La dichiarazione d’indipendenza della Catalogna e la maldestra gestione della crisi da parte di Madrid e dell’Unione Europea possono alimentare gli autonomismi in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Serbia. Creando ulteriori margini di manovra alle potenze extracontinentali.
di Luca Susic
La proclamazione dell’indipendenza della Catalogna ha portato numerosi esperti (e non) a chiedersi se una concreta secessione di Barcellona avrebbe un effetto domino in altre parti d’Europa.
A partire dai Balcani, che rappresentano ancora uno dei punti più incerti della cartina continentale, come dimostrano l’esperienza degli anni Novanta e le persistenti spinte centrifughe.
Sebbene sia improprio un paragone tra la situazione catalana e quella balcanica, non mancano nell’ex Jugoslavia regioni spesso considerate a rischio “separatismo”: l’Istria in Croazia, la Republika Srpska e l’Herceg Bosna in Bosnia-Erzegovina e la Vojvodina in Serbia.
Questa categorizzazione risulta però imprecisa, in quanto tende ad accomunare territori con trascorsi estremamente diversi e soprattutto rivendicazioni e necessità agli antipodi. Per spiegare tale affermazione è sufficiente approfondire i diversi casi e verificare come, sia dal punto di vista interno sia da quello estero, non vi siano che pochi tratti in comune.
L’Istria allo stato attuale non ambisce all’indipendenza, sebbene spesso venga detto diversamente. Per la regione è importante manifestare apertamente e senza limitazioni la propria diversità rispetto al resto del paese, un aspetto divenuto particolarmente sentito in virtù della svolta politica avvenuta in Croazia negli ultimi anni.
A seguito della secessione dalla Jugoslavia si è radicato nel paese un nazionalismo a tratti esasperato, che ha determinato una vera e propria riscrittura della storia nazionale, la delegittimazione del periodo socialista e l’esaltazione di ciò che potremmo definire “croatitudine” – ossia, l’insieme di comportamenti e idee che differenziano un buon croato dai “komunjari” (termine dispregiativo per i filo-jugoslavi) o dalle nazionalità confinanti.
Ciò ha incontrato l’ostilità della ragione culturalmente più eterogenea della Croazia, la quale ha finito per fare della propria peculiarità il suo leitmotiv. Sebbene oramai la componente croata sia maggioritaria, l’eredità della dominazione veneta e austriaca è ancora fortemente radicata nella topografia locale, negli usi e costumi e nella lingua, rendendo inaccettabile una politica basata su un rigido nazionalismo.
Sul piano pratico ciò è facilmente constatabile considerando che la Skupština (il parlamento regionale) tutela per legge le minoranze linguistiche senza che ciò produca tensioni come avviene, per esempio, in Slavonia (si pensi al caso di Vukovar) o come diversi parlamentari abbiano addirittura proposto di adottare una norma che vieti il revisionismo storico e l’esposizione di simboli nazi-fascisti.
Accanto a questi aspetti, c’è anche la diffusa convinzione che l’attuale centralismo della Croazia non sia rispondente alle esigenze delle regioni politicamente ed economicamente più sviluppate.
Nonostante il pil pro capite più alto del paese e spese inferiori ai contributi che versa allo Stato – nel 2013 il surplus ammontava a oltre 100 milioni di euro – l’Istria ha limitate capacità di influenzare le scelte politiche che contano. Perciò esponenti di spicco della politica locale hanno dichiarato nelle scorse settimane che l’obiettivo dei diversi partiti regionali sarà quello di ottenere maggiore autonomia dal centro, senza mettere in pericolo l’unità del paese.
Anche ammettendo che l’ala dura dei regionalisti istriani possa acquisire voce e che il tema dell’indipendenza diventi in futuro preminente, risulta difficile prevedere su quali appoggi esterni potrebbero contare.
Per buona parte dei paesi interessati ad aumentare la propria influenza nei Balcani o a
limitare il peso di Russia e Cina, infatti, la Croazia svolge un ottimo ruolo di antagonista alla Serbia (partner di Mosca e Pechino) e potrà continuare a farlo solo controllando una delle sue regioni più ricche.
Più complessa è la partita giocata in Serbia. Precisamente in Vojvodina, terra storicamente di confine tra il mondo slavo e quello magiaro, abitato da una moltitudine di nazionalità e passato più volte di mano nel corso dei secoli. La posizione strategica e le buone condizioni economiche, infatti, la rendono una zona in cui il controllo di Belgrado è limitato dalle influenze ungheresi e, in parte, croate. Per i paesi limitrofi, la presenza di connazionali e le ricchezze locali rappresentano un valido motivo per alzare la voce ogni qual volta reputino danneggiati i propri interessi.
Budapest non può contare su una quota etnica maggioritaria nell’attuale provincia autonoma della Vojvodina – dove la popolazione ungherese non ha mai rappresentato la maggioranza assoluta – ma continua a guardare con interesse a un ex territorio dell’Impero Austro-ungarico nel quale, grazie alla leggesulla cittadinanza automatica per gli “ungheresi all’estero” e gli investimenti economici, ha riguadagnato influenza negli ultimi anni, per ora solo sotto forma di soft power.
Nel parlamento locale, i partiti etnici magiari rappresentano il 7%, mentre un altro 7,5% appartiene alla Lsv (Lega dei socialdemocratici di Vojvodina) – un movimento regionalista che si dichiara rappresentante di tutti i diversi popoli residenti nell’area. Quest’ultimo, anche se decisamente meno influente del partito del presidente Vučić che da solo può contare sulla maggioranza assoluta, rappresenta una costante voce di contrasto verso l’establishment belgradese e si fa portavoce dell’insoddisfazione verso le politiche centraliste.
