L' editoriale del numero 6 /2017 di Limes fotografa la situazione geopolitica del mediterraneo dal punto di vista dell' Italia e tratta di numerosi aspetti: dalle migrazioni alle "Nuove Vie della Seta".
Cita anche il Porto Franco di Trieste ma è dal quadro complessivo che si possono comprendere le grandi possibilità per un rilancio del Porto Franco Internazionale di Trieste. L' azione dell' Autorità Portuale che mira ad un utilizzo produttivo ed industriale dell' extraterritorialità doganale dei Punti Franchi si muove nella direzione giusta e la recente visita della MSC interessata all' area contigua alla Wärtsilä lo dimostra.
Questo week-end di pioggia è un invito alla lettura del lungo e interessante editoriale che proponiamo ai nostri lettori.
Il mare non bagna l’Italia
Editoriale del numero di Limes 6/17, Mediterranei
1. Il mediterraneo misura ciò che l’italia potrebbe essere, fu, ma non è. La geografia fisica parla al condizionale. Disegna la centralità della Penisola nella fenditura acquatica che separa Eurasia e Africa, quel fuso stretto fra Gibilterra, Dardanelli e Suez che connette l’Oceano Atlantico all’Indiano (carta a colori 1). Mare nostrum secondo i romani, Mar Bianco (Akdeniz) per i turchi, Mar Grande (Yam Gadol) per gli ebrei, Mare Romano (al-Baḥr al-Rūmī) per gli arabi: frammenti di un’onomastica che muta senso allo spazio a seconda dello sguardo che lo battezza. Tanto da svelare il Mediterraneo come somma di mari, denominati e per secoli dominati dalle terre che vi si affacciano. A marcare un variabile insieme benedetto dalla natura ma sempre rimodellato dall’uomo, incastonato tra le frastagliate, spesso montagnose coste europee e le piatte sponde africane, a ridosso del deserto. Magnete per quei popoli migranti dal fondo dei continenti che per millenni, insediandovisi, ne avevano animato la conflittuale storia comune.
Di questo bacino lo Stivale è per natura perno geografico. Potremmo leggere la storia d’Italia come svolgersi dei tentativi o delle rinunce, dei successi o dei fallimenti di elevare a geopolitica tale rendita geografica. Rovesciando la percezione corrente, per cui siamo periferia d’Europa, l’accento sulla nostra collocazione nel cuore del Mediterraneo evoca un vantaggio comparativo che attende una strategia per essere sfruttato. O per evitare che si volga in nemesi: la storia punisce chi non usa la sua geografia, perché finisce per esserne consumato. Nel clima presente, che sfigura il nostro mare, ridotto a veicolo di minacce e scenario di orrori incombenti, l’oblio del privilegio geografico rischia di produrre danni irreversibili.
La storia si esprime al passato remoto. Risveglia la memoria dei secoli in cui l’italica mediterraneitàfu leva geopolitica. Qui fiorì l’unico impero circummediterraneo, quello di Roma, che nella nostalgica iperbole di Rutilio Namaziano «di tutto il mondo fece una città» 1. Il Mare nostrum, bene comune protetto dalla flotta dell’Urbe, a tutela dei commerci imperniati sulla capitale, avendo liquidato le rivali potenze marittime e represso i pirati che ne infestavano le acque. Mediterraneo come tavola pitagorica di una civiltà, la Romania, che vi scavò un fascio di rotte marittime annesse alle vie di terra e tracciò la mappa di un mondo in sé conchiuso, dalla Renania ai margini del Sahara, dall’Iberia al Levante (carta 1).
Gli amanti del lungo periodo non dimenticano che le frontiere romano-mediterranee non hanno mai smesso di produrre storia: come intuì Fernand Braudel, «le grandi partite del presente sono state spesso giocate, vinte o perdute, nel passato» 2. Così la secessione luterana spezzò l’Europa lungo l’asse del Reno e del Danubio, duplice limes imperiale; ma già il Grande Scisma (d’Oriente, per i cattolici romani, d’Occidente o latino per gli ortodossi) aveva inciso nel 1054 lo spazio euromediterraneo per via longitudinale, attraverso la faglia adriatico-balcanica maturata nel corpo dell’impero durante il IV secolo. Prima ancora, e soprattutto, è dal crollo del circuito romano-mediterraneo, bisecato nel VII secolo dalla penetrazione arabo-islamica, che scaturirono le premesse geopolitiche dell’idealità europea. Nella sentenza di Marc Bloch: «L’Europa è sorta quando l’impero è crollato» 3.
Non solo Roma. Con Genova e Venezia riemersero in Italia, tra Medioevo e Rinascimento, due poli di potenza marittima di spessore globale. Mercanti, banchieri e aristocratici genovesi avviarono attorno alla metà del XIV secolo il primo ciclo sistemico di accumulazione capitalistica, fondato dal 1407 sulle finanze della Casa di San Giorgio e sulle colonie mediterranee – in specie sul dominio del Mar Nero, incardinato su Caffa (Feodosia). Il capitalismo nacque nel Mediterraneo genovese, espanso nel tempo lungo avventurose rotte transoceaniche, prima di sfociare nella sua seconda fase – sempre marittima, ma antimediterranea – l’olandese. Complementare e insieme concorrenziale alla rete commerciale genovese fu la veneziana. La Serenissima si aprì attraverso il Mediterraneo orientale le vie dell’Asia, a inventare le rotte che la Cina di Xi Jinping, nel suo immaginoso globalismo sinocentrico, promuove oggi con il marchio delle «nuove vie della seta».
