DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

sabato 12 dicembre 2020

TRIESTE TRA ESTREMO ORIENTE E MEDITERRANEO - Carta inedita e testo da LimesOnLine (gratis per i nostri lettori)


 La carta inedita a colori della settimana è dedicata a Trieste tra Estremo Oriente e Mediterraneo.

Il porto franco giuliano è il capolinea di numerosi collegamenti oceanici diretti con l’Estremo Oriente e con svariati porti del bacino mediterraneo, specialmente levantini.

Trieste ambisce a giocare un ruolo nodale nel corridoio trasportistico più rilevante al mondo, quello che unisce via mare l’Asia al Vecchio Continente, con l’obiettivo di dirottarlo in Adriatico.

La posizione geografica in effetti ne farebbe un punto di approdo naturale per le rotte intersecanti il Canale di Suez e dirette ai mercati dell’Europa centrale e settentrionale. I fondali profondi consentono di accogliere le grandi navi portacontainer da 14 mila teu delle principali flotte di linea al mondo.

Nell’ultimo decennio il porto ha consolidato notevolmente il suo legame strategico con la Turchia, dando vita a una delle più affollate “autostrade del mare” del Mediterraneo. Trieste ha contatti ben avviati anche con Grecia, paesi della Penisola arabica, Malaysia e naturalmente Cina. A questo fiorente dinamismo marittimo fa da contraltare la scarsità di collegamenti con il resto dello Stivale.

Lo scalo giuliano è stato al centro di forti controversie per il suo coinvolgimento nel progetto geopolitico cinese delle nuove vie della seta. Complici le proposte di investimento della Repubblica Popolare, la reazione americana e la ritrosia delle autorità italiane a prendere una posizione ufficiale sull’interessamento di Pechino ai nodi principali del sistema portuale tricolore. La piattaforma logistica del porto giuliano, per la quale vi era appunto un forte interessamento cinese, è stata infine acquistata dalla tedesca Hhla, che gestice il porto di Amburgo.

Tutto ciò rafforza inevitabilmente l’autopercezione di Trieste quale porto mitteleuropeo prestato all’Italia.

Testo di Alberto de Sanctis.
Carta di Laura Canali, in esclusiva a colori per gli abbonati di Limesonline.


 

sabato 5 dicembre 2020

LA VERA STORIA DEI CINESI A TRIESTE - Conversazione con Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico orientale (Trieste). Dall' Ultimo numero di Limes -

Conversazione con Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico orientale (Trieste). 


LIMESChe cosa è successo davvero al porto di Trieste, dopo il tentato sbarco della Cina avversato dagli Usa fino all’approdo della tedesca Hamburger Hafen und Logistik (HHLA)?

D’AGOSTINOOccorre premettere che sino a due-tre anni fa trattare con la Cina non aveva implicazioni geopolitiche. La logica era meramente trasportistica. I negoziati avviati dalla nostra Autorità portuale non erano condizionati dalla geopolitica. Nel 2016 abbiamo perciò cominciato a dialogare attivamente con aziende della Repubblica Popolare Cinese. Non vedevo e non vedo nulla di male nella nostra partecipazione alle nuove vie della seta, che però va distinta dall’adesione formale alla Belt and Road Initiative (Bri). Altrimenti si rischia una commistione dannosa, assegnando valore geopolitico a iniziative che riguardano la logistica e la trasportistica internazionale. Il passaggio di mano di un terminal container non stravolge di per sé gli assetti strategici nazionali, come dimostra il caso degli altri paesi europei che accolgono investimenti cinesi. Anche perché con le tecnologie attuali non serve di certo il controllo di un terminal container per spiare qualcuno.

Il ruolo nodale di Trieste, incuneata nel cuore d’Europa e sbocco naturale delle rotte passanti per il Canale di Suez, è iscritto nella sua geografia. Sarebbe suicida rinunciare alla funzione che Trieste può svolgere nel corridoio trasportistico più importante al mondo – più di quelli transpacifico e transatlantico – per valore, tonnellaggio, numero di navi. Rotta che dall’Asia giunge via mare nel Vecchio Continente, passando anche dall’Adriatico. Questo è il valore su cui è imperniata la rilevanza dello scalo giuliano, che per di più è porto franco.

Di fatto, più che merci sulle nuove vie della seta viaggiano fabbriche, poiché queste direttrici aumentano l’accessibilità di alcuni territori riconfigurando il posizionamento delle grandi multinazionali.

Eppure da qualche anno l’opportunità di relazionarci su quest’asse con il soggetto principale, la Cina, ha scatenato controversie. Rispetto al passato, l’interazione con i cinesi, ma anche con gli iraniani e altri soggetti di questa rotta, ha acquisito una dimensione geopolitica.

Al di là dell’emergenza coronavirus, contrariamente a quello precedente il nostro governo attuale non pare intenzionato a stringere i bulloni dei rapporti con la Cina. Oggi a Roma quando si tratta di Pechino si smarcano in molti, mentre all’inizio dell’anno scorso le forze di maggioranza spingevano compatte in quella direzione. Non sorprende, anche alla luce delle crescenti pressioni americane. 

LIMESQuando c’è stata la svolta?

D’AGOSTINOLo scorso novembre ancora trattavamo a Shanghai. Il 2020 è stato l’anno determinante, anche per la crisi da Covid-19 che rallenta gli scambi e in alcuni casi li arresta. I riflettori sull’Italia hanno cominciato ad accendersi con la firma del memorandum d’intesa sino-italiano sulla Belt and Road Initiative, nel marzo 2019. Con tanto di grandiosa scenografia. Mentre senza troppe luminarie Germania e Francia conducevano e conducono beatamente affari con Pechino, guardandosi però bene dall’aderire alla Bri con un memorandum d’intesa. Parigi non ha battuto ciglio a maggio di fronte all’acquisizione di dieci terminali non localizzati in Francia, controllati dalla francese Cma Cgm, da parte di China Merchants, mentre ha bloccato l’attivismo di Fincantieri.

Non vanno sottovalutate nemmeno le conseguenze trasportistiche di un accordo con i cinesi. Quando se ne è iniziato a discutere, l’ostilità è arrivata non a caso prima da Bruxelles che da Washington. A cominciare dai tedeschi, ovvero dagli stessi protagonisti della recente operazione relativa al Molo VIII del porto di Trieste. I porti del Nord Europa, che fino ad allora avevano goduto di rapporti privilegiati nel quadro di questi flussi lucrosi, si vedevano insidiati dalla nostra iniziativa. Nel frattempo, gli ambasciatori europei a Pechino firmavano una lettera di denuncia della pericolosità delle nuove vie della seta.

Alla debolezza della politica estera italiana si aggiunge la scarsa cognizione da parte del nostro governo e dell’opinione pubblica del fondamentale valore della proiezione marittima e della portualità nazionale. Paradossale per un paese come il nostro, circondato dal mare ma completamente proteso verso terra. All’opposto, la Cina, potenza storicamente e culturalmente terrestre, ha inserito la Bri in costituzione, considerandola un disegno trasportistico-logistico globale, di grande valore economico e geopolitico.

