Carta di Laura Canali, 2018.
La carta inedita della settimana è sull’Ungheria e sulla visione del mondo del suo premier, Viktor Orbán
Il faro strategico del leader magiaro è senza dubbio il recupero dell’influenza presso le popolazioni ungheresi rimaste fuori dai confini tracciati dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale con il trattato del Trianon del 1920, ancora un trauma psicologico nazionale.
Ciò significa tessere relazioni in Serbia, Slovacchia, Ucraina e, soprattutto, Romania, dove risiede una corposa minoranza magiara in Transilvania. Questo obiettivo genera frizioni con i vicini, in particolare negli ultimi tempi con Kiev e Bucarest. Come vettore per costruire rapporti oltre confine, Orbán punta a potenziare le infrastrutture del bacino carpatico, la piana pannonica dove sono stanziate le comunità ungheresi. Questi progetti rientrano nello spirito dell’iniziativa del Trimarium, gruppo di paesi dell’Europa centro-orientale volto proprio a migliorare le connessioni nord-sud fra i membri.
Con la gran parte degli attori a ovest dei propri confini, l’Ungheria intrattiene relazioni quantomeno complicate. Orbán percepisce l’Europa occidentale come determinata a riformare i membri orientali dell’Ue, imponendo il proprio modello di democrazia liberale. Ciò a cui i paesi del gruppo di Visegrád, in particolare la Polonia e la stessa Ungheria, si oppongono, temendo di veder diluita la propria identità e autonomia, riconquistate solo di recente con il crollo dell’Urss.
Budapest sa benissimo di non avere il peso per determinare da sola il proprio destino. Dunque non rompe con Bruxelles, simbolo dell’altrui ingerenza, ma vi rimane per esercitare influenza. Il recupero della soggettività degli attori est europei è percepito come dannoso a Parigi, poiché sposta il baricentro degli affari continentali lontano dall’asse renano con Berlino. Per la Germania questo fenomeno è un’arma a doppio taglio: le conferisce centralità assoluta nell’architettura europea, ma le complica i piani di conformare l’estero vicino alle proprie visioni.
Che la politica non sia la posta in gioco ma un vettore attraverso cui si esplica la strategia ungherese lo confermano i rapporti con Austria e Italia. Pur di orientamenti molto simili e nei mesi scorsi impegnati a ventilare possibili allineamenti, i governi di Vienna e Roma non hanno finora formato un asse conclamato con Budapest. Anzi, il cancelliere Kurz è stato tra i più attivi a opporsi alla tentata scalata di Orbán al Partito popolare europeo. E alcuni degli imperativi strategici del nostro paese collidono con quelli magiari, in particolare sulle migrazioni.
Proprio le migrazioni sono il principale motivo per cui Orbán percepisce la necessità assoluta di preservare la stabilità di Turchia, Israele ed Egitto. Il premier ha descritto questi paesi come bastioni difensivi contro l’invasione musulmana in Europa, spettro agitato a scopi di consenso. E sta agendo di conseguenza per saldare le relazioni, al netto di tutte le incongruenze di questa operazione.
Orbán esibisce anche una certa equidistanza fra Russia e Stati Uniti. Rispetto ad altri paesi limitrofi, l’Ungheria è storicamente meno portata a vedere emanare da Mosca una minaccia esistenziale e per questo il leader magiaro descrive gli interessi di potenza russi come legittimi. Più simile alle percezioni dei propri vicini è invece l’immagine degli Usa, visti come partner sensibile alle esigenze dell’Europa Centrale, in particolare (ma non soltanto) dall’elezione di Donald Trump.
Testo di Federico Petroni.