1. All’inizio del Settecento, a causa dello spostamento del baricentro commerciale sull’Atlantico, dei rovesci militari contro i turchi, della progressiva perdita di influenza sull’Adriatico orientale e dell’inettitudine della propria classe politica, Venezia si presentava come uno Stato estremamente debole. Ne approfittò il sovrano austriaco Carlo VI per proclamare unilateralmente la libera navigazione nell’Adriatico, considerando un atto di pirateria la richiesta di qualsiasi pedaggio da parte della Serenissima.
L’imperatore rincarò la dose nel 1719 istituendo due porti franchi a Trieste e a Fiume. La possibilità di dedicarsi a traffici esentasse attirò nella piccola cittadina adriatica un gran numero di commercianti, soprattutto greci ed ebrei, ma anche serbi, armeni, tedeschi e pure veneziani che trovarono a Trieste l’impulso imprenditoriale che la Serenissima aveva completamente perso.
A Carlo VI succedette Maria Teresa, che ampliò ulteriormente le esenzioni: nel 1769 Trieste fu dichiarata «Libera città marittima» e le prerogative del porto franco furono estese a tutta la città. Ciò provocò un’espansione economica e demografica senza precedenti. Nel giro di qualche decennio la città quadruplicò la propria popolazione e si ingrandì, con l’interramento delle saline e la creazione del Borgo Teresiano e poi del Borgo Giuseppino. Un’espansione interrotta, solo per pochi anni, dalle occupazioni francesi del periodo napoleonico, quando le imposizioni contributive, daziarie e fiscali di Parigi portarono alla cancellazione del porto franco.
Vienna lo ripristinò alla fine dell’esperienza napoleonica, dando nuovo impulso allo sviluppo di Trieste. Nel 1815 la città aveva già 45 mila abitanti; alla fine del secolo raggiungeva addirittura il numero di 176 mila. Con la restaurazione le furono restituite anche le tradizionali prerogative di autonomia: dopo il congresso di Vienna venne istituita l’entità territoriale-amministrativa del Litorale austro-illirico, mantenuto sostanzialmente inalterato fino alla caduta dell’impero. All’interno del Litorale Trieste godette di ampi margini di autonomia, dato che nel 1849 la città e il suo ristretto territorio, esteso poco più dei suoi attuali confini comunali, furono dichiarati «Città immediata dell’impero», entità non soggetta cioè ad alcuna Dieta provinciale.
Le funzioni della Dieta, la cosiddetta «amministrazione politica di primo grado», furono attribuite direttamente al suo Consiglio comunale, assieme a un’ampia sfera di competenze. Nel 1869 l’apertura del Canale di Suez pose Trieste in una posizione invidiabile di ponte tra l’Oriente e il continente europeo. Le autorità di Vienna potenziarono i collegamenti stradali e ferroviari per mettere in comunicazione il porto adriatico con l’interno della duplice monarchia e con l’intera Europa centrale. Trasformato nel punto nevralgico del commercio austriaco, Trieste divenne in breve tempo il terzo porto del Mediterraneo. Nei primi anni del Novecento la città ebbe uno sviluppo demografico straordinario, arrivando a toccare quota 243 mila abitanti nel 1914, con un incremento di popolazione medio di quasi 5 mila persone all’anno.
2. Lo scoppio della prima guerra mondiale bloccò completamente questo vertiginoso sviluppo.Crollarono i traffici e una parte consistente della popolazione abbandonò Trieste. Anche le caratteristiche di autonomia della città vennero limitate, per accentrarle nelle mani dell’apparato amministrativo e militare. Con l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria il Consiglio comunale venne sciolto. Esso esprimeva infatti una maggioranza liberalnazionale e dunque potenzialmente irredentista filoitaliana – essendo eletto su base censuaria, quest’organo non era tuttavia rappresentativo della reale tendenza politica dell’intera popolazione.
Se mai in precedenza Vienna aveva limitato in maniera così sostanziale l’autonomia amministrativa di Trieste, il mese precedente Roma aveva ventilato per la prima volta l’indipendenza della città adriatica. L’8 aprile del 1915 il ministro degli Esteri italiano Sonnino presentò una serie di richieste all’Austria in cambio del mantenimento della neutralità italiana nel conflitto. Tra gli undici punti figuravano: la cessione del Trentino all’Italia, lo spostamento del confine all’Isonzo, la costituzione di uno Stato triestino autonomo e indipendente, sul quale l’Austria-Ungheria avrebbe dovuto rinunciare a qualsiasi forma di sovranità, e la cessione dell’arcipelago di Curzola e di Lissa 1.