Sebbene la Vojvodina goda di ampia autonomia, l’Lsv e altri movimenti minori reclamano ulteriori libertà, con l’obiettivo di trasformare la Serbia in una sorta di federazione e di valorizzare ulteriormente la specificità e l’economia locali a scapito delle zone più arretrate del paese. Non a caso nel 2014 la Vojvodina costituiva il 27,4% del pil nazionale, con un valore pro capite di 564 mila dinari, che la posizionava dopo la capitale, ma prima della Serbia occidentale e di quella sud-orientale.
Va infatti riconosciuto che negli ultimi anni i governi hanno focalizzato l’attenzione sulla capitale, vera città vetrina del paese, e in misura minore sul Sud-Ovest della Serbia che, in quanto zona depressa, ha potuto beneficiare di alcune politiche ad hoc. Il governo cerca di ridurre il gap economico e occupazionale promuovendo soprattutto gli investimenti esteri, l’ultimo dei quali effettuato dell’austriaca Zumtobel. La ricca Vojvodina è quindi rimasta in secondo piano; da qui tali rivendicazioni.
Benché l’Lsv sia ufficialmente contrario alla secessione, ha sostenuto e salutato con favore quella annunciata dalla Catalogna, lasciando ragionevolmente supporre che se si dovessero presentare le condizioni giuste potrebbe spingere nella medesima direzione.
Al momento non ci sono elementi per ipotizzare un’evoluzione in tal senso. Un’eventuale rottura tra Novi Sad e Belgrado verrebbe salutata con favore da Budapest e probabilmente Zagabria, mentre sarebbe ostacolata apertamente dal blocco di paesi contrari al revanscismo ungherese, fra cui spiccano Romania e Slovacchia.
Ben più critica e di immediata attualità è la situazione della Bosnia-Erzegovina, paese per cui urge trovare una soluzione alternativa agli ormai superati accordi di Dayton. I rappresentanti delle tre etnie conducono politiche apertamente divergenti e spesso addirittura in conflitto. Mentre la sempre più debole comunità croata guarda alla progressiva integrazione con la Dalmazia, infatti, i leader bosgnacchi hanno ormai trovato nella Turchia il loro riferimento internazionale, mentre la Republika Srpska conta i giorni che la separano dal ricongiungimento con la Serbia.
Ciò è effetto diretto della convivenza in uno Stato menomato e a sovranità limitata di un popolo che ha passato quattro anni a combattersi con una ferocia che l’Europa non credeva più possibile, senza la possibilità di alimentarsi di qualcosa che non fosse l’odio per il proprio vicino. Le continue promesse di un’immediata integrazione, unite alla debolezza dimostrata nei confronti dell’influenza statunitense, russa e soprattutto del radicalismo islamico, hanno reso l’Europa un partner poco credibile e contribuito ad accrescere le differenze già esistenti.
Uno dei migliori candidati a seguire l’esempio catalano sarebbe proprio la Bosnia-Erzegovina, se lo scontro fra Madrid e Barcellona dovesse proseguire e lo schieramento europeo contrario all’indipendenza dovesse frammentarsi.
La Republiska Srpska ormai da anni reitera l’intenzione di porre fine all’esperienza unitaria e, imitando quanto già fatto da Slovenia, Croazia, Macedonia, Montenegro e Kosovo, procedere verso la strada dell’autodeterminazione. Data la forte maggioranza etnica serba, una sua separazione potrebbe essere “relativamente” indolore ma non verrebbe sicuramente accettata da Sarajevo, soprattutto ora che la componente islamica rappresenta la maggioranza della popolazione bosniaca – anche se concentrata nella Federazione croato-musulmana.
In tal caso è probabile che la Serbia appoggerebbe apertamente la decisione dei propri connazionali, dopo un’iniziale incertezza di facciata, magari cercando un’intesa con la Croazia che potrebbe rimpossessarsi dell’Herceg Bosna – la parte del paese abitata da croati e visceralmente contraria al nuovo corso islamico-conservatore promosso da alcuni leader bosgnacchi.
Non potendo contare sul sostengo di altri attori locali questi sarebbero costretti a rivolgersi altrove, magari usando i buoni rapporti che vantano con Turchia, Arabia Saudita ed Emirati – certamente ben contenti di poter mettere piede ufficialmente in Europa. Ciò potrebbe determinare lo scoppio di un nuovo conflitto, come ha recentemente ricordato il rappresentante musulmano-bosniaco Bakir Izetbegović, dichiarandosi pronto alla guerra per difendere la sua patria.
La scelta più difficile spetterebbe quindi all’Unione Europea, che si troverebbe costretta a decidere se supportare la linea seguita sinora o se cercare di prendere in mano la situazione e guidare una transizione pacifica cercando di tenere il più lontano possibile gli attori esterni quali Russia e Cina, sempre più vicina alla Serbia.
Scenari che sembrano lontani o irrealistici; ma fino a qualche mese fa pochi ritenevano possibile che la Catalogna si dichiarasse indipendente sfidando apertamente la Spagna e l’intero continente. Ecco perché urge prestare massima attenzione all’area balcanica, che rischia di essere pesantemente destabilizzata da questa nuova ondata di autonomismo.
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