Purtroppo bisogna tornare alla prima metà del Novecento per trovare una seppur blanda forma di politica marittima nazionale. Quando eravamo un paese colonizzatore, peraltro lontano dai fasti delle altre potenze europee, che però tentava di proiettare l’immagine di una vocazione marittima nazionale. Oggi non sembra esserci – e temo non ci sarà – alcuno slancio marittimo dell’Italia, quando tutto chiamerebbe a tentarlo.

LIMESGli americani si sono opposti allo sbarco cinese a Trieste in nome del valore strategico di questo scalo, che può servire le loro basi di Vicenza e Aviano, oltre a fungere da caposaldo adriatico della verticale antirussa che sfocia nel Baltico. Ma il vostro porto può essere militarizzato?

D’AGOSTINOUn porto civile non si converte agevolmente in militare. E non è solo questione di normative. La geografia ci rende uno scalo strategico, ma oggi ci è preclusa la gestione di flussi militari. È una questione di cui Washington dovrebbe discutere con Roma, non con Trieste. È vero però che Bruxelles sta allocando fondi notevoli all’Action Plan on Military Mobility del Connecting Europe Facility (Cef, da cui Trieste riceve finanziamenti per la rete ferroviaria). Istituito su spinta degli Stati dell’Europa centrorientale nel 2018 per adibire a uso duale nodi connettivi strategici di fronte alla percepita minaccia russa. Da qui la necessità di rifornire, tramite Mediterraneo e dunque Adriatico, di truppe e mezzi un’eventuale linea del fronte nell’Est Europa. È un progetto comunitario che coinvolge Nord Adriatico e Trieste in particolare e che permette di destinare le infrastrutture finanziate esclusivamente alle operazioni belliche in caso di guerra.

LIMESÈ vero che prima i cinesi e ora gli americani sono interessati a installare un data center nel Molo VIII?

D’AGOSTINOAscrivere la contesa per lo scalo alla potenziale installazione di un data center mi pare fuorviante, malgrado oggi la competizione tecnologica sia al centro della geopolitica. È ovvio tuttavia che il nodo del Nord Adriatico serva anche il passaggio di dati e cavi, oltre che di armi e simili. In questa logica, gli hubs tradizionalmente trasportistici devono diventare anche hubs tecnologici. Il mare resta veicolo di informazioni, a partire dai cavi sottomarini, quindi l’interesse delle potenze esterne – cinesi e americani compresi – è anche di questo tipo.

Oggi, con il Covid-19 stiamo subendo un’epidemia tradizionale. Se invece fosse un virus digitale a colpirci con la stessa aggressività non oso immaginare che effetti devastanti sortirebbe. Potenzialmente, il blocco di tutte le attività tecnologiche alla base della nostra economia. Trieste quindi deve farsi perno trasportistico e di dati.

Alcuni sostengono inerzialmente che la connettività comporti soltanto vantaggi. Dovremmo invece rivalutare il valore dell’isolamento, della capacità di disconnettersi rapidamente all’occorrenza. Come porto di frontiera, uno degli obiettivi è procedere a una tecnologizzazione che preveda la possibilità di sganciarsi dalla Rete qualora necessario. Un porto franco che immagazzini dati come merci e che sia capace di preservarli.

LIMESOggi a chi è connesso lo scalo di Trieste? È un porto italiano?

D’AGOSTINOTrieste è un porto mitteleuropeo in Italia. Per noi rivestono importanza apicale i collegamenti ferroviari lungo gli assi che conducono in Germania, Austria, Belgio, Lussemburgo, Slovacchia, Repubblica Ceca, in grado di trasportare merci fino in Scandinavia e nel Regno Unito. Stiamo poi studiando l’apertura di tratte per collegarci direttamente con la Polonia e più intensamente con l’Ungheria – pezzo forte degli ultimi anni. Si tratta di economie in sensibile crescita, connesse al resto del mondo, specie all’Asia, in particolare per quanto riguarda le forniture di materie prime, componentistica, semilavorati.

LIMESSpicca nel suo elenco l’assenza dell’Italia.

D’AGOSTINOIl collegamento con l’Italia esiste, verso Padova, Milano, Novara. Ma è questione delicata. Perché se puntiamo a ovest non facciamo concorrenza ai vicini della Mitteleuropa ma ai porti nazionali. La tratta italiana segnala disfunzioni degli altri scali italiani più che costituire un valore aggiunto per Trieste. Significa che qualcosa non funziona a Venezia e a Genova. Noi miriamo anzitutto alle direttrici nordiche e orientali, come testimoniano i traffici ferroviari da e per Trieste.

LIMESChe valore riveste l’oleodotto Transalpino che collega Trieste all’Europa centrale, coprendo il 40% del fabbisogno tedesco (100% di quello di Baviera e Baden-Württemberg), il 50% di quello ceco e il 90% delle importazioni austriache?

D’AGOSTINOQuel tubo simboleggia la nostra competitività logistica. Se riusciamo a portare tanto petrolio in Germania, Austria e Cechia, significa che possiamo essere competitivi anche in altri settori merceologici. L’oleodotto risale agli anni Sessanta. È il frutto delle menti aperte e lungimiranti dell’epoca, a partire da Enrico Mattei: la progettazione dell’oleodotto è difatti molto precedente alla sua realizzazione, ultimata nel 1967.

LIMESPrima dell’ingresso degli amburghesi nel Molo VIII con il 50,1%, in estate c’è stato un tentativo cinese di rientrare nella partita con China Merchants. L’offerta era economicamente molto superiore. Perché è stata rifiutata?

D’AGOSTINOSi è trattato di una proposta giunta a privati, rispetto alla quale il porto è soggetto terzo. Ma è chiaro che in questo momento qualsiasi acquisizione nei comparti strategici deve passare il vaglio del golden power. Questo spiega perché l’iniziativa tedesca è andata a buon fine, diversamente da quella cinese.

LIMESDunque i calcoli geopolitici hanno prevalso sui criteri commerciali?

D’AGOSTINOSolo in parte, perché la ratio è senz’altro geopolitica ma poi la questione assume rilevanza prettamente economica. Accettare un’offerta pur vantaggiosa nella consapevolezza che questa si arenerà per mesi o addirittura anni, dato il golden power, sarebbe improduttivo. Si tratta di essere pragmatici. L’implicazione è di business.

LIMESQuindi si dà per assodato che le acquisizioni tedesche non incontrino ostacoli?

D’AGOSTINOL’operazione di HHLA potrebbe essere considerata prova della nascente collaborazione fra italiani e tedeschi in materia portuale. Bloccare un’offerta tedesca sarebbe altrettanto significativo per gli equilibri europei del «no» ai cinesi. Anche nel caso degli ungheresi la trafila è stata tutto sommato veloce – stesso attivismo riscontrato per quella in atto inerente il Molo VIII.


LIMESLei ha da tempo avviato una trattativa con China Communications Construction Company (Cccc) per installare una testa di ponte triestina in Cina, in particolare a Nanchino. A che punto siamo?