Grosso modo, lo «Stato triestino» avrebbe compreso i territori che attualmente formano la provincia di Trieste e la zona costiera della Slovenia, ovvero la costa nordoccidentale dell’Istria (incluse le cittadine di Capodistria e Pirano) fino al fiume Dragogna. Erano chiaramente condizioni inaccettabili per Vienna, che avrebbe dovuto rinunciare al suo porto più importante e a una buona parte dei propri territori occidentali. La cessione del Trentino e del Friuli austriaco fino all’Isonzo avrebbe inoltre posto l’Austria in un’evidente posizione di inferiorità strategica. Il 9 maggio, comunque, Vienna replicò presentando a Roma un documento che prevedeva, in cambio della neutralità italiana, una serie di cessioni territoriali, tra cui tutta la riva occidentale dell’Isonzo e l’autonomia di Trieste nell’ambito della duplice monarchia. Gli italiani respinsero la proposta.
Il progetto di una forte autonomia per Trieste in seno all’impero riprese vigore nel 1918, alla vigila del collasso ormai inevitabile dell’Austria-Ungheria. In una delle ultime sedute del parlamento asburgico, il leader dei socialisti triestini Valentino Pittoni avanzò la proposta formale di una «città completamente indipendente sotto il patronato della Lega delle Nazioni», comprendente i territori del Friuli e dell’Istria 2. Una larga autonomia per Trieste venne prospettata addirittura dall’imperatore Carlo nell’ambito della ristrutturazione dell’impero in senso federalista, tentativo in extremis di salvarne l’integrità territoriale. L’idea di un’Austria-Ungheria federale godeva anche del favore di Lenin e del nuovo governo sovietico, che il 3 novembre lanciò un appello, invitando i popoli della monarchia «all’unione fraterna» 3.
Alla caduta dell’impero, una parte dei socialisti triestini iniziò ad auspicare la nascita di una «Libera Repubblica Triestina», una città indipendente sotto il patronato della Lega delle Nazioni. Massimi fautori dell’istituzione della città indipendente furono due esponenti storici del socialismo triestino, Valentino Pittoni e Ivan Regent. Nel loro progetto, lo Stato triestino avrebbe dovuto includere grossomodo l’intero Litorale e fungere da cuscinetto tra Italia, Austria e Jugoslavia, contemperando i futuri e inevitabili attriti tra i tre paesi. Dopo aver inizialmente caldeggiato l’unione alla Jugoslavia, anche la corrente socialista slovena guidata da Rudolf Golouh, palesatasi l’irrealizzabilità dell’opzione jugoslava, abbracciò la prospettiva indipendentista. Alle rivendicazioni di indipendenza si opponevano i «socialisti nazionali» capeggiati dal socialista irredentista Edmondo Puecher, che auspicavano invece l’aggregazione di Trieste all’Italia.
Nella turbolenta situazione degli ultimi giorni di guerra i socialisti organizzarono cortei e manifestazioni pro-indipendenza, contrapposti a quelli allestiti dai filoitaliani. Il 30 ottobre manifestanti inneggianti a Trieste città libera, all’Internazionale e al socialismo si riversarono nelle strade; sul municipio, accanto al tricolore, venne issata la bandiera rossa. Tuttavia, il progetto indipendentista si rivelò presto un’utopia irrealizzabile. Il porto adriatico, prima e nel corso del conflitto, aveva acquisito un valore simbolico e strategico irrinunciabile per l’Italia, che riteneva una vittoria priva di Trieste assolutamente impensabile. Agli occhi di Roma, la città giuliana era divenuta insieme l’inevitabile coronamento del Risorgimento e la testa di ponte per la futura espansione verso i Balcani, e più a est. La direttrice d’avanzamento che le truppe italiane seguirono subito dopo la rotta austriaca di Vittorio Veneto puntava chiaramente a raggiungere quanto prima il capoluogo del Litorale.