Di quei traffici fu poi erede il più moderno assetto d’influenza italiana nel Mediterraneo, abbozzato nel cinquantennio fra la nascita del Regno d’Italia (1861) e la guerra di Libia (1911): la nostra diaspora lungo la sponda sudorientale. Lo Stato unitario scoprì quasi suo malgrado nel quadrante africano-levantino una rete di italianità sedimentata nei secoli 4. L’impronta mercantile di tale proiezione aveva costituito l’italiano in lingua franca degli scambi mediterranei. Così, la dicitura della prima serie di francobolli egiziani era italiana e l’idioma ufficiale dell’amministrazione khediviale il nostro. Ancora, una delle due lingue impiegate per le indicazioni stradali a Odessa nel 1861 era l’italiano. Molto diffuso anche fra i turchi, tanto da ricorrervi per redigere il trattato russo-ottomano di Küçük Kaynarca, che nel 1774 sancì l’egemonia dello zar sul Mar Nero.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento erano quasi un milione gli italiani in diaspora mediterranea, tra Marocco e Anatolia. Colonie influenti, da Orano a Istanbul e a Smirne, passando per Alessandria d’Egitto, dove l’italiano fu lingua veicolare fino a metà Ottocento. I nuclei d’origine italiana, poliglotti e insensibili alle pulsioni imperialistiche, si mescolavano e convivevano con le composite popolazioni locali, a dispetto della faglia religiosa, all’epoca non decisiva. Specie i levantini, per i turchi «europei d’acqua dolce». Vettori d’influenza commerciale e culturale, che quel «piccolo regno di second’ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito» – così Dostoevskij dileggiava l’invenzione di Cavour – accennò a volgere in fattori di potenza geopolitica 5. Già prima dell’unificazione, il futuro ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini sognava: «È forse impresa impossibile rendere nuovamente il Mediterraneo qual natura lo fece, qual fu per secoli, un lago italiano?» 6. Quando infine ci provammo, sbarcando a Tripoli «bel suol d’amore», finimmo per infliggerci un doppio danno: ci svelammo ultima fra le potenze coloniali, ma non meno crudele, così sradicando quella koiné italomediterranea preservata dalle comunità levantine nelle diverse ondate migratorie.
Il velleitarismo geopolitico dell’Italietta giolittiana, ripreso con peculiare violenza da Mussolini,distrusse in pochi anni la nostra rete mediterranea, fondamentale per il rapporto con l’islam. Per carenza di misura cancellammo in Libia privilegi geofisici e retaggi storici. Salvo trovarci, esattamente un secolo dopo la guerra italo-ottomana, a riecheggiare in chiave farsesca quei medesimi errori, insabbiandoci nell’infinita, forse infinibile questione libica.
La geopolitica ci riporta infine all’oggi. Il suo modo è indicativo al tempo presente, proiettato al futuro quando l’analisi si volge in progetto.
Questa Italia non ha colto né le opportunità della geografia né le lezioni della storia. Non si pensa e non si vuole marittima. Nell’ossessiva retorica europeista dell’ultimo sessantennio, che ci impone di restare aggrappati alle Alpi per non precipitare in Africa, neghiamo l’utilità stessa della nostra centralità mediterranea, percepita anzi come fattore di vulnerabilità: alle migrazioni irregolari, sovente dipinte da invasione aliena capace di sfigurare il Belpaese e di veicolarvi il terrorismo jihadista; ai conflitti che dalla quarta sponda tendono ad attrarci in un vortice d’instabilità e di miseria; alla tentazione dei soci nordici di chiuderci le frontiere in faccia mutando la Penisola in antemurale, prima difesa esterna della Fortezza Europa contro i diabolici flussi da sud, quasi fossimo oggi per loro quello che la Libia di Gheddafi era per noi (carta a colori 2).
La tabe strategica italiana si conferma l’inabilità a trasformare la vocazione mercantile in potenza geopolitica. Eppure sulla carta partiremmo avvantaggiati, visto che nel mondo attuale quasi il 90% dei commerci si muove via mare. Ma mentre nella «mediterranea» Italia i porti muovono una frazione dei volumi intercettati dai concorrenti dell’Europa settentrionale e soltanto il 37% dell’interscambio viaggia sull’acqua – con il complesso dell’«economia blu» fermo a un più che perfettibile 2,6% del pil 7 – la Svizzera compressa nelle sue valli è seconda potenza mondiale nello shipping grazie alla rete integrata di aziende esportatrici, banche, assicurazioni e trasportatori oceanici, gestita da Ginevra. La strategia batte la geografia.
Senza proiezione né rango geopolitico, anche la potenza commerciale soffre. Sicché per restare connessi al cuore dell’Europa – in via di incerta ristrutturazione attorno alla potenza tedesca, con al fianco il fraterno rivale francese più i satelliti mitteleuropei e scandinavi – occorre rovesciare il dogma europeista che ci affida alle scelte altrui in nome del «vincolo esterno». Altrimenti finiremmo nella terra di nessuno, fra Alpi e Africa, dove alcuni partner nordici amerebbero relegarci. Non si tratta di fuggire il Mediterraneo, ma di assumerne, in quanto avanguardia geografica e a partire dai nostri interessi, la cogestione insieme ai principali soci europei, nordafricani e levantini.