D’AGOSTINOÈ tutto bloccato. Era in agenda una riunione a febbraio che coinvolgeva i cinesi e i maggiori produttori vinicoli del Nord-Est italiano, ma la diffusione dell’epidemia prima nella Repubblica Popolare e poi nel nostro paese ha congelato la trattativa. Stessa sorte toccata ad altre operazioni, come quelle in Slovacchia. Idem riguardo agli investimenti di Cccc nelle nostre reti ferroviarie.

LIMESC’è una clamorosa asimmetria in questi negoziati. In Italia i colossi stranieri, appoggiati o financo controllati dai rispettivi governi, negoziano direttamente con le nostre autorità locali, mosse da legittimi interessi specifici, e con i nostri non colossali privati. Non ci servirebbe una regìa italiana, analoga a quelle altrui?

D’AGOSTINODecisamente sì. Vale anche per il complesso dei paesi europei. È inconcepibile ed emblematico che non esista sul piano europeo un progetto simile alla Bri cinese. Stiamo parlando di corridoi strategici. Il nostro è un immobilismo deleterio. Dovremmo sì proteggerci, ma pure imparare. Pechino viene criticata, ma non concede prestiti a fondo perduto. Le nuove vie della seta prevedono infatti finanziamenti, anche a tassi elevati. E allora perché non lo facciamo noi? Magari partendo da realtà come Assicurazioni Generali, con appendici sparse nel globo, Hong Kong compresa, che non vogliamo o sappiamo sfruttare. Più che finanziario, il problema è di visione strategica. La Bri è anzitutto un’idea.

 

Il paradosso per eccellenza in questo senso è il nostro approccio all’Africa. Stigmatizziamo la proiezione della Cina in un continente che noi percepiamo principalmente come fonte di problemi, invece di investire sul suo potenziale dopo un’accurata pianificazione. Non siamo in grado di porci come centro di pensiero strategico, il quale è alla base di qualsivoglia estroflessione su larga scala. Avremo il coordinamento della portualità italiana quando l’Italia avrà una strategia, non viceversa.

LIMESQuali dovrebbero essere le nostre direttrici strategiche?

D’AGOSTINOI porti non sono mere infrastrutture ma centri di competenze, è su queste ultime che urge investire. Siamo divenuti un paese di poeti, santi e – più che navigatori – costruttori. Questi ultimi sono decisivi. Ne è esempio la parabola del ponte Morandi di Genova. A costruzione ultimata, ci si interrogava ancora a chi consegnarlo. Riprova della mancanza di progettualità organizzativa, non solamente infrastrutturale. Gli scali portuali devono assurgere a centri di eccellenza, scommettendo sulla competenza oltre che sul cemento e prevedendo modalità di azione pubblica diverse da quelle oggi consentite per legge. Ci vuole lo Stato, o comunque una mano pubblica. Dovremmo prendere spunto dalla recente acquisizione del Molo VIII a opera di un’azienda della municipalità di Amburgo. In Italia invece si dà per scontato che l’intelligenza sia appannaggio dei privati. Il primo passo consiste quindi nell’operare una rivoluzione concettuale. In assenza di un indirizzo pubblico complessivo partiamo sconfitti, come giustamente sostiene Alessandro Aresu nel suo libro sul capitalismo politico, notando le affinità tra Cina e Usa sotto questo profilo.

Decisiva resta la modesta dimensione delle aziende private italiane rispetto alle controparti estere. Le nostre aziende finiscono così per curare il proprio orticello invece di perseguire anche l’interesse nazionale, codificato in una strategia condivisa. Stato ed enti pubblici come le autorità portuali devono giocare un ruolo incisivo.

Se noi italiani riusciremo a costituirci come centro di intelligenza, oltre che di transito di merci e persone, potremo estrofletterci. Trieste ha già contatti ben avviati in Malaysia, Texas, Grecia, ed è oggetto delle attenzioni di tutti gli altri attori dell’Adriatico.

Insomma: conviene accettare la sfida cinese, iniziando a ragionare al grado europeo, facendo perno sulla rinnovata competitività del nostro mare. In quest’ambito dovremmo proporre un binomio italo-tedesco, per non restare schiacciati dal solito asse tra Parigi e Berlino.


LIMESQuale relazione dovremmo intrattenere con i porti del Nord Europa, nostri concorrenti?

D’AGOSTINOTorniamo alla strategia: dobbiamo iniziare a fare progetti, a ragionare nel medio-lungo periodo. Due anni fa sono stato ospite dell’esecutivo hongkonghese, il quale dispone di un intero dipartimento che studia la Hong Kong del 2050. Fra trent’anni il sistema portuale europeo sarà segnato dall’innalzamento delle acque al Sud e dal progressivo insabbiamento degli scali nordici. Non è un caso che Amburgo si proietti verso il Nord-Est italiano.

Il nostro governo dovrebbe rimboccarsi le maniche e fare leva anche sul previsto cambiamento climatico nelle trattative con i soci nordeuropei. I quali rischiano di perdere tutto nei prossimi decenni e ne sono consapevoli. Invece i dibattiti nostrani sul tema restano centrati sulla narrazione per cui il grosso delle navi aggirerà comunque Suez per approdare nei porti del Nord Europa. Eppure qui i problemi legati all’abbassamento del livello delle acque (anche fluviali) sono palesi, a partire dai porti di Olanda e Germania.

LIMESÈ più facile negoziare con i tedeschi o con i cinesi? Chi di loro ci conosce meglio? Quanto li conosciamo noi?

D’AGOSTINOAl netto delle differenze interne ai singoli paesi – tra amburghesi e bavaresi, pechinesi o hongkonghesi come tra siciliani e lombardi – i tedeschi sono seri nel lavoro quanto nel divertimento. Sono quadrati, dunque vanno ricambiati con la stessa moneta, ma poi a cena ci si trova bene insieme. Dei cinesi invece serbo due esperienze diametralmente opposte. Cccc è un soggetto tipicamente pechinese, politicamente allineato e di riflesso rigido; non ricordo stimoli particolari allo sviluppo di idee. Le proposte più fantasiose arrivavano da noi, ad esempio quelle relative alle piattaforme in Cina e agli investimenti in Slovacchia. Rispetto a Cccc, China Merchant è molto più business oriented, affidata a manager la cui prima preoccupazione è economica.

Complessivamente, nel quadro dello scontro tra Usa e Cina si poteva presumere l’interesse di Pechino a intestarsi Trieste. Così non è stato. Parimenti, da Napoli la cinese Cosco ha alzato le tende appena i conti non quadravano più, chiamandosi fuori a favore di Msc senza tergiversare. I conti «contano» più di quanto si pensi in queste strategie. Anche per i cinesi, su questo insisto.

LIMESQuanto conta il vostro status di porto franco nelle trattative?

D’AGOSTINOLa sua cogenza emerge in ogni negoziato. Tutti ne chiedono la disponibilità. Gli amburghesi della HHLA negherebbero, ma soltanto perché sanno il fatto loro e a suo tempo ad Amburgo hanno ottenuto da Bruxelles condizioni che compensano gli svantaggi derivanti dal mancato utilizzo dello status di porto franco.