Carta di Laura Canali
Negli stessi giorni in cui si consumava la fine dell’impero, l’impossibilità della prospettiva indipendentista si concretizzò nelle decisioni varate dall’autonominatosi Comitato di salute pubblica. Questo organismo cittadino era composto dai rappresentanti dell’irredentismo filoitaliano, da quelli socialisti e da quelli sloveni – la minoranza tedesca (circa 12 mila persone) ne era stata esclusa. Il Comitato si era costituito il 30 ottobre con il programma di «effettuare il distacco di Trieste e delle altre terre italiane della regione dal nesso dello Stato austriaco, assumendo nelle nostre mani tutti i poteri civili e militari e tutte le istituzioni della città» 4.
La città fronteggiava allora emergenze gravissime: interruzione della fornitura di derrate alimentari,arrivo in città degli sbandati austriaci dal fronte e dei primi prigionieri italiani rilasciati o fuggiti dai campi di raccolta in Austria, disordini di piazza contro i simboli e le istituzioni asburgiche, banditismo e saccheggi nei depositi di viveri, focolai di epidemie. Già il 31 ottobre, quindi, il Comitato decise di inviare tre delegati – Antonio Samaja per il fascio nazionale, Alfredo Callini per i socialisti e Josip Ferfolja come rappresentante degli sloveni – presso il comando della Flotta italiana a Venezia per richiedere l’invio di una squadra navale dell’Intesa.
Gli emissari avrebbero fornito le mappe dei campi minati nel Golfo di Trieste per permettere alle navi di raggiungere agevolmente la città. Con questa missione dei delegati del Comitato, si azzerava la possibilità di realizzazione dei progetti indipendentistici. Arrivati a Venezia, infatti, con una sorta di Putsch interno alla missione, il rappresentante liberalnazionale Samaja sollecitò l’ammiraglio del Comando flotta a inviare truppe che occupassero la città in nome dell’Italia. Il 3 novembre il generale Carlo Petitti di Roreto, già nominato governatore, sbarcò dalla motonave Audace insieme ai primi soldati italiani, dichiarando subito: «In nome di Sua Maestà il Re d’Italia prendo possesso della città di Trieste». L’occupazione della città venne poi formalizzata con l’assunzione delle funzioni di governatore e con il successivo decreto che sanciva l’attribuzione a questa carica dei poteri politici e amministrativi nella Venezia Giulia occupata dal Regio esercito, lo scioglimento del Comitato di salute pubblica, la reintegrazione nelle proprie funzioni della rappresentanza comunale sciolta nel 1915.
Già i primi atti dell’amministrazione italiana frustravano quindi i fautori della città libera, che sostenevano una soluzione della questione sull’appartenenza territoriale di Trieste sulla base delle decisioni della conferenza di pace o di un plebiscito organizzato secondo i princìpi enunciati dal presidente americano Woodrow Wilson. Anche a causa della condotta autoritaria dei nuovi organi di governo locale italiani, l’anno seguente i socialisti indipendentisti radicalizzarono le proprie posizioni. Ivan Regent e Giuseppe Tuntar auspicarono la creazione di una repubblica sovietica italo-slava nella Venezia Giulia, mentre Valentino Pittoni, ormai autoesiliatosi a Vienna, propose la strutturazione di Trieste come uno Stato separato nella neonata Repubblica austriaca che mantenesse il sistema giuridico, sociale ed educativo austriaco.
3. Se fino alla seconda guerra mondiale qualsiasi accenno a un’indipendenza triestina venne soffocato, l’idea di staccare Trieste e la Venezia Giulia dal nesso con l’Italia riguadagnò vigore durante il conflitto. Il comunista Pinko Tomažič teorizzò la liberazione della Venezia Giulia e la sua associazione con una repubblica sovietica slovena 5. Anche se, in seguito all’invasione della Jugoslavia da parte dell’Asse (e alla fucilazione di Tomažič), quest’idea venne abbandonata, il movimento partigiano di orientamento comunista – l’unico in grado di compiere azioni efficaci contro i nazifascisti nell’area – continuava ad auspicare il distacco di questo territorio dall’Italia e la sua annessione alla Jugoslavia.