L’Italia conta in Europa se vi porta in dote la sua area di responsabilità mediterranea, contribuendo alla stabilizzazione e allo sviluppo dei Balcani adriatici e del Nordafrica – dove pur si concentra una quota delle nostre missioni militari (carta a colori 3). Vale molto meno, e rischia l’espulsione, se rinuncia a farlo. Giacché a regolare i rapporti di forza nella lasca cornice dell’Unione Europea vige l’imperativo per ciascun soggetto di coltivarvi il proprio spazio d’influenza. E la propria idea d’Europa, non un’inesistente idea europea dell’Europa. Come la Germania fa leva sulla Mitteleuropa e sul Baltico, la Francia sul non poco che resta del suo impero, quindi della grandeur, l’Italia deve organizzare quegli spazi mediterranei, marittimi e terrestri, nei quali aveva coltivato un’influenza che sta disperdendo quando non contribuendo a disgregare – dalla guerra alla Serbia (1999) a quella di Libia (2011) – con cieca acribia.
2. Per avvicinare tale obiettivo conviene inquadrare il fu Mare nostrum nel contesto mondiale, tracciarne le dinamiche conflittuali, scoprirne le potenzialità economiche e geopolitiche da intercettare. Lo sguardo d’insieme non è neutro. Il punto di osservazione cambia la matrice del Mediterraneo. Visto da noi italiani e dagli altri europei, nella prospettiva nord-sud, è diaframma fra Ordolandia e Caoslandia: al centro del planisfero eurocentrico, ci separa dalle turbolenze nordafricane, levantine e mediorientali, ma insieme vi ci connette (carta a colori 4). Nella competizione geopolitica fondamentale, che riguarda Stati Uniti e Cina, la bussola si orienta invece verso la polarità ovest-est. Qui il mare «nostro» è anello di una catena strategica transoceanica. Allargando lo sguardo e continuando a seguire da un meridiano all’altro la partizione ordine/caos, scopriamo a latitudini non troppo difformi altri due mediterranei. L’americano, fra Mar dei Caraibi e Golfo del Messico, cortile di casa degli Stati Uniti. E l’estremo-asiatico, fra la cintura Kamčatka-Curili-isole nipponiche, proseguendo per lo Stretto di Corea e Malacca, formato dal sistema Mare di Okhotsk-Mar del Giappone-Mar Cinese Orientale-Mar Cinese Meridionale, epicentro della competizione fra Pechino e Washington nella mischia che mobilita tutte le potenze regionali.
Nella gerarchia dei mari semichiusi, il Mediterraneo euroarabo viene dunque buon terzo quanto a salienza globale. Logica vorrebbe che le maggiori Marine europee fossero oggi in grado di recuperarvi quote d’influenza perdute, essendo la superpotenza Usa concentrata sul versante asiatico-pacifico. Impegnata a difendere su scala planetaria il primato aeronavale che le permette di controllare le arterie commerciali del mare, di attingere ai suoi tesori minerari ed energetici, di vegliare sulle reti sottomarine da cui dipende la dimensione cibernetica, mantenendo aperti o all’occorrenza sbarrando al nemico i vitali gangli transoceanici. Ovvero i colli di bottiglia (choke points) dei tre mediterranei, da Panamá a Gibilterra, da Suez a Malacca.
Eppure mai come oggi il Mare nostrum è altrui. Sotto il profilo commerciale, certo, ma anche nella gerarchia delle flotte militari. Per quanto residuale rispetto alla guerra fredda, l’impronta della VI flotta Usa, basata a Napoli, vi resta decisiva. Con al seguito lo sperimentato fratello d’armi britannico, in via d’uscita dall’Unione Europea ma abbarbicato alle basi di Gibilterra e Cipro. Al suo medesimo rango la Francia. A distanza, Italia e Spagna, poi Turchia. Alle quali occorre aggiungere le petromonarchie del Golfo, che hanno riscoperto l’al-Baḥr al-Rūmī sotto il profilo economico ma soprattutto quale vettore delle loro proiezioni di potenza nelle partite geopolitiche nordafricane, a prevenire ulteriori «primavere arabe». Complica l’equazione il ritorno della Russia, attratta verso i mari caldi dal relativo disimpegno americano e dalla pelosa intesa con Ankara, dopo la riconquista della Crimea e sotto la sigla della sua «guerra al terrorismo» in Siria. Soprattutto va considerato l’avvento della Cina, per ora quale potenza commerciale, in prospettiva da attore strategico, come hanno anticipato nel 2015 le esercitazioni navali congiunte con la Marina russa, prima assoluta per il Mediterraneo.
Pechino inquadra le acque del nostro intorno nell’ambito di una strategia mondiale. L’obiettivo di lungo periodo, di qui al centenario della Repubblica Popolare (2049), è di affermare una «globalizzazione» (leggi: egemonia) sinocentrica alternativa a quella americana, percepita in via di fallimento, decadente. Avendo però cura di evitare, o rinviare il più a lungo possibile, la collisione diretta con il Numero Uno. Insieme socio, stante l’interdipendenza economico-finanziaria, e rivale, in forza dell’irriducibilità reciproca al canone egemonico altrui. All’America Pechino si approccia secondo le regole del weiqi, il gioco da tavolo originato in età confuciana dove i due avversari, prefigurando una cadenza geopolitica, si contendono il controllo degli spazi disponendo sulla tavola le rispettive pedine nere o bianche in un paziente duello di accerchiamenti e smarcamenti. Elegante balletto con cui la leadership cinese prova a mascherare la sua recente arroganza, che se non controllata potrebbe spingerla verso avventure troppo impervie per le risorse a disposizione.
