sono state smantellate, una dopo l’altra, le reti di collaboratori da lui faticosamente costruite. Soltanto per un soffio Provenzano ha evitato la cattura. A ogni flop corrisponde una polemica, e più di una volta le cronache giudiziarie hanno raccontato di pezzi deviati di organi investigativi che avrebbero contribuito a mettere in allerta l’anziano uomo d’onore, consentendogli di mantenere intatto il suo record di latitanza. Un vero incubo per polizia e carabinieri, sempre sul punto di acciuffarlo. Alla fine quel che resta è un covo «caldo» e l’ennesimo nugolo di «amici degli amici» a finire in manette. «Prima o poi lo arrestiamo, ma questo non significa che la sua cattura corrisponda alla sconfitta della mafia», sostengono a Palazzo di Giustizia.
La mafia difatti non è una monarchia. Per gli investigatori, il vertice strategico di Cosa Nostra sarebbe composto – oltre che da Provenzano – ancora da Totò Riina e Leoluca Bagarella, entrambi detenuti. Una guida che limiterebbe il suo campo d’azione alla definizione delle linee politico-strategiche. Tutti e tre, afferma la Dia, «ben poco possono fare a livello operativo, laddove invece occorre una costante presenza sul territorio per poter curare gli affari delle famiglie. Per soddisfare questa esigenza, Provenzano ha individuato un gruppo selezionato di responsabili, una sorta di direttorio che guida i diversi territori».
Il dopo Provenzano si prepara da tempo. Il futuro di Cosa Nostra è legato al destino di due uomini: Matteo Messina Denaro da Castelvetrano e Salvatore Lo Piccolo, un palermitano doc. Tra loro due si gioca la partita per la successione al boss corleonese. Profondamente diversi per stile e mentalità, entrambi sono considerati fedeli al dogma Provenzano. Ma cosa succederà quando il padrino sarà costretto a cedere il bastone del comando? Nelle pagine della relazione semestrale del 2004, la Dia spiega che «Cosa Nostra, in tutte le province della Sicilia, non teme rivali tra le altre compagini criminali. Si deve invece guardare dal sorgere di dissidi interni, per evitare processi di destabilizzazione che la porterebbero alla disgregazione. Nel giugno 2004 si è assistito al rilancio del tema della dissociazione dei mafiosi, quale unica via possibile per attenuare i rigori di condanne ormai passate in giudicato. Di fronte ai diversi momenti di difficoltà dell’organizzazione mafiosa, resta comunque l’incognita di un equilibrio difficile, che potrebbe essere rotto in qualsiasi momento e che potrebbe provocare la ripresa di atteggiamenti violenti».
Emerge, come sempre, una doppia anima all’interno dell’associazione criminale. Doppia anima che si confronta provincia per provincia: l’equilibrio raggiunto è talmente fragile da poter collassare in ogni momento, dando il via ad una nuova stagione di violenza. E questo succede a Palermo, a Catania (dove la storica contrapposizione tra i clan Santapaola e Mazzei si sta risolvendo a favore di questi ultimi), a Caltanissetta (provincia dove Cosa Nostra, creando il quarto mandamento nel tentativo di sanare il contrasto con la stidda, ha nei fatti anticipato l’azione dell’amministrazione pubblica che discute da almeno un decennio sul possibile riconoscimento di Gela come provincia), ad Agrigento. Insomma, in ogni luogo dove la mafia impera, il conflitto per la ricerca di una nuova strategia è aperto.
Da un lato vige la tesi di mantenere un profilo basso, per puntare alla massimizzazione dei profitti. È il teorema promulgato più di dieci anni fa da Bernardo Provenzano. Dall’altra parte della barricata gli eredi della stagione delle stragi. I loro eserciti sono indeboliti ed i leader sono quasi tutti assicurati alle patrie galere, ristretti al regime carcerario del 41bis. Hanno subìto innumerevoli espropriazioni e vedono scemare il potere nei confronti della rete parentale di riferimento. Hanno scelto di non collaborare con la giustizia. Mantengono intatto il comandamento dell’omertà. Almeno sino ad ora. Dalle celle del supercarcere di Ascoli, Totò Riina lancia strani messaggi. Chiede di sapere chi sia stato l’infame a tradirlo. Tesi affascinante: su quali collaborazioni hanno potuto contare le forze dell’ordine per la sua cattura? Allude forse proprio a Provenzano? Il verbo di Riina è un veleno che si spande sulla già complicata vicenda – ormai giunta alla fase di dibattimento – del suo arresto e della mancata perquisizione della sua abitazione.
