E' appena uscito sull' edizione on-line di Limes un articolo sul Porto Franco Internazionale di Trieste.
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IL PORTO FRANCO INTERNAZIONALE DI TRIESTE E' REALTA'.
NON SPRECHIAMOLA
Il
decreto Delrio-Padoan toglie la città giuliana dal dimenticatoio, aprendola
alle nuove vie della seta cinesi.
Ma la lenta deburocratizzazione potrebbe disincentivare potenziali investitori. Così come potrebbe attivare l’indipendentismo e l’autonomismo.
Ma la lenta deburocratizzazione potrebbe disincentivare potenziali investitori. Così come potrebbe attivare l’indipendentismo e l’autonomismo.
di Paolo Deganutti 14/9/2017
Il 31 luglio è stato pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale il decreto del 13 dello stesso mese a firma dei ministri Delrio e
Padoan. Nel testo vengono
regolamentati i punti franchi del porto franco internazionale di Trieste
accentrando sull’autorità portuale le competenze amministrative e autorizzative
prima disperse su più enti, spesso scoordinati tra loro.
Come
scritto in
un precedente articolo, questo decreto era atteso dal dopoguerra ed esplicitamente previsto dalla legge 84 del 1994 sulla
portualità. Così facendo, sono resi pienamente operativi i punti franchi anche
per le attività industriali.
Grazie
al presidente degli Spedizionieri triestini Stefano Visintin da noi consultato, è stata riportata una sommaria descrizione dei vantaggi
del porto franco internazionale di Trieste. Si parla già di aggiungere una no tax area all’extraterritorialità doganale. Il
punto di forza principale è che la città giuliana è un porto franco
nel cuore dell’Europa, ben collegato e con un’estesa rete ferroviaria.
La
spinta a superare questa lunghissima impasse è
venuta dall’interesse cinese a utilizzare lo scalo di Trieste, unico porto franco in Europa,
nell’ambito della Belt and Road Initiative (Bri), ossia le nuove vie della seta. Il porto di Trieste già
guarda a Nord e a Est e lavora al 90% con l’Europa Centrale e Orientale con cui ha
buoni collegamenti ferroviari.
All’inizio
di giugno è stato siglato un accordo di collaborazione strategica
tra il porto franco internazionale di Trieste e il porto
fluviale – l’hub intermodale
tedesco di Duisburg – che le mappe di Pechino indicano come terminal della
nuova via della seta terrestre con cui è già attivo un collegamento
ferroviario.
Cresce
dunque l’integrazione di fatto dello scalo marittimo triestino, che già era stato porto dell’impero asburgico, nell’attuale
Mitteleuropa e nella Kerneuropa in
gestazione.
Una
rivincita della geografia, della storia e dell’economia sulle retoriche
nazionaliste.
La
strategia dell’autorità portuale di Trieste prevede l’utilizzo produttivo e
industriale dell’extraterritorialità
doganale dei punti franchi: una caratteristica esclusivamente triestina,
conseguenza del Trattato di pace del 1947 recepito dall’Unione Europea e
ampiamente richiamato nel recente decreto.
L’ampliamento
dei punti franchi consentirebbe di
realizzare un efficiente retroporto in grado di fissare sul territorio il
valore aggiunto generato dai traffici, i quali non sarebbero solo di passaggio
ma contribuirebbero a una nuova reindustrializzazione di un’area che nei
decenni si è ridotta.
Una
prospettiva che il presidente dell’autorità portuale D’Agostino ha espresso
pubblicamente nell’affollato convegno
sulle nuove vie della seta organizzato dal Limes Club di
Trieste il 30 gennaio scorso.
Entro la fine del 2017 dovrebbero esserci i primi insediamenti
produttivi. Le aspettative sono
notevoli, tanto da portare uno dei maggiori operatori portuali, Enrico Samer,
ad affermare che entro 5 o 10 anni il volto stesso della città giuliana cambierà.
È di questi giorni l’interessamento
del colosso dello shipping Msc per un’area industriale in regime di
punto franco.
La
classificazione del 2003 di un’ampia parte dell’ex zona industriale di Trieste come sito inquinato nazionale non ha portato negli
ultimi 14 anni ad alcuna iniziativa. Si tratta di un evidente ostacolo
alla promozione industriale sia per i costi dell’eventuale bonifica sia
soprattutto per le stancanti trafile burocratiche presso ministeri e uffici,
incompatibili con i tempi delle sfide globali e incomprensibili agli occhi
potenziali investitori esteri.