Il pentagramma strategico su cui i cinesi incidono la loro melodia mediterranea è la Belt and Road Initiative (Bri) lanciata da Xi Jinping nel 2013, resa poeticamente nel marchio delle «nuove vie della seta». Al netto della musica di accompagnamento, un progetto olistico in cui la tessitura visibile – l’infrastrutturazione dei commerci euro-asiatici – s’intreccia con l’esoterica penetrazione territoriale, sotto specie di «basi protettive», ovvero teste di ponte della proiezione militare nel mondo. Per meglio intendere tale progetto seguiamo la «via della seta marittima del XXI secolo» disegnata sulla più recente mappa dei corridoi Bri prodotta dall’Amministrazione nazionale per la cartografia, topografia e geoinformazione di Pechino (carta a colori 5). L’attenzione cade sul suo tracciato aperto, dal Mare di Bering all’Atlantico, oltre le Colonne d’Ercole. Non siamo di fronte a un mero circuito Asia-Africa-Europa, ma all’ambizione di strutturare in questi tre continenti una rete di relazioni sinocentrate con cui meglio affrontare la sfida agli Stati Uniti. Il Mediterraneo euroarabo è perciò inquadrato nel sistema dei tre mari di mezzo di calibro globale, tra l’asiatico e l’americano. Bacino in robusta crescita, se è vero che nel 1995 le rotte transpacifiche valevano il 53% dei traffici globali, contro il 27% del percorso via Suez-Mediterraneo, mentre nel 2015 il vantaggio del Pacifico si è quasi annullato (44% contro 42%).
Il «nostro» mare è visto da Pechino quale sbocco occidentale del Mediterraneo allargato, non troppo diverso dal Grande Medio Oriente di marca americana: tra Golfo Persico e Gibilterra, ricomprendendo al suo interno Corno d’Africa, Sahara e Maghreb. Quest’area disegna l’asimmetria geoenergetica fra Stati Uniti e Cina: per i primi i tesori gasieri e petroliferi mediorientali – di recente arricchiti dalle scoperte nel bacino del Levante (carta a colori 6) – sono sempre meno dirimenti, per la seconda essenziali.
Il canale di Suez – su cui si sono concentrati negli ultimi anni attenzione e investimenti cinesi onde attrezzarlo al transito delle supercontainer da oltre 13 mila teu – è la vena giugulare interna che garantisce la circolazione nel ventaglio delle rotte di massimo interesse cinese. Lungo questo percorso Pechino ha individuato nel porto ateniese del Pireo, «perla del Mediterraneo» per il premier Li Keqiang 8, il perno regionale dei traffici, acquisendone il controllo. A rafforzare questo versante, il recente investimento nel Kumport Terminal del porto turco di Ambarlı, presso Istanbul. Si traccia così una direttrice anatolico-balcanica che punta via terra verso la Germania.
Per Pechino il Mediterraneo allargato non è regione ma nastro trasportatore. Canale stretto fra rive eterogenee. La burocrazia mandarina distingue il Vecchio Continente, tra facciata atlantica e frontiera occidentale della Russia, dal fronte meridionale, fra coste della Mauritania e Golfo Persico, Turchia e Iran inclusi. Nel ministero degli Esteri la fascia Nord è assegnata al dipartimento per gli Affari europei, la Sud a quello per gli Affari dell’Asia occidentale e del Nordafrica. Uffici che non brillano per comunicazione, tanto da gestire di fatto due carriere diplomatiche distinte. Nei laboratori strategici cinesi, poi, Europa è sinonimo di Germania, mentre l’Italia è assegnata all’assai meno blasonata famiglia euromediterranea, in compagnia di Albania, Croazia, Cipro, Grecia, Macedonia, Montenegro, Portogallo e Spagna 9. Il nostro paese è considerato caso quasi disperato. Da anni la Repubblica Popolare cerca invano un porto in Italia per agganciarlo alle vie marittime della seta.
A Taranto i messi di Pechino non sono stati nemmeno ricevuti dal sindaco, a Napoli li ha respinti la camorra, a Gioia Tauro la ’ndrangheta ha allestito uno pseudosindacato con tanto di bandiere rosse che ha sbarrato la strada allo shipping cinese. Dopo i per ora velleitari tentativi di Venezia, sono in pista Genova e Trieste (porto franco, ben collegato alla Mitteleuropa, molto meno al mercato italiano), sui quali cominciano ad affluire investimenti da Pechino e non solo. Restiamo però lontani dalla taglia del Pireo.
A Taranto i messi di Pechino non sono stati nemmeno ricevuti dal sindaco, a Napoli li ha respinti la camorra, a Gioia Tauro la ’ndrangheta ha allestito uno pseudosindacato con tanto di bandiere rosse che ha sbarrato la strada allo shipping cinese. Dopo i per ora velleitari tentativi di Venezia, sono in pista Genova e Trieste (porto franco, ben collegato alla Mitteleuropa, molto meno al mercato italiano), sui quali cominciano ad affluire investimenti da Pechino e non solo. Restiamo però lontani dalla taglia del Pireo.