C’è poi una terza via, quella citata nella relazione della Dia come ipotesi di dissociazione. Tra i suoi sostenitori vanno annoverati boss del calibro di Pietro Aglieri. Il percorso da essi evocato non trova punti di appoggio sul piano giudiziario. «Non si capisce bene cosa ci propongano parlando di dissociazione», affermano alla procura di Palermo. Non è chiaro, ma i muri delle città siciliane hanno compreso benissimo il messaggio. Parecchi boss sono pronti ad ammettere le singole responsabilità. Ma lì si fermeranno, non faranno nomi e soprattutto cognomi, la dissociazione consisterà – eventualmente – solo nel dichiararsi colpevoli al fine di ottenere anche piccoli benefici, primo tra tutti l’attenuazione del regime carcerario. Di sicuro non diranno nulla contro i loro affiliati ancora sconosciuti alla magistratura o latitanti.

5. È lecito quindi supporre che la situazione carceraria dei detenuti per reati mafiosi possa incidere sul futuro prossimo della mafia, sempre più «organizzazione» e sempre meno «associazione». È la vera emergenza per i vertici di Cosa Nostra. A Palermo, ricorda Gian Carlo Caselli, «i 650 ergastoli comminati tra il 2000 ed il 2004 sono un dato che si cita con fastidio». Da sempre i boss detenuti in carcere hanno cercato di continuare a dirigere le attività delle loro cosche di riferimento. Così raccontava la pièceteatrale di metà Ottocento I mafiosi di la Vicaria, così tentano di fare oggi i vari Riina e Bagarella. Ma il carcere duro è un limite oggettivo che rischia di tagliare per sempre ogni rapporto di comunicazione con la rete criminale.
Attualmente i detenuti in regime di 41bis sono 611. La maggior parte di loro (210) sono affiliati a Cosa Nostra. Dal settembre 2003 all’ottobre 2004 i detenuti ai quali è stato applicato il regime detentivo speciale previsto dall’ordinamento penitenziario hanno subìto una lieve flessione, passando da 637 al numero attuale. Erano 659 nel 2001 e 650 nel 2002. Una recentissima relazione della commissione parlamentare Antimafia indica come la criminalità organizzata stia tentando di avviare una strategia per eludere le regole del 41bis: «I detenuti comunicano con l’esterno e tra di loro, in modo continuo e ordinario. Si è dunque sottolineata la necessità di un’azione organica e programmata per individuare i punti critici del sistema sul piano operativo e consentire all’amministrazione penitenziaria di intervenire efficacemente ». «Riguardo a questo aspetto», continua la commissione Antimafia, «occorre innanzitutto fornire adeguato rilievo ai fenomeni che hanno accompagnato il periodo di discussione e di approvazione in parlamento della legge n. 279 del 23 dicembre 2002, con ciò facendo riferimento sia ai fenomeni di protesta, sia alla cessazione di tali proteste. Non è inutile ricordare il proclama fatto il 12 luglio 2002 da Leoluca Bagarella davanti ai giudici della Corte d’assise di Trapani (“parlo a nome di tutti i detenuti ristretti all’Aquila sottoposti al regime del 41bis, stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio. (…) Siamo stati presi in giro. (…) Le promesse non sono state mantenute. (…) Intendiamo informare anche questa corte che dal primo luglio abbiamo avviato una protesta civile e pacifica che comprende la riduzione dell’ora d’aria e del vitto”)». La commissione ricorda anche il proclama firmato nel 2002 da Cristoforo Cannella, anch’egli sottoposto al regime dell’articolo 41bis: «Dove sono gli avvocati delle regioni meridionali che hanno difeso molti degli imputati per mafia e che ora siedono negli scranni parlamentari e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi?».
Messaggi minacciosi rivolti alla classe politica, perché «Cosa Nostra si sente alternativa allo Stato, una realtà con le stesse prerogative e gli stessi elementi costitutivi di uno Stato. In quest’ottica ritiene assolutamente legittimo esercitare la sovranità su una parte di territorio nazionale». Messaggi rivolti anche ad indebolire la leadership del latitante corleonese: «Molti uomini d’onore non sono soddisfatti di quanto Bernardo Provenzano ha finora fatto per i numerosissimi affiliati detenuti, spesso con pesanti condanne da scontare». D’altronde, anche i dati ufficiali dimostrano che l’opera di don «Binu» sia da considerare del tutto fallimentare agli occhi delle fazioni «politiche» avversarie: dal 1992 al primo semestre del 2003 sono stati 1.717 i componenti di Cosa Nostra raggiunti da ordinanze di custodia cautelare.