Carta di Laura Canali
La maggioranza del movimento partigiano era composto da sloveni che sognavano l’unione alla madrepatria, ma la motivazione principale alla base della popolarità di questa opzione era di tipo ideologico. I comunisti vedevano nella futura Jugoslavia di Tito un paese dove si sarebbe edificato il socialismo, mentre l’Italia, nel corso del conflitto, andava sempre più profilandosi come una zona d’influenza occidentale. Per questo l’unione di Trieste e della Venezia Giulia alla Jugoslavia era caldeggiata anche dalla maggioranza dei comunisti italiani. Le autorità jugoslave, proprio per avere il massimo appoggio da parte della classe lavoratrice italiana triestina, iniziarono a parlare della città come della «settima repubblica jugoslava»: a Trieste sarebbe stato garantito lo status di entità federata e alla popolazione italiana i diritti di minoranza nazionale 6.
Al distacco di Trieste dall’Italia puntavano anche i tedeschi, che nel settembre del 1943 annessero l’intera Venezia Giulia denominandola Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico). La propaganda nazista sottolineò il legame del territorio con la Mitteleuropa e il suo passato austriaco, dando il via a una serie di iniziative tese a rilanciare il legame con la Germania (trasmissioni radio, giornali, iniziative di circoli culturali). In questo modo i tedeschi si accattivarono le simpatie di una parte della borghesia cittadina, legata già prima della Grande guerra al mondo austro-tedesco e profondamente delusa dalla politica economica dell’Italia verso la città, che aveva perso il dinamismo dell’epoca asburgica.
La complessa situazione etnico-politica del territorio spinse alcune forze politiche e alcuni intellettuali a teorizzare soluzioni innovative. Nel 1943 il Partito d’azione (Pd’A) propose l’autonomia regionale per il territorio, nel quadro di un’Europa federale – un’anticipazione, mutatis mutandis, dei più recenti progetti di Euroregione. L’anno successivo Emanuele Flora, avvocato e membro egli stesso del Pd’A, prospettò la trasformazione di Trieste, del suo hinterland e di altre «comunità etniche italiane» in enclave italiane in Jugoslavia collegate al Belpaese da un sistema stradale sotto il controllo delle nasciture Nazioni Unite, in modo da «creare un’atmosfera di collaborazione tra Italia e Jugoslavia». Flora fu espulso dal Pd’A l’anno seguente, quando la situazione politica favorì l’ascesa dell’ala destra del partito. Il suo progetto fu considerato «slavofilo» e «filocomunista»7.
Nel 1945 Gaetano Salvemini sostenne che i princìpi wilsoniani non potevano essere applicati in un territorio così etnicamente variegato: a Trieste e in Istria «italiani e slavi sono indissolubilmente confusi». Secondo Salvemini, alla Venezia Giulia andava garantita una larga autonomia dentro lo Stato italiano: le comunità rurali slave e le municipalità italiane avrebbero dovuto conseguire il massimo grado di autonomia; il confine tra Italia e Jugoslavia avrebbe dovuto essere amministrativo e non economico o politico, permettendo la massima libertà di movimento ai suoi abitanti 8. Analogamente, anche lo statistico triestino Pierpaolo Luzzatto Fegiz affermò che a Trieste andava abbandonata l’idea di confine: «Un confine non dovrebbe essere più considerato un muro invalicabile, fissato definitivamente per il tempo a venire» 9.
4. Le questioni teoriche furono superate dai fatti. Il trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947sancì la nascita del Territorio libero di Trieste (Tlt). La creazione del Tlt non fu però il provvedimento considerato più valido per risolvere la conflittualità di confine italo-jugoslava, quanto piuttosto la soluzione più pratica all’incapacità di trovare un accordo tra occidentali, Unione Sovietica e Jugoslavia. In base al trattato il Tlt sarebbe stato smilitarizzato e neutrale, la sua integrità e indipendenza sarebbero state garantite dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, avrebbe avuto come lingue ufficiali l’italiano e lo sloveno (con la possibilità di includere in futuro anche il croato), avrebbe dovuto avere moneta propria, una costituzione e un parlamento. La massima autorità di governo sarebbe stato il governatore nominato dal Consiglio di Sicurezza, che non avrebbe potuto essere cittadino italiano, jugoslavo o del Territorio libero. In realtà, occidentali e sovietici non trovarono mai un accordo sulla nomina del governatore, impedendo il reale funzionamento del Territorio libero.