Capitolo a sé nella proiezione cinese verso un attore topograficamente mediterraneo ma geopoliticamente universale è il vettore diplomatico segreto che punta al Vaticano. Con papa Francesco le relazioni informali fra Santa Sede e Pechino sono più intime. Il giorno della loro formalizzazione potrebbe precedere il giudizio universale. Lo conferma l’eco offerta dai media cinesi a un articolo della Civiltà Cattolica, nel quale il gesuita Joseph You Guo Jiang avverte che la Chiesa cinese «è chiamata a ridefinire il suo ruolo e le sue relazioni con il Partito comunista e la sua ideologia», allo scopo di «trovare soluzioni flessibili ed efficaci per continuare la sua missione»: nemmeno troppo criptica garanzia che dalla cattedra di Pietro non si intende sollecitare alcun cambio di regime a Pechino 10.
Nella sua proiezione verso occidente, volta a sfuggire alla morsa dello strangolamento a stelle e strisce – mirato sul mediterraneo asiatico e attrezzato attorno ai nazionalismi sinofobi di Giappone, Vietnam e India – la Cina coniuga commercio e sicurezza, diplomazia e propaganda, geoeconomia e geopolitica. Con una specifica quanto per ora sottaciuta dimensione militare, che rivela quanto stretto sia il vincolo con il Mediterraneo allargato.
Anzitutto in chiave difensiva. La stabilità della Repubblica Popolare dipende in buona misura dal controllo delle spinte centrifughe nel Xinjiang, la cui corposa minoranza uigura, musulmana e turcofona, è irradiata nel Levante mediterraneo. Sono migliaia i foreign fighters uiguri impegnati a difendere ciò che residua dello Stato Islamico in Siraq (carta a colori 7). Dietro di loro si staglia l’ombra di Ankara, per cui Xinjiang è abuso mandarino. Il suo vero nome è Turkestan Orientale. Come tale afferisce all’ecumene panturanica, di cui la Repubblica di Turchia s’intesta la protezione universale.
Poi anche in modalità offensiva. Le «nuove vie della seta» accompagnano e marcano l’espansione dello strumento militare cinese. Spesso sotto copertura delle «missioni di pace» Onu e del contrasto alla pirateria, sempre più anche a titolo di protezione dei connazionali, soprattutto ingegneri e operai, arroccati nei cantieri Bri. La prima base militare estera della Repubblica Popolare è quasi completata a Gibuti, sentinella sul choke point di Bāb al-Mandab, frontiera meridionale del Mediterraneo allargato. Ad appena 4 chilometri da Camp Lemonnier, unica infrastruttura militare permanente Usa in Africa, e a ridosso delle omologhe installazioni francese, giapponese, saudita (in costruzione) e italiana. Altre teste di ponte cinesi seguiranno, anche sulle sponde africane del Mediterraneo.
Torniamo così alla questione centrale. Scartata per principio – a meno di pulsioni suicide – la velleitaria ipotesi cinese di associare gli Stati Uniti alle «nuove vie della seta», cioè al progetto di un mondo sinocentrico che mira a sopprimere l’impero americano, Washington intende ostacolare la corsa all’ovest di Pechino, che si spinge fino al Mediterraneo. Tanto più pericolosa se dovesse intercettare le spinte all’est di Russia e Germania. Per connettere una sequenza geostrategica sino-russo-germanica volta a destabilizzare il primato degli Stati Uniti. A quel punto la rete di cinture terrestri eurasiatiche e vie oceaniche transmediterranee (dai Mari Cinesi al «nostro» mare), graziosamente infiorate da Xi Jinping con la narrazione delle «nuove vie della seta», si svelerebbe cappio al collo dell’America. Il Mediterraneo tornerebbe così ciò che fu durante la guerra fredda: teatro di scontro fra l’impero di Washington e il suo Nemico. E noi europei riscopriremmo una faglia longitudinale analoga a quella che ci governò tra 1945 e 1991, lungo la cortina di ferro che nell’immagine di Churchill univa Stettino sul Baltico (esiguo mediterraneo nordico) a Trieste sull’Adriatico.
3. Restiamo invece ipnotizzati dalla lettura latitudinale che vuole il Mediterraneo fossato a protezione della Fortezza Europa. Argine al giovane mondo di Hobbes che preme da sud per sconvolgere la nostra vecchia casa.
Non ingannino le retoriche edificanti, i richiami ai valori universali, le professioni di fede nei diritti umani scandite dai principali leader euroccidentali, peraltro contraddette da loro autorevoli omologhi dell’ex impero sovietico. Nella pancia degli europei domina la paura dell’alieno, minaccia alla nostra identità. Potrà apparire irrazionale. Ma sappiamo che spesso è questa classe di sentimenti a mobilitare gruppi e individui, non la cartesiana identificazione dei propri interessi. L’aria del tempo colora il Mediterraneo di spaventose tinte, svilendolo a Canale delle Minacce. Inutile demonizzare i «populismi» – brillante invenzione delle élite. Conviene semmai disporsi all’anatomia di questa passione antimediterranea per identificarne radici e conseguenze geopolitiche, da cui i decisori – si fa per dire – distilleranno terapie.