6. La difficoltà nel conciliare i contrasti interni non impedisce agli uomini d’onore di procedere ad una nuova forma di contaminazione dell’ambiente economico e imprenditoriale, rafforzando la presenza della propria rete di interessi soprattutto al di fuori della Sicilia. Secondo la Dia «si assiste anche ad iniziative individuali a carattere prettamente finanziario e imprenditoriale, per lo più riconducibili ad elementi di spicco della consorteria mafiosa, che, essendo riusciti a polverizzare i patrimoni accumulati illegalmente, tendono ora ad emigrare lontano dalle aree di origine per svolgere una vita assolutamente anonima e in tal modo avviare attività societarie e commerciali, quasi sempre nel campo dell’edilizia, coadiuvati da esperti nel campo economico-finanziario non organici a Cosa Nostra. Si tratta, per ora, di una sorta di emigrazione che ha l’ovvio scopo di sottrarsi alla pressante attenzione investigativa dedicata ai mafiosi nelle zone dove essi sono ben conosciuti. Il fenomeno, in ogni caso, deve essere seguito con attenzione per l’ormai ben conosciuta capacità di Cosa Nostra di trasformare queste cellule in vere e proprie articolazioni organiche alla struttura, facendole diventare sue proiezioni al di fuori della Sicilia, da utilizzare per ogni sorta di traffici».
Quella della Dia è molto più di una previsione, poiché si basa su un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta sulle attività economiche dei clan della provincia. Si è così scoperto che anche le agenzie di lavoro interinale possono diventare un’ottima copertura per ramificare la presenza delle cosche. Con un’impresa creata ad hoc, infatti, il clan mafioso di Caltanissetta riusciva a fornire personale a ditte che eseguivano lavori nelle regioni del Centro-Nord ed in particolare a Lucca, Fano, Rimini, Vicenza, Formia, Codogno, Latina, Verona, Firenze, La Spezia, Piacenza, Cassino, Genova, Rho, Perugia, Lodi e Milano. Le richieste erano tante e per accontentare tutti i boss ingaggiavano cassintegrati di Gela che, spinti dal bisogno, accettavano salari bassi e condizioni di lavoro precarie. In cambio la mafia chiedeva una parte dei guadagni degli operai assunti, all’incirca il 25%.

7. Ma è possibile ipotizzare un’omologazione ed un coordinamento tra Cosa Nostra, le altre mafie italiane e le tante forme di criminalità organizzata che operano nel mondo? Poche persone credettero al collaboratore di giustizia Leonardo Messina, quando, poco più di dieci anni fa, iniziò a raccontare dell’esistenza di una supercupola mondiale. Messina descrisse ai giudici italiani le relazioni che integravano i diversi network del crimine operanti in Italia ed all’estero, raccontando l’esistenza di un «quarto livello». Veniva così ipotizzata per la prima volta l’esistenza di una sorta di holding internazionale, dove le più grandi organizzazioni criminali avrebbero pianificato le proprie strategie e concordato le linee decisionali.
Scenari successivamente integrati dalle analisi della Dia e delle altre agenzie di investigazione straniere, secondo le quali alle tradizionali famiglie mafiose siciliane presenti sul territorio italiano si affiancano nuovi gruppi criminali fondati su affinità etniche. Sia la globalizzazione del crimine organizzato – ed i suoi potenziali momenti di contatto con altri fenomeni antisistema come il terrorismo politico e religioso – sia il mantenimento dello status quo nei territori controllati si realizzano e saldano attorno ad un duplice schema di relazioni antagoniste: i gruppi criminali – siano essi di matrice mafiosa o eversiva – possono concorrere al raggiungimento di fini specifici o, in alternativa, competere per il predominio su determinati mercati o territori.
Per comprendere come si materializzi sul piano concreto questo alternarsi di ruoli e compiti, basta prendere ad esempio il circuito del narcotraffico ed in particolare il suo funzionamento nei momenti di crisi tra le varie fazioni mafiose sin dalla fine degli anni Settanta, durante quella che viene ricordata come la seconda guerra di mafia in Sicilia. I corleonesi fedeli a Luciano Leggio, guidati manu militari da Riina e Provenzano, decisero di raggiungere il comando di Cosa Nostra attaccando gli storici clan palermitani. Più che di una guerra di mafia, si trattò di un’operazione di pulizia etnica. I morti si contavano soltanto dal lato delle cosche palermitane. Quella faida mirò – riuscendoci – a sovvertire gli equilibri politici interni all’organizzazione mafiosa. Eppure, un boss del calibro di Gaetano Badalamenti, che secondo le rivelazioni di Buscetta occupava a quei tempi uno dei posti principali nel gotha della Cupola mafiosa, non venne toccato dalla stagione di sangue. Caso unico nella storia della mafia, Badalamenti venne – come si dice nel gergo mafioso – «posato», espulso dal network mafioso. Le competenze dell’anziano «don» di Cinisi e le sue relazioni con i narcotrafficanti stranieri erano considerate un patrimonio comune a tutte le famiglie. «La licenza l’ho soltanto io», gridava al telefono Badalamenti parlando con un suo affiliato, avendo compreso di essere nel mirino di Leggio, Riina e Provenzano. La «licenza» in questione era proprio il controllo internazionale del narcotraffico. Non potendo disperdere quelle risorse, il nuovo direttorio mafioso di rito corleonese risolse «pacificamente» il caso Badalamenti: pur mantenendo un profilo competitivo e sanzionatorio nei confronti del boss di Cinisi – ritenuto avversario in termini di «politica interna» – la strategia adottata con i componenti del suo circuito dedito al narcotraffico rimase di tipo collaborativo.