È la storia dello scalo giuliano, considerato in Italia uno fra tanti, sebbene meriterebbe particolare attenzione. Anni fa in un convegno a Vienna affermai provocatoriamente che Trieste non è un porto italiano, poiché al contrario della gran parte degli altri scali del paese gode di nodali connessioni ferroviarie e pescaggi da 18 metri. E non lo è neanche tecnicamente, proprio in qualità di porto franco. Ma la consapevolezza della sua rilevanza sta prendendo piede. L’Italia sta mostrando di capire quanto importante sia attivare fino in fondo il porto franco di Trieste.



lunedì 26 ottobre 2020

TRIESTE CITTÀ LIBERA. ASCESA E DECLINO DI UN’IDEA RIVOLUZIONARIA - Di Piero Purich - Oggi 26 ottobre su Limes On Line nazionale


 L’indipendentismo triestino affonda le radici nell’autonomia garantita dagli Asburgo. Le speranze del primo dopoguerra. Il Tlt e l’ambigua politica degli Alleati. Le mire jugoslave e il tramonto della triestinità. Come Roma ha italianizzato una città indefinibile.

di Piero Purich


1. All’inizio del Settecento, a causa dello spostamento del baricentro commerciale sull’Atlantico, dei rovesci militari contro i turchi, della progressiva perdita di influenza sull’Adriatico orientale e dell’inettitudine della propria classe politica, Venezia si presentava come uno Stato estremamente debole. Ne approfittò il sovrano austriaco Carlo VI per proclamare unilateralmente la libera navigazione nell’Adriatico, considerando un atto di pirateria la richiesta di qualsiasi pedaggio da parte della Serenissima.


L’imperatore rincarò la dose nel 1719 istituendo due porti franchi a Trieste e a Fiume. La possibilità di dedicarsi a traffici esentasse attirò nella piccola cittadina adriatica un gran numero di commercianti, soprattutto greci ed ebrei, ma anche serbi, armeni, tedeschi e pure veneziani che trovarono a Trieste l’impulso imprenditoriale che la Serenissima aveva completamente perso.


A Carlo VI succedette Maria Teresa, che ampliò ulteriormente le esenzioni: nel 1769 Trieste fu dichiarata «Libera città marittima» e le prerogative del porto franco furono estese a tutta la città. Ciò provocò un’espansione economica e demografica senza precedenti. Nel giro di qualche decennio la città quadruplicò la propria popolazione e si ingrandì, con l’interramento delle saline e la creazione del Borgo Teresiano e poi del Borgo Giuseppino. Un’espansione interrotta, solo per pochi anni, dalle occupazioni francesi del periodo napoleonico, quando le imposizioni contributive, daziarie e fiscali di Parigi portarono alla cancellazione del porto franco.


Vienna lo ripristinò alla fine dell’esperienza napoleonica, dando nuovo impulso allo sviluppo di Trieste. Nel 1815 la città aveva già 45 mila abitanti; alla fine del secolo raggiungeva addirittura il numero di 176 mila. Con la restaurazione le furono restituite anche le tradizionali prerogative di autonomia: dopo il congresso di Vienna venne istituita l’entità territoriale-amministrativa del Litorale austro-illirico, mantenuto sostanzialmente inalterato fino alla caduta dell’impero. All’interno del Litorale Trieste godette di ampi margini di autonomia, dato che nel 1849 la città e il suo ristretto territorio, esteso poco più dei suoi attuali confini comunali, furono dichiarati «Città immediata dell’impero», entità non soggetta cioè ad alcuna Dieta provinciale.


Le funzioni della Dieta, la cosiddetta «amministrazione politica di primo grado», furono attribuite direttamente al suo Consiglio comunale, assieme a un’ampia sfera di competenze. Nel 1869 l’apertura del Canale di Suez pose Trieste in una posizione invidiabile di ponte tra l’Oriente e il continente europeo. Le autorità di Vienna potenziarono i collegamenti stradali e ferroviari per mettere in comunicazione il porto adriatico con l’interno della duplice monarchia e con l’intera Europa centrale. Trasformato nel punto nevralgico del commercio austriaco, Trieste divenne in breve tempo il terzo porto del Mediterraneo. Nei primi anni del Novecento la città ebbe uno sviluppo demografico straordinario, arrivando a toccare quota 243 mila abitanti nel 1914, con un incremento di popolazione medio di quasi 5 mila persone all’anno.


2. Lo scoppio della prima guerra mondiale bloccò completamente questo vertiginoso sviluppo.Crollarono i traffici e una parte consistente della popolazione abbandonò Trieste. Anche le caratteristiche di autonomia della città vennero limitate, per accentrarle nelle mani dell’apparato amministrativo e militare. Con l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria il Consiglio comunale venne sciolto. Esso esprimeva infatti una maggioranza liberalnazionale e dunque potenzialmente irredentista filoitaliana – essendo eletto su base censuaria, quest’organo non era tuttavia rappresentativo della reale tendenza politica dell’intera popolazione.


Se mai in precedenza Vienna aveva limitato in maniera così sostanziale l’autonomia amministrativa di Trieste, il mese precedente Roma aveva ventilato per la prima volta l’indipendenza della città adriatica. L’8 aprile del 1915 il ministro degli Esteri italiano Sonnino presentò una serie di richieste all’Austria in cambio del mantenimento della neutralità italiana nel conflitto. Tra gli undici punti figuravano: la cessione del Trentino all’Italia, lo spostamento del confine all’Isonzo, la costituzione di uno Stato triestino autonomo e indipendente, sul quale l’Austria-Ungheria avrebbe dovuto rinunciare a qualsiasi forma di sovranità, e la cessione dell’arcipelago di Curzola e di Lissa 1.


Grosso modo, lo «Stato triestino» avrebbe compreso i territori che attualmente formano la provincia di Trieste e la zona costiera della Slovenia, ovvero la costa nordoccidentale dell’Istria (incluse le cittadine di Capodistria e Pirano) fino al fiume Dragogna. Erano chiaramente condizioni inaccettabili per Vienna, che avrebbe dovuto rinunciare al suo porto più importante e a una buona parte dei propri territori occidentali. La cessione del Trentino e del Friuli austriaco fino all’Isonzo avrebbe inoltre posto l’Austria in un’evidente posizione di inferiorità strategica. Il 9 maggio, comunque, Vienna replicò presentando a Roma un documento che prevedeva, in cambio della neutralità italiana, una serie di cessioni territoriali, tra cui tutta la riva occidentale dell’Isonzo e l’autonomia di Trieste nell’ambito della duplice monarchia. Gli italiani respinsero la proposta.


Il progetto di una forte autonomia per Trieste in seno all’impero riprese vigore nel 1918, alla vigila del collasso ormai inevitabile dell’Austria-Ungheria. In una delle ultime sedute del parlamento asburgico, il leader dei socialisti triestini Valentino Pittoni avanzò la proposta formale di una «città completamente indipendente sotto il patronato della Lega delle Nazioni», comprendente i territori del Friuli e dell’Istria 2. Una larga autonomia per Trieste venne prospettata addirittura dall’imperatore Carlo nell’ambito della ristrutturazione dell’impero in senso federalista, tentativo in extremis di salvarne l’integrità territoriale. L’idea di un’Austria-Ungheria federale godeva anche del favore di Lenin e del nuovo governo sovietico, che il 3 novembre lanciò un appello, invitando i popoli della monarchia «all’unione fraterna» 3.