Motore della paura è l’impropria quanto potente equazione migranti=invasori=terroristi. Se non fosse collettore e tramite (ma sempre più spesso fossa comune) di un crescente numero di persone in movimento da sud a nord, provenienti in maggioranza da territori di tradizione islamica nei quali si sono incistati negli ultimi decenni gruppi jihadisti particolarmente abili nella diffusione del loro marchio di terrore (carta 2), il Mediterraneo godrebbe di tutt’altra immagine. Quattro fattori di spinta determinano quei flussi umani che nei media nordeuropei sono apparentati alla Völkerwanderung – l’età delle migrazioni tra IV e VI secolo, allora in senso opposto (esodo di tribù germaniche verso l’Europa centromeridionale) – dunque destinati a rimescolare nel profondo le nostre società: demografia, economia, clima e geopolitica. Tutti strutturali, almeno nel medio periodo. Non esistono politiche che possano neutralizzarli o riorientarli radicalmente. Allo stesso tempo, nelle ipermediatizzate democrazie europee non è concesso ai leader ammettere che un problema non abbia soluzione, quindi per definizione non sia tale. L’incrocio perverso fra la cogenza dei propulsori migratori e la coazione a mentire di chi è deputato ad amministrarne le conseguenze eccita gli xenofobi europei che dipingono le migrazioni quali anticamera dell’apocalisse.
Dei quattro fattori, decisiva è l’asimmetria demografica fra Europa e Africa (tabella). La prima rappresenta il 10% della popolazione mondiale (738 milioni stimati nel 2015), ma scenderà al 7% nel 2050, quando la seconda, che vale il 16% (1.186 milioni), supererà il 25%, raddoppiando (2.478 milioni). Soprattutto, l’età mediana in Europa è di quasi 45 anni, nell’Africa subsahariana, serbatoio dei flussi, non tocca i 20. E mentre a nord del Mediterraneo il tasso di fecondità è in genere ben sotto la soglia dei due figli per donna che assicura la stabilità della popolazione, nell’Africa subsahariana si tocca quota cinque, con punte fra Nigeria e Senegal. A muovere uomini e donne verso terre più promettenti – non necessariamente in Europa, anzi nove volte su dieci per mancanza di alternative i migranti si spostano in Africa – è l’intreccio fra eruzione demografica e depressione economica, aggravata dal mutamento climatico che rende inabitabili ampie porzioni di territorio a sud del Sahara. Con l’agricoltura di sussistenza in crisi e l’epidemia di fame che opprime decine di milioni di africani, mentre la recessione incide nei colossi sudafricano e nigeriano, la rinascita del Continente Nero è rinviata a data da determinarsi. Ci si aggrappa allora alle rimesse degli emigrati, cresciute di sei volte negli ultimi sedici anni.
Combinato disposto delle emergenze demografica, economica e climatica contribuisce infine a rendere cronici i conflitti che destabilizzano Caoslandia e ci privano di interlocutori efficaci nelle aree critiche. Patetica è la corsa dei governi europei a remunerare presunti capi locali, tutti più o meno cointeressati alla gestione delle migrazioni in quanto fonte certa di reddito nel contesto della più totale incertezza. Altrettanto insensato è l’approccio puramente repressivo, che mira a ridurre i flussi liquidandone i gestori. I trafficanti non producono i flussi, li sfruttano. La domanda di quella peculiare merce che è l’ingresso illegale in un paese straniero esiste e cresce a prescindere dagli intermediari che promettono di soddisfarla. Oggi a gestirla può essere un famigerato capobastone, domani una guida turistica senza lavoro o un pescatore per cui imbarcare venti persone vale cinque anni di attività 11.
Il potere dei trafficanti si esercita semmai nella scelta dei corridoi migratori che traversano il Sahara verso il Mediterraneo (carta a colori 8). Siamo negli sterminati e ingovernati spazi storici delle tribù del deserto, partecipi dei traffici delle narcomafie e delle rispettive milizie (carta 3). Chi fugge la sua Africa di origine in cerca del promesso Eldorado ripercorre le carovaniere che per secoli hanno segmentato il deserto, di oasi in oasi: lungo il versante occidentale e atlantico via Mauritania-Marocco verso le exclavi (Ceuta e Melilla) o le isole spagnole (Canarie); per la rotta centrale imperniata su Agadez che dal Niger sfocia nel porto tripolitano di Sabrata e dintorni; mentre ai migranti mediorientali la geografia suggerisce il canale turco-greco.
Prima il blocco quasi totale degli sbocchi occidentali – concordato dalla Spagna con il Marocco e i suoi vicini – poi il patto Merkel-Erdoğan che ha ridotto ai minimi termini la corrente orientale e balcanica, hanno deviato la netta maggioranza dei flussi transmediterranei verso la direttrice mediana. Qui attendono i gommoni che caricano i migranti fino al limite delle acque libiche, dove intervengono i soccorsi privati delle organizzazioni non governative – sotto recente tiro della magistratura italiana per presunte connivenze con i trafficanti – e della nostra Marina, mentre i maltesi fanno finta di niente. In forza dei regolamenti vigenti e soprattutto della refrattarietà degli altri paesi mediterranei a farsene carico, il guado del Canale di Sicilia finisce invariabilmente in un porto del Mezzogiorno, da Augusta a Catania, da Pozzallo a Reggio Calabria e a Palermo (grafico 1).