Più che di un modello teorico, si tratta quindi di un vero e proprio modus operandi. Supponendo che un gruppo criminale debba organizzare una spedizione di narcotici da uno scalo italiano, il primo problema da affrontare per il buon risultato dell’operazione è porsi al riparo da eventuali furti. Ovviamente, il clan non può ricorrere ai metodi legali di assicurazione né ai tradizionali metodi di protezione. O provvederà con propri uomini alla protezione della merce, sopportando i relativi costi o – nell’ipotesi che il luogo di transito sia controllato da un altro gruppo criminale – cercherà di entrare in contatto con quest’ultimo per assicurarsi che la merce giunga al destinatario. Come si vede, ogni gruppo criminale può scegliere il tipo di comportamento da adottare – competitivo o collaborativo – per ogni specifica situazione. Nulla vieta, poi, che il primo gruppo eserciti le medesime funzioni del secondo in un altro contesto, né che il secondo organizzi spedizioni di droga. Anzi, le famiglie mafiose di solito svolgono entrambe le funzioni, visto che, caratterizzandosi come «industria» della protezione privata, la mafia ha nella capacità di controllo del territorio la propria risorsa fondamentale.
Esemplificativa della prassi mafiosa sul territorio è l’inchiesta condotta contro la cosca palermitana di San Lorenzo guidata da Salvatore e Sandro Lo Piccolo. Costoro controllano mezza città e buona parte dell’area nord-occidentale della provincia, sino al confine con Trapani. Dall’inchiesta emerge una mafia ad alta vocazione imprenditoriale, che controlla tutto. Una mafia talmente forte da scoraggiare persino i rapinatori nel proseguire l’attività. I commercianti derubati, infatti, piuttosto che rivolgersi alle forze dell’ordine, contattano esponenti del clan mafioso per cercare di recuperare quanto loro sottratto. E la lunga mano della mafia, ad un costo ragionevole – comprendente l’indennità per i rapinatori e l’aggio per avere risolto il caso – riesce a ristorare il commerciante derubato. È anche il ritratto di una mafia talmente autoritaria e credibile da poter esercitare forme di controllo territoriale ben al di là dei propri confini, mediando ed investendo su aree controllate da altre cosche.
Il costo sociale della mafia è compensato dalla capacità di offrire servizi indispensabili. Non è tanto difficile capire quanto convenga ai cittadini non vedere la mafia. Proprio l’inchiesta sulla mafia di San Lorenzo ha mostrato il volto di una mafia benevola e comprensiva nei confronti delle classi sociali più emarginate. Nel territorio che fa capo alla cosca dei Lo Piccolo è ubicato uno dei quartieri più disagiati della periferia urbana di Palermo: Zona espansione nord, abbreviato Zen. Nulla a che vedere con l’armonia della disciplina orientale; definire lo Zen un quartiere ghetto è sadico eufemismo. La mafia vi alleva le nuove generazioni di manovalanza criminale. E soddisfa quelle esigenze che l’amministrazione pubblica non ha mai saputo risolvere. Scollegati dalla rete elettrica e da quella idrica, buona parte degli abitanti del quartiere hanno fatto ricorso ad una serie di allacciamenti abusivi. Il sistema integrato era gestito dal clan mafioso ad un costo assolutamente abbordabile anche per le precarie condizioni economiche del quartiere. Il costo del servizio oscillava tra i 10 ed i 15 euro. Nei giorni successivi all’operazione antimafia che ha smantellato la rete operativa della famiglia Lo Piccolo, i collegamenti abusivi sono stati rimossi e centinaia di famiglie palermitane sono rimaste senza luce e senza acqua. In quel quartiere c’è già chi comincia a rimpiangere il volto di quegli esattori così comprensivi ed efficienti.
Sarebbe facile ridurre la questione a un problema tutto siciliano. Ma proprio dai quartieri ghetto delle periferie urbane della Sicilia parte la nuova stagione di Cosa Nostra. La sfida planetaria verrà giocata – ancora una volta – con il volto insospettabile di professionisti e finanzieri. «Alterare le regole del mercato»: è questo oggi l’obiettivo di Cosa Nostra secondo Piero Luigi Vigna, procuratore nazionale antimafia.