Alla caduta dell’impero, una parte dei socialisti triestini iniziò ad auspicare la nascita di una «Libera Repubblica Triestina», una città indipendente sotto il patronato della Lega delle Nazioni. Massimi fautori dell’istituzione della città indipendente furono due esponenti storici del socialismo triestino, Valentino Pittoni e Ivan Regent. Nel loro progetto, lo Stato triestino avrebbe dovuto includere grossomodo l’intero Litorale e fungere da cuscinetto tra Italia, Austria e Jugoslavia, contemperando i futuri e inevitabili attriti tra i tre paesi. Dopo aver inizialmente caldeggiato l’unione alla Jugoslavia, anche la corrente socialista slovena guidata da Rudolf Golouh, palesatasi l’irrealizzabilità dell’opzione jugoslava, abbracciò la prospettiva indipendentista. Alle rivendicazioni di indipendenza si opponevano i «socialisti nazionali» capeggiati dal socialista irredentista Edmondo Puecher, che auspicavano invece l’aggregazione di Trieste all’Italia.


Nella turbolenta situazione degli ultimi giorni di guerra i socialisti organizzarono cortei e manifestazioni pro-indipendenza, contrapposti a quelli allestiti dai filoitaliani. Il 30 ottobre manifestanti inneggianti a Trieste città libera, all’Internazionale e al socialismo si riversarono nelle strade; sul municipio, accanto al tricolore, venne issata la bandiera rossa. Tuttavia, il progetto indipendentista si rivelò presto un’utopia irrealizzabile. Il porto adriatico, prima e nel corso del conflitto, aveva acquisito un valore simbolico e strategico irrinunciabile per l’Italia, che riteneva una vittoria priva di Trieste assolutamente impensabile. Agli occhi di Roma, la città giuliana era divenuta insieme l’inevitabile coronamento del Risorgimento e la testa di ponte per la futura espansione verso i Balcani, e più a est. La direttrice d’avanzamento che le truppe italiane seguirono subito dopo la rotta austriaca di Vittorio Veneto puntava chiaramente a raggiungere quanto prima il capoluogo del Litorale.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Negli stessi giorni in cui si consumava la fine dell’impero, l’impossibilità della prospettiva indipendentista si concretizzò nelle decisioni varate dall’autonominatosi Comitato di salute pubblica. Questo organismo cittadino era composto dai rappresentanti dell’irredentismo filoitaliano, da quelli socialisti e da quelli sloveni – la minoranza tedesca (circa 12 mila persone) ne era stata esclusa. Il Comitato si era costituito il 30 ottobre con il programma di «effettuare il distacco di Trieste e delle altre terre italiane della regione dal nesso dello Stato austriaco, assumendo nelle nostre mani tutti i poteri civili e militari e tutte le istituzioni della città» 4.


La città fronteggiava allora emergenze gravissime: interruzione della fornitura di derrate alimentari,arrivo in città degli sbandati austriaci dal fronte e dei primi prigionieri italiani rilasciati o fuggiti dai campi di raccolta in Austria, disordini di piazza contro i simboli e le istituzioni asburgiche, banditismo e saccheggi nei depositi di viveri, focolai di epidemie. Già il 31 ottobre, quindi, il Comitato decise di inviare tre delegati – Antonio Samaja per il fascio nazionale, Alfredo Callini per i socialisti e Josip Ferfolja come rappresentante degli sloveni – presso il comando della Flotta italiana a Venezia per richiedere l’invio di una squadra navale dell’Intesa.


Gli emissari avrebbero fornito le mappe dei campi minati nel Golfo di Trieste per permettere alle navi di raggiungere agevolmente la città. Con questa missione dei delegati del Comitato, si azzerava la possibilità di realizzazione dei progetti indipendentistici. Arrivati a Venezia, infatti, con una sorta di Putsch interno alla missione, il rappresentante liberalnazionale Samaja sollecitò l’ammiraglio del Comando flotta a inviare truppe che occupassero la città in nome dell’Italia. Il 3 novembre il generale Carlo Petitti di Roreto, già nominato governatore, sbarcò dalla motonave Audace insieme ai primi soldati italiani, dichiarando subito: «In nome di Sua Maestà il Re d’Italia prendo possesso della città di Trieste». L’occupazione della città venne poi formalizzata con l’assunzione delle funzioni di governatore e con il successivo decreto che sanciva l’attribuzione a questa carica dei poteri politici e amministrativi nella Venezia Giulia occupata dal Regio esercito, lo scioglimento del Comitato di salute pubblica, la reintegrazione nelle proprie funzioni della rappresentanza comunale sciolta nel 1915.


Già i primi atti dell’amministrazione italiana frustravano quindi i fautori della città libera, che sostenevano una soluzione della questione sull’appartenenza territoriale di Trieste sulla base delle decisioni della conferenza di pace o di un plebiscito organizzato secondo i princìpi enunciati dal presidente americano Woodrow Wilson. Anche a causa della condotta autoritaria dei nuovi organi di governo locale italiani, l’anno seguente i socialisti indipendentisti radicalizzarono le proprie posizioni. Ivan Regent e Giuseppe Tuntar auspicarono la creazione di una repubblica sovietica italo-slava nella Venezia Giulia, mentre Valentino Pittoni, ormai autoesiliatosi a Vienna, propose la strutturazione di Trieste come uno Stato separato nella neonata Repubblica austriaca che mantenesse il sistema giuridico, sociale ed educativo austriaco.


3. Se fino alla seconda guerra mondiale qualsiasi accenno a un’indipendenza triestina venne soffocato, l’idea di staccare Trieste e la Venezia Giulia dal nesso con l’Italia riguadagnò vigore durante il conflitto. Il comunista Pinko Tomažič teorizzò la liberazione della Venezia Giulia e la sua associazione con una repubblica sovietica slovena 5. Anche se, in seguito all’invasione della Jugoslavia da parte dell’Asse (e alla fucilazione di Tomažič), quest’idea venne abbandonata, il movimento partigiano di orientamento comunista – l’unico in grado di compiere azioni efficaci contro i nazifascisti nell’area – continuava ad auspicare il distacco di questo territorio dall’Italia e la sua annessione alla Jugoslavia.


Carta di Laura Canali

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La maggioranza del movimento partigiano era composto da sloveni che sognavano l’unione alla madrepatria, ma la motivazione principale alla base della popolarità di questa opzione era di tipo ideologico. I comunisti vedevano nella futura Jugoslavia di Tito un paese dove si sarebbe edificato il socialismo, mentre l’Italia, nel corso del conflitto, andava sempre più profilandosi come una zona d’influenza occidentale. Per questo l’unione di Trieste e della Venezia Giulia alla Jugoslavia era caldeggiata anche dalla maggioranza dei comunisti italiani. Le autorità jugoslave, proprio per avere il massimo appoggio da parte della classe lavoratrice italiana triestina, iniziarono a parlare della città come della «settima repubblica jugoslava»: a Trieste sarebbe stato garantito lo status di entità federata e alla popolazione italiana i diritti di minoranza nazionale 6.