Tra flussi mediterranei e stretta ai valichi alpini imposta dai vicini europei, l’Italia è così trasformata, da paese di transito, in destinazione obbligata dei migranti. Dai 43 mila arrivi del 2013 siamo passati ai 181 mila del 2016. Quest’anno sembriamo destinati a valicare la soglia non solo psicologica dei 200 mila, visto che nel primo semestre l’incremento rispetto allo stesso periodo del 2016 è stato superiore a un quarto (grafico 2). Soprattutto, aumentano i migranti dall’Africa occidentale (sette delle prime otto nazionalità, con la curiosa quanto sintomatica eccezione del Bangladesh). Al primo posto la Nigeria, esuberante quanto fragile colosso demografico (grafico 3). Tutto indica che per il tempo visibile l’Italia dovrà attrezzarsi al mutamento del suo profilo sociale e culturale. Siamo sempre più dentro il Mediterraneo, senza una politica mediterranea. Men che meno con una strategia di integrazione/assimilazione, da cui i nostri governi fuggono per non rischiare l’impopolarità. Ma in questo non siamo soli.
Trent’anni fa Fernand Braudel definiva il Mediterraneo «sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in un’unità originale» e si proponeva di spiegarne «l’essenza profonda» 12. Il grande storico delle Annalespagava così dazio all’ideologia mediterraneista. Quella che ha coltivato il mito estetico del Mediterraneo, espresso nell’immagine di un mondo a sé, distinto per flora, fauna, clima, paesaggio umano e fisico. Un geografismo, nel senso di Yves Lacoste, figura di stile che dal nome di un territorio induce per metafora un soggetto geopolitico. Di tanta enfasi mediterranea resta oggi la dieta – per chi non la considera truffa. Più fortuna ha l’opposta ontologia mediterraneofoba di matrice settentrionale (Norditalia compreso), d’onde si trae un catalogo devastante dei vizi privati e pubblici intrinseci a chi popola le coste del nostro mare. Ne è volgarizzazione l’invettiva del presidente olandese dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, contro quei mediterranei che «spendono tutti i soldi per alcol e donne per poi chiedere aiuto» 13. Figlia di quella rappresentazione germanocentrica che ai tempi della disputa intorno all’ammissibilità al privilegio dell’euro di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo (paese atlantico, chissà perché assimilato a noi mediterranei) intendeva negargliela in quanto «Club Med».
Non è solo in punto di retorica che della koiné braudeliana poco rimane. Osserviamone lo sfondo, il paesaggio. Alla devastazione delle coste per mano umana si aggiungono gli effetti del clima mutante. Secondo uno studio dell’Università di Aix-Marseille il riscaldamento globale desertificherà parti dell’Europa meridionale e del Nordafrica entro fine secolo, alterando gli ecosistemi con una profondità mai sperimentata negli ultimi dieci millenni. Il Sahara si espanderà nelle province settentrionali di Marocco, Algeria e Tunisia, per debordare nella Spagna e nel Portogallo meridionali, in Sicilia e altrove 14.
Per chi vive nel terrore dell’«invasione», l’avanzata delle sabbie al di là del Mediterraneo è la faccia geofisica del flusso migratorio sud-nord. Entrambi contribuiscono a sconvolgere l’identità europea. Non importa quanto (ir)realistiche siano tali percezioni. Conta il loro impatto geopolitico. L’Europa settentrionale, che aveva fino a ieri negletto il Mediterraneo e anche quando lo demonizzava s’illudeva di esorcizzarlo da remoto, scopre di averlo vicino, anzi dentro. Nel cuore delle proprie senili metropoli, che ospitano ribollenti comunità maghrebine e anatoliche, arabe e levantine, subsahariane e centroasiatiche, spesso bollate quali vivai jihadisti (carta 4). Alla penetrazione da sud corrisponde a nord la secessione britannica, anch’essa maturata in chiave d’emergenza identitaria. Divorzio incompiuto ma già capace di sbilanciare verso mezzogiorno il baricentro dell’Unione Europea.
La conseguenza più rilevante è la svolta mediterranea e africana della geopolitica tedesca. Prima Bonn poi Berlino avevano sempre rispettato il pré carré di Parigi, l’impero informale della Françafrique. Ancora sei anni fa, quando Sarkozy decise di eliminare il suo ex finanziatore Gheddafi, la Germania se ne lavò le mani. Oggi l’approccio alle terre arabe e africane è politica interna, non solo estera, su cui si gioca la campagna elettorale in vista del rinnovo del Bundestag, il 24 settembre. Dopo il doppio passo della tarda estate 2015, quando Merkel prima spalancò poi freneticamente richiuse le porte della Repubblica Federale a migranti e profughi in prevalenza siriani – avendone assorbite diverse centinaia di migliaia, utili a rinsanguare l’anemica demografia tedesca – la potenza centrale europea ha accentuato il suo impegno sul fronte Sud. Decine di miliardi di euro irrorano un piano a tutto tondo: per la cooperazione in Africa – incluso l’affitto di dittatorelli e caporioni locali nella speranza che frenino i flussi sui quali speculano – come per l’integrazione dei migranti in Germania. E nella riscoperta delle Forze armate un accento speciale è posto sulla loro capacità di intervenire nelle crisi a sud del Mediterraneo. Per quanto possibile sotto le foglie di fico comunitarie o onusiane, ma sempre più d’intesa con Parigi, in sintonia con le retrouvailles franco-tedesche eccitate dall’avvento di Macron all’Eliseo.