Al
fine di velocizzare le procedure per accorciare la catena burocratica, particolarmente onerosa in caso di siti inquinati nazionali, è in
atto il trasferimento di alcune aree alla competenza della Regione autonoma con
la possibilità di non passare dai ministeri, almeno per quanto riguarda 75
ettari prossimi alle banchine sui 500 complessivi.
Da
più parti è stata fatta notare l’opportunità di una gestione ancora più
efficiente, decentrata e autonoma di un
territorio che, intorno a un porto franco internazionale e soggetto alle
sollecitazioni dei mercati globali, deve rispondere a criteri di efficienza e
velocità da cui la bizantina burocrazia ministeriale, ma anche regionale,
risulta molto lontana.
Difficilmente
un investitore internazionale aspetterebbe mesi e anni di procedure,autorizzazioni paesaggistiche comprese, per realizzare un
insediamento produttivo nell’ambito di un porto franco. Le precedenti
esperienze negative di interessamento cinese, vedasi il porto di Taranto, sono
di ammonimento.
Questo
rafforza le istanze autonomiste che guardano con interesse all’esperienza,
per esempio, della provincia autonoma di Bolzano. Inoltre, gli esiti dei referendum
autonomisti di ottobre in Veneto e Lombardia potrebbero avere ripercussioni
in Friuli e a Trieste. Aree da sempre impregnata di un endemico
autonomismo e indipendentismo,
rilevabile anche sulla fascia costiera slovena e croata e che aveva fatto parte
del “litorale
austriaco-Österreichisch-illirisches küstenland” sotto l’impero
asburgico.
Intanto,
il vicinissimo e concorrente porto sloveno di Koper-Capodistria sarà protagonista il 24 settembre di un
referendum contro la legge sul raddoppio della linea ferroviaria voluta
da Lubiana. Legge che i suoi critici considerano “arruffata” e che,
soprattutto, prevede un aumento delle tasse sulle merci in transito come
copertura finanziaria.
Il
porto di Capodistria, che ha un entroterra di riferimento uguale a quello di
Trieste, nell’immediato dopoguerra
non esisteva ma è cresciuto tanto da superare abbondantemente lo scalo
triestino – dal 1954 sotto amministrazione italiana – saturando la
linea ferroviaria che oggi ha assoluto bisogno di un raddoppio. Secondo la
comunità locale, questo non deve avvenire alle condizioni fiscali dettate da
Lubiana.
Questa
regione da un secolo è ancora priva di equilibrio ed è stata ripetutamente
smembrata da Stati nazione emersi
nel corso del Novecento. È recente l’acutizzazione della tensione fra
Slovenia e Croazia, con rappresaglie sui pescherecci, per il rifiuto di
Zagabria di accettare l’arbitrato internazionale della Corte dell’Aja del 29 giugno che
assegnava alla Slovenia gran parte delle acque della baia di Pirano, a
20 chilometri da Trieste, nonché l’accesso diretto alle acque
internazionali dal porto di Koper-Capodistria.
Intanto
sul “fronte del porto” nei Balcani prosegue l’iniziativa cinese: si parla di un altro progetto strategico che affiancherebbe la
pianificata linea ferroviaria veloce da Budapest al Pireo, già sotto il
controllo di Pechino. Si tratta di un
canale navigabile dal porto fluviale di Belgrado sul Danubio all’Egeo,
vicino a Salonicco.
Tramite
il Danubio navigabile si arriverebbe all’importante porto fluviale di Vienna, che già ora ha movimenti per oltre 500 mila TEU all’anno e
rappresenta un nodo logistico intermodale di importanza strategica in
Europa. Il trasporto con navigazione interna nella fitta rete di fiumi e
canali che solca l’Europa rappresenta circa il 7% del totale, con punte del 40%
nei Paesi Bassi. L’Ue intende incentivare questa modalità per il minore impatto
ambientale e la maggior economicità.
Questi
progetti di creazione di nuove rotte commerciali, all’apparenza faraonici, vanno monitorati, perché sono alla
portata delle attuali tecnologie e soprattutto delle ingenti
risorse mobilitate dalla Bri. Realizzarli è perfino più semplice
dell’idrovia tra Trieste e il Danubio (Bratislava) progettata dal Politecnico
di Milano e pubblicata nel 2007 con il nome di progetto
Adriatico.
Anche
il Canale di Suez, ora raddoppiato, all’epoca sembrava solo un sogno
avveniristico. Trieste tuttavia – con
il Lloyd austriaco, le Assicurazioni Generali di Giuseppe
Morpurgo e il barone Pasquale Revoltella – credette nel progetto,
avendone intuito le enormi potenzialità di guadagno.
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