Al distacco di Trieste dall’Italia puntavano anche i tedeschi, che nel settembre del 1943 annessero l’intera Venezia Giulia denominandola Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico). La propaganda nazista sottolineò il legame del territorio con la Mitteleuropa e il suo passato austriaco, dando il via a una serie di iniziative tese a rilanciare il legame con la Germania (trasmissioni radio, giornali, iniziative di circoli culturali). In questo modo i tedeschi si accattivarono le simpatie di una parte della borghesia cittadina, legata già prima della Grande guerra al mondo austro-tedesco e profondamente delusa dalla politica economica dell’Italia verso la città, che aveva perso il dinamismo dell’epoca asburgica.


La complessa situazione etnico-politica del territorio spinse alcune forze politiche e alcuni intellettuali a teorizzare soluzioni innovative. Nel 1943 il Partito d’azione (Pd’A) propose l’autonomia regionale per il territorio, nel quadro di un’Europa federale – un’anticipazione, mutatis mutandis, dei più recenti progetti di Euroregione. L’anno successivo Emanuele Flora, avvocato e membro egli stesso del Pd’A, prospettò la trasformazione di Trieste, del suo hinterland e di altre «comunità etniche italiane» in enclave italiane in Jugoslavia collegate al Belpaese da un sistema stradale sotto il controllo delle nasciture Nazioni Unite, in modo da «creare un’atmosfera di collaborazione tra Italia e Jugoslavia». Flora fu espulso dal Pd’A l’anno seguente, quando la situazione politica favorì l’ascesa dell’ala destra del partito. Il suo progetto fu considerato «slavofilo» e «filocomunista»7.


Nel 1945 Gaetano Salvemini sostenne che i princìpi wilsoniani non potevano essere applicati in un territorio così etnicamente variegato: a Trieste e in Istria «italiani e slavi sono indissolubilmente confusi». Secondo Salvemini, alla Venezia Giulia andava garantita una larga autonomia dentro lo Stato italiano: le comunità rurali slave e le municipalità italiane avrebbero dovuto conseguire il massimo grado di autonomia; il confine tra Italia e Jugoslavia avrebbe dovuto essere amministrativo e non economico o politico, permettendo la massima libertà di movimento ai suoi abitanti 8. Analogamente, anche lo statistico triestino Pierpaolo Luzzatto Fegiz affermò che a Trieste andava abbandonata l’idea di confine: «Un confine non dovrebbe essere più considerato un muro invalicabile, fissato definitivamente per il tempo a venire» 9.


4. Le questioni teoriche furono superate dai fatti. Il trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947sancì la nascita del Territorio libero di Trieste (Tlt). La creazione del Tlt non fu però il provvedimento considerato più valido per risolvere la conflittualità di confine italo-jugoslava, quanto piuttosto la soluzione più pratica all’incapacità di trovare un accordo tra occidentali, Unione Sovietica e Jugoslavia. In base al trattato il Tlt sarebbe stato smilitarizzato e neutrale, la sua integrità e indipendenza sarebbero state garantite dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, avrebbe avuto come lingue ufficiali l’italiano e lo sloveno (con la possibilità di includere in futuro anche il croato), avrebbe dovuto avere moneta propria, una costituzione e un parlamento. La massima autorità di governo sarebbe stato il governatore nominato dal Consiglio di Sicurezza, che non avrebbe potuto essere cittadino italiano, jugoslavo o del Territorio libero. In realtà, occidentali e sovietici non trovarono mai un accordo sulla nomina del governatore, impedendo il reale funzionamento del Territorio libero.


Il Tlt fu provvisoriamente diviso in due zone: la Zona A amministrata dagli angloamericani,corrispondente grosso modo all’attuale provincia di Trieste, e la Zona B a sud fino al fiume Quieto, controllata dagli jugoslavi. Nella Zona A, ancor prima della firma del trattato, l’indeterminatezza della situazione triestina aveva fatto rinascere aspirazioni indipendentiste. Nel luglio del 1945 il comitato promotore di un «Fronte separatista per lo Stato adriatico» aveva pubblicato una dichiarazione a favore dell’indipendenza triestina. In agosto era stato costituito da Mario Giampiccoli e Teodoro Sporer il Fronte dell’indipendenza. E più tardi l’avvocato Mario Stocca fondò un altro movimento indipendentista: il Blocco triestino. Gli indipendentisti riconoscevano nel melting pot triestino la caratterizzazione di un’identità cittadina molto più forte delle appartenenze nazionali, creata proprio dal fondersi di mondo latino, slavo e tedesco.


Nel biennio 1947-48 anche nel mondo sloveno non comunista della Zona A nacquero nuovi partiti:l’Unione democratica slovena (Slovenska demokratska zveza, Sdz) e l’Unione cristiano-sociale slovena (Slovenska krščanko-socialna zveza, Sksz) seguiti nel periodo 1949-50 da un altro piccolo movimento, composto perlopiù da intellettuali: il Gruppo degli sloveni autonomi (Skupina neodvisnih slovencev, Sns). Poiché tutte e tre queste formazioni avevano nel proprio programma la realizzazione effettiva del Tlt, nel 1950 diedero vita all’Akcijski odbor za obrambo Sto-ja (Comitato d’azione per la difesa del Tlt).


Il Partito comunista della Regione Giulia, al momento della sua fondazione (agosto del 1945) era favorevole all’unione di Trieste alla Jugoslavia. Dopo la firma del trattato di pace, tuttavia, modificò la propria politica (e pure il nome, diventato Partito comunista del Tlt, Pctlt), sostenendo la creazione di un’assemblea costituente democratica triestina che elaborasse una costituzione del Tlt, rendendolo una reale entità statale autonoma e indipendente. L’arrivo a Trieste di Vittorio Vidali e, poco dopo, la rottura tra Stalin e Tito portarono all’espulsione dei titoisti dal Pctlt. I comunisti fedeli a Belgrado si presentarono alle successive elezioni come Fronte popolare italo-sloveno. Entrambi i partiti mantennero comunque un orientamento favorevole al Tlt.


In pratica, a Trieste tutti i partiti che non si riconoscevano nel cosiddetto «blocco italiano» (Dc, Pli, Pri, Msi, Psvg – Partito socialista della Venezia Giulia – e monarchici) erano favorevoli all’indipendenza della città. Tuttavia, i fortissimi contrasti di tipo ideologico e nazionale tra questi vari movimenti non permisero di trovare un accordo e una linea comune da contrapporre al «blocco italiano».


Una parte delle autorità del Governo militare alleato (Gma) operanti in ambito locale cercò davverodi costituire un Territorio libero funzionante, che fosse in grado di scardinare il forte dualismo politico Italia-Jugoslavia del territorio, come pure il dualismo etnico italiani-sloveni. Il colonnello Alfred Bowman, una delle più alte cariche presenti a Trieste, sosteneva che il Tlt non avrebbe dovuto essere considerato «né uno Stato, né una nazione». Sebbene Bowman sperasse che il Territorio libero producesse un’innovazione nel concetto di identità e appartenenza etnico-nazionale, diluendone così il potenziale di conflitto, guardava a questa prospettiva con molto scetticismo. «Ci vorranno due generazioni [ai cittadini del Tlt] per considerarsi come membri di uno Stato sovrano piuttosto che sloveni o italiani» 10, affermava.