Ma il Mediterraneo bagna anche l’Est. Lo testimonia il neonato Trimarium, l’asse meridiano marittimo dal Baltico all’Adriatico e al Mar Nero tratteggiato dall’intesa che lega repubbliche già sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania) ed ex satelliti di Mosca (Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia, Romania, Bulgaria) alla neutrale Austria, fino alla coppia (Slovenia e Croazia) che liquidò la Jugoslavia. Idea polacca, concepita da Krzystof Szczerski, capo di gabinetto del presidente Andrzej Duda, memore dell’Intermarium (Mie˛dzymorze) evocato da Józef Piłsudski quasi cent’anni fa quale argine all’Armata rossa. Oltre all’implicito riflesso antirusso e all’asserita volontà di attrezzare le infrastrutture nord-sud, questa eteroclita compagnia condivide l’urgenza di respingere l’«invasione» dal Mediterraneo, in nome della appena riconquistata (o inventata) sovranità nazionale.
L’Italia resta invece terra d’elezione della retorica mediterraneista, ovvero di ciò che ne residua.L’altra faccia della sua refrattarietà all’acqua salata. Mentre rifiutiamo il mare vero, ne omaggiamo uno ideale. Noi il Mediterraneo lo subiamo. Rinunciamo a cogestire, umanizzare e per quanto possibile selezionare i flussi sud-nord, cogliendone l’utilità per la nostra disastrata demografia. Né sappiamo intercettare i traffici est-ovest, che potrebbero rinsanguare l’economia.
Siamo in tempo per invertire la rotta? Forse sì. Per cominciare, un esercizio di cartomanzia.Riprendiamo in mano la mappa cinese delle vie marittime della seta.
Muoviamo l’azzurra traccia intramediterranea, allegramente dimentica degli approdi italiani, di qualche grado più a settentrione, per agganciarla a un nostro scalo attrezzato agli scambi con i mercati d’Oltralpe (Trieste ? ndr).
Molto più di qualsiasi volontarismo europeista, in un solo colpo tale modesto esercizio rinsalderebbe insieme il nostro ancoraggio al cuore del continente e la nostra apertura ai commerci mondiali. Il Mediterraneo non sarà mai più nostrum. Non per questo dobbiamo affogarci.
Muoviamo l’azzurra traccia intramediterranea, allegramente dimentica degli approdi italiani, di qualche grado più a settentrione, per agganciarla a un nostro scalo attrezzato agli scambi con i mercati d’Oltralpe (Trieste ? ndr).
Molto più di qualsiasi volontarismo europeista, in un solo colpo tale modesto esercizio rinsalderebbe insieme il nostro ancoraggio al cuore del continente e la nostra apertura ai commerci mondiali. Il Mediterraneo non sarà mai più nostrum. Non per questo dobbiamo affogarci.
Note
1. Claudio Rutilio Namaziano, De reditu suo, I, 66: «Urbem fecisti, quod prius orbis erat».
2. F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Milano 1998, Rizzoli, p. 108.
3. Cit. in M. Ferro, prefazione a L. Febvre, L’Europe. Genèse d’une civilisation, Paris 1999, Perrin, p. 11.
4. Sulla presenza italiana nel Mediterraneo fra Ottocento e primo Novecento ci rifacciamo al pionieristico studio di V. Ianari, Lo stivale nel mare. Italia, Mediterraneo, Islam: alle origini di una politica, Milano 2006, Guerini.
5. F.M. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, Milano 1943, Garzanti, p. 645, citato in V. Ianari, op. cit., p. 20.
6. Cfr. C. Zaghi, P.S. Mancini e il problema del Mediterraneo (1884-1885), Roma 1955, Casini, p. 34, citato in V. Ianari, op. cit., p. 37.
7. Cfr. il rapporto Maritime Economy – Port Indicators 2017, a cura di Assoporti e Srm.
8. Cfr. E. Avramidou, «China and the Mediterranean», Efimerída ton Syntaktón, 20/4/2017.
9. Cfr. il rapporto a cura di A. Ghiselli ed E. Fardella «Cina – Il Mediterraneo nelle nuove vie della seta», Osservatorio di Politica Internazionale, Parlamento Italiano, n. 132, maggio 2017.
10. J. You Guo Jiang S.I., «Il cattolicesimo in Cina nel XXI secolo», La Civiltà Cattolica, anno 168, n. 4007, pp. 417-424.
11. Seguiamo qui l’analisi di P. Campana, «The Market for Human Smuggling into Europe: A Macro Perspective», Policing, Oxford 2017, Oxford University Press, pp. 1-9.
12. F. Braudel, op. cit., p. 9.
13. Cfr. «Dijsselbloem nella bufera per le frasi sul Sud Europa: “Non può spendere tutto in alcol e donne e poi chiedere aiuti”», repubblica.it, 21/3/2017.
14. A. Doyle, «Mediterranean Warming Fast, Deserts May Spread in Europe: Study», Reuters, 27/10/2016
Gli ampliamenti del porto di Trieste previsti dal nuovo Piano Regolatore
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