Carta di Laura Canali

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Anche alcune realtà economiche vedevano positivamente una Trieste indipendente il cui porto franco, previsto dal trattato di pace, avrebbe facilitato i commerci e i traffici. La prospettiva del Territorio libero raccoglieva, inoltre, il favore dei cittadini non orientati in senso nazionale, che vi scorgevano la possibilità di un futuro individuale economicamente florido, simile a quello dei cittadini di città come Hong Kong e Singapore.


Tuttavia, le autorità alleate del Tlt, in primis il comandante del Governo militare alleato (Gma)generale Airey, agirono con forte ambiguità nei confronti del territorio che erano chiamate ad amministrare. Anziché lavorare nel senso di un’effettiva realizzazione del Tlt, gli angloamericani permisero all’Iri di mantenere la proprietà di tutte le più grandi realtà industriali della città. Il governo italiano aveva il controllo della quasi totalità delle industrie triestine e conseguentemente dei posti di lavoro che queste garantivano. Inoltre, l’Iri amministrava direttamente le filiali triestine della Banca commerciale italiana, del Banco di Roma e del Credito italiano, detenendo così il monopolio del credito verso l’industria e il commercio. Anche la gestione e il coordinamento degli aiuti Erp (Piano Marshall) per Trieste non venivano stabiliti dalle autorità alleate della città, bensì da una commissione mista situata a Roma. Tutto ciò faceva già rientrare de facto la Zona A del Tlt nel sistema economico italiano.


A livello amministrativo, alcune delle cariche interne del Gma furono assegnate a personale italianodi chiaro orientamento filogovernativo, sbilanciando così il funzionamento stesso dell’amministrazione alleata a favore della componente «pro-Italia». Venne creata la carica di presidente di Zona, affidata al democristiano Gino Palutan che, grazie alla propria posizione, permise l’insediamento a Trieste di circa 30 mila profughi istriani (tendenzialmente elettori della Dc), sbilanciando anche gli equilibri elettorali della città a favore dell’Italia. Con il tempo il Gma ridusse gradualmente le proprie attribuzioni delegandole sempre di più alle autorità locali, in primis al Comune di Trieste, saldamente nelle mani del sindaco Bartoli e della corrente degasperiana della Dc). Si limitò a funzioni simili a quello di un governo centrale, lasciando agli enti locali la gestione pratica dell’amministrazione ordinaria.


Questa situazione provocò le proteste della Jugoslavia (e dei partiti indipendentisti), inducendo Londra e Washington a sostituire Airey con il più neutrale Winterton. La nomina di Winterton cristallizzò la situazione, impendendo ad altri profughi istriani di fermarsi in città, ma ormai il quadro, a livello amministrativo ed elettorale, era stato fortemente modificato a favore dell’Italia.


Ciononostante, il consenso elettorale verso l’opzione indipendentista crebbe di anno in anno: nelle elezioni amministrative del 1949 la percentuale di voti raccolti dai partiti favorevoli al Tlt fu di poco inferiore al 35%. Nel 1952, dopo la rottura Tito-Stalin, che rese più lontana la prospettiva di un Tlt subordinato a Belgrado (o addirittura annesso dalla Jugoslavia), un numero sempre maggiore di triestini si sganciò dall’idea dell’unione all’Italia, trovando ben più appetibile la creazione di una città indipendente. Nelle elezioni amministrative di quell’anno la percentuale di elettori favorevoli al Tlt crebbe al 37,7%. In ambito internazionale, accodandosi alla diplomazia italiana – che auspicava un plebiscito per risolvere la questione di Trieste ponendo ai cittadini del Tlt la scelta tra Italia e Jugoslavia – gli indipendentisti proposero a loro volta l’organizzazione di una consultazione popolare, in cui sarebbero state però previste tre opzioni: Italia, Jugoslavia o Tlt. Quando la proposta del referendum con tre opzioni venne fatta propria dalla Jugoslavia, il governo italiano smise di sostenerla.


5. Il 5 ottobre del 1954 le diplomazie inglese, americana, jugoslava e italiana, dopo una serie di complesse trattative, trovarono un accordo che risolveva definitivamente la questione di Trieste: con il Memorandum di Londra la Zona A passava all’Italia e la Zona B alla Jugoslavia. Una modifica del confine tra le due zone assegnava alla Jugoslavia anche un settore del Muggesano che era appartenuto alla Zona A. Il 26 ottobre Trieste fu definitivamente ricongiunta all’Italia.


Gli indipendentisti protestarono fortemente contro la spartizione del Tlt, considerata un accordoche passava sopra le teste degli autoctoni e violava il trattato di pace. Anche i partiti autonomi sloveni stigmatizzarono la fine del Territorio libero, affermando che, mentre nel Tlt gli sloveni sarebbero stati una delle componenti fondanti dello Stato, in Italia finivano con l’essere una piccola minoranza in una popolazione di decine di milioni di italiani. Il Pctlt protestò contro la mancata organizzazione della consultazione referendaria, ma preso atto della nuova situazione espresse lealtà verso la nuova amministrazione italiana e confluì in tempi rapidissimi nel Pci.


Il Memorandum di Londra cancellò le prospettive di realizzabilità del Tlt, anche perché, partito il Gma, le nuove autorità italiane ricominciarono a insediare a Trieste decine di migliaia di profughi istriani. Il ministero dell’Interno italiano sottolineò spesso come più di un terzo della popolazione di Trieste continuasse a essere ostile a Roma 11. L’insediamento degli istriani, in gran parte orientati politicamente verso i partiti di governo e con un sentimento di italianità ben più solido di quello triestino, significava la modifica del tessuto politico ed etnico della città in senso favorevole all’Italia. Nel 1971, su una popolazione comunale di 271.879 abitanti, si contavano più di 70 mila persona nate nei territori ceduti alla Jugoslavia diciassette anni prima.


Il ritorno dell’Italia a Trieste portò a un irrimediabile ridimensionamento dell’idea di una Triesteindipendente, attivamente propiziato dai continui atti di ritorsione nei confronti degli indipendentisti intrapresi dalle autorità italiane. Già il 2 maggio 1952 in una seduta del parlamento italiano si era sostenuto che, una volta avvenuta la riannessione della città adriatica all’Italia, tutti i dipendenti civili del Gma sarebbero stati assunti nella futura amministrazione italiana, «eccetto le persone impegnate contro l’annessione del Tlt all’Italia» 12. Una dichiarazione di questo genere, insieme al ricordo non lontano degli assalti e delle devastazioni compiuti contro la sede del Fronte dell’indipendenza durante le manifestazioni del biennio 1952-53, non lasciava presagire nulla di buono per coloro che avevano lottato per l’indipendenza della città.


Dopo l’ottobre 1954 a diversi militanti indipendentisti fu bloccato il rilascio del passaporto o ne fu limitata la validità. In altri casi fu congelato o rallentato l’iter per il conseguimento di documenti necessari per l’assunzione o per la continuazione del lavoro, causando talvolta la perdita del posto o il licenziamento 13. Addirittura, quando un dirigente indipendentista venne aggredito e malmenato a sangue da militanti di destra per aver parlato dell’Italia come Stato occupante, essendosi difeso e in seguito citato in causa dai suoi aggressori fu condannato a due anni di reclusione per vilipendio e lesioni volontarie.


I movimenti indipendentisti vennero penalizzati anche alle elezioni amministrative del 1956. Il commissario generale per il territorio di Trieste Giovanni Palamara, la più alta carica della nuova amministrazione italiana, escluse dall’agone elettorale l’Unione triestina – il movimento unitario degli indipendentisti formatosi nel gennaio dell’anno precedente – adducendo come pretesto un errore nella compilazione dei documenti richiesti per la candidatura. I militanti indipendentisti sostennero che l’esclusione dalla tornata elettorale violava i princìpi fondamentali della democrazia, e che dietro alla decisione della commissione elettorale si nascondesse il preciso intento di punire un soggetto politico che alle precedenti elezioni aveva ottenuto 27 mila consensi.


La strategia di Palamara si dimostrò efficace: nelle elezioni successive del 1958, i due partiti indipendentisti (nuovamente separati) persero molti suffragi. Tale calo può essere attribuito anche al forte movimento emigratorio che si sviluppò a Trieste nel biennio 1954-55. A partire da quegli anni, con strascichi fino al 1960, circa 25 mila triestini lasciarono la città per emigrare in Australia, un numero non molto distante dai 17 mila voti persi dai partiti indipendentisti tra 1952 e 1958. Anche se nella storiografia triestina «ufficiale» e «accademica» si parlò (e si parla ancora) di un’emigrazione dovuta principalmente a questioni economiche, il fatto che oltre metà degli emigranti avesse un’occupazione a Trieste contraddice questa versione. È incontestabile che ci fu una vasta fetta della popolazione che non gradì la soluzione italiana della «questione di Trieste». Le stesse autorità italiane spinsero quanti più triestini possibile a emigrare all’estero. Per volontà del commissario Palamara, tutti gli ex lavoratori del Gma che avessero deciso di emigrare in Australia avrebbero beneficiato di incentivi economici particolarmente vantaggiosi.


Diversi episodi avvenuti durante le partenze delle navi per l’Australia suggeriscono che non tutti i triestini apprezzavano il ritorno dell’Italia, confermando come l’emigrazione avesse anche motivazioni politiche. Su una delle navi in partenza per l’Australia venne esposto uno striscione dove, parafrasando il testo del discorso del sindaco Bartoli in occasione del ritorno dell’Italia («È la madre che ritorna per farci vivere liberi»), si leggeva l’affermazione sarcastica: «La madre è tornata, i figli partono» 14.


Quando i due partiti indipendentisti si fusero nuovamente nel 1966, sotto la guida di Giovanni Marchesich, dando vita al Movimento indipendentista triestino, il peso politico dell’indipendentismo era ormai scarso. Sporadicamente, continuarono a verificarsi episodi di fastidio verso l’Italia 15, ma la sempre maggior integrazione degli istriani nel tessuto cittadino, il numero crescente di immigrati dal resto dell’Italia e l’inserimento a tutti gli effetti di Trieste nell’apparato statale italiano portarono a una definitiva metamorfosi della struttura etnica e politica della città. Trieste, che era stata uno dei centri più laici, socialisti e operai dell’impero austro-ungarico, divenne una città cattolica e democristiana.


L’industria e l’imprenditorialità della città furono quasi completamente azzerate e si assistette alla creazione di un’economia assistita che legò sempre di più la città a Roma, facendo dipendere i finanziamenti dalle amicizie e dalle reti clientelari politiche che si potevano vantare nella capitale. La dirigenza politica democristiana e istriana di Trieste, che aveva fatto dell’italianità uno dei perni della propria politica, riprese quella retorica ufficiale, già cara al fascismo, della «città italianissima». La vocazione triestina all’autonomia, da sempre forte e con spinte centrifughe, venne imbrigliata in un nesso fortissimo con l’Italia, tanto che, dopo il trattato di Osimo (1975), la neonata Lista per Trieste, pur ponendo l’autonomia come punto fondamentale del proprio programma, sottolineò con decisione la propria imprescindibile italianità 16.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Note:

1. T.N. Page, Italy and the World War, New York 1920, Charles Scherner’s Sons, pp. 204-205.

2. G. Sluga, The Problem of Trieste and the Italo-Yugoslav Border, Albany 2001, State University of New York, p. 41; Trieste ottobre-novembre 1918, Comitato Trieste ’68, Milano, 1968, All’insegna del pesce d’oro, vol. 1, p. 84.

3. Sulle proposte di federalizzazione dell’Austria: F. FejtőRequiem per un impero defunto, Milano 1990, Mondadori. L’appello di Lenin è a p. 308.

4. Trieste ottobre-novembre 1918, vol. 1, cit., p. 150.

5. M. Kacin-Wohinz, Pinko Tomažič, Slovenski biografski leksikon, Ljubljana 2013, ZRC, SAZU.

6. B. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano 1996, Mursia, p. 148; D. de Castro, La questione di Trieste, Trieste 1981, Lint, vol. 1, p. 213.

7. G. Sluga, «Inventing ethnic spaces: “Free Territory”, Sovereigny and the 1947 Peace Treaty», in Prispevki z mednarodne konference “Pariška mirovna pogodba. Nova Jugoslovansko-italijanska meja in prikjučitev Primorske k Sloveniji” (Contributi dalla Conferenza internazionale “Il Trattato di pace di Parigi. Il nuovo confine italo-jugoslavo e l’annessione della Primorska alla Slovenia”), Koper-Nova Gorica, 25-27/9/1997, Acta Histriae, VI, Zgodovinsko društvo za južno Primorsko, Znanstveno-raziskovalno središčeRepublike Slovenije, Koper 1998, p. 175.

8. G. Sluga, op. cit., pp. 136-137.

9. Ivi, p. 138.

10. Ivi, pp. 143-144.

11. P. Purini, «L’emigrazione da Trieste nel dopoguerra», Annales, 10, 1997, p. 257.

12. B. Novak, op. cit., p. 374

13. J. Dekleva, Enoletni obračun, Trst 1956, Jadranski Koledar, p. 34.

14. C. Tonel, Rapporto con Trieste, Trieste 1987, Dedolibri, p. 73.

15. La sezione triestina del Partito comunista, ad esempio, dovette stampare per alcuni anni due tessere diverse, perché un certo numero di militanti non gradiva quella con il tricolore.

16. P. Purini, «Mutamenti etno-demografici a Trieste nel periodo 1943-1954», in J. Pirjevec, G. Bajc, B. Klabjan (a cura di), Vojna in mir na Primorskem, Univerza na Primorskem, Zgodovinsko društvo za južno Primorsko, Znanstveno-raziskovalno središče Koper, Koper 2005, pp. 267-268.

Pubblicato in: IL MURO PORTANTE - n°10 - 2019