Il Tlt fu provvisoriamente diviso in due zone: la Zona A amministrata dagli angloamericani,corrispondente grosso modo all’attuale provincia di Trieste, e la Zona B a sud fino al fiume Quieto, controllata dagli jugoslavi. Nella Zona A, ancor prima della firma del trattato, l’indeterminatezza della situazione triestina aveva fatto rinascere aspirazioni indipendentiste. Nel luglio del 1945 il comitato promotore di un «Fronte separatista per lo Stato adriatico» aveva pubblicato una dichiarazione a favore dell’indipendenza triestina. In agosto era stato costituito da Mario Giampiccoli e Teodoro Sporer il Fronte dell’indipendenza. E più tardi l’avvocato Mario Stocca fondò un altro movimento indipendentista: il Blocco triestino. Gli indipendentisti riconoscevano nel melting pot triestino la caratterizzazione di un’identità cittadina molto più forte delle appartenenze nazionali, creata proprio dal fondersi di mondo latino, slavo e tedesco.
Nel biennio 1947-48 anche nel mondo sloveno non comunista della Zona A nacquero nuovi partiti:l’Unione democratica slovena (Slovenska demokratska zveza, Sdz) e l’Unione cristiano-sociale slovena (Slovenska krščanko-socialna zveza, Sksz) seguiti nel periodo 1949-50 da un altro piccolo movimento, composto perlopiù da intellettuali: il Gruppo degli sloveni autonomi (Skupina neodvisnih slovencev, Sns). Poiché tutte e tre queste formazioni avevano nel proprio programma la realizzazione effettiva del Tlt, nel 1950 diedero vita all’Akcijski odbor za obrambo Sto-ja (Comitato d’azione per la difesa del Tlt).
Il Partito comunista della Regione Giulia, al momento della sua fondazione (agosto del 1945) era favorevole all’unione di Trieste alla Jugoslavia. Dopo la firma del trattato di pace, tuttavia, modificò la propria politica (e pure il nome, diventato Partito comunista del Tlt, Pctlt), sostenendo la creazione di un’assemblea costituente democratica triestina che elaborasse una costituzione del Tlt, rendendolo una reale entità statale autonoma e indipendente. L’arrivo a Trieste di Vittorio Vidali e, poco dopo, la rottura tra Stalin e Tito portarono all’espulsione dei titoisti dal Pctlt. I comunisti fedeli a Belgrado si presentarono alle successive elezioni come Fronte popolare italo-sloveno. Entrambi i partiti mantennero comunque un orientamento favorevole al Tlt.
In pratica, a Trieste tutti i partiti che non si riconoscevano nel cosiddetto «blocco italiano» (Dc, Pli, Pri, Msi, Psvg – Partito socialista della Venezia Giulia – e monarchici) erano favorevoli all’indipendenza della città. Tuttavia, i fortissimi contrasti di tipo ideologico e nazionale tra questi vari movimenti non permisero di trovare un accordo e una linea comune da contrapporre al «blocco italiano».
Una parte delle autorità del Governo militare alleato (Gma) operanti in ambito locale cercò davverodi costituire un Territorio libero funzionante, che fosse in grado di scardinare il forte dualismo politico Italia-Jugoslavia del territorio, come pure il dualismo etnico italiani-sloveni. Il colonnello Alfred Bowman, una delle più alte cariche presenti a Trieste, sosteneva che il Tlt non avrebbe dovuto essere considerato «né uno Stato, né una nazione». Sebbene Bowman sperasse che il Territorio libero producesse un’innovazione nel concetto di identità e appartenenza etnico-nazionale, diluendone così il potenziale di conflitto, guardava a questa prospettiva con molto scetticismo. «Ci vorranno due generazioni [ai cittadini del Tlt] per considerarsi come membri di uno Stato sovrano piuttosto che sloveni o italiani» 10, affermava.
Carta di Laura Canali
Anche alcune realtà economiche vedevano positivamente una Trieste indipendente il cui porto franco, previsto dal trattato di pace, avrebbe facilitato i commerci e i traffici. La prospettiva del Territorio libero raccoglieva, inoltre, il favore dei cittadini non orientati in senso nazionale, che vi scorgevano la possibilità di un futuro individuale economicamente florido, simile a quello dei cittadini di città come Hong Kong e Singapore.
Tuttavia, le autorità alleate del Tlt, in primis il comandante del Governo militare alleato (Gma)generale Airey, agirono con forte ambiguità nei confronti del territorio che erano chiamate ad amministrare. Anziché lavorare nel senso di un’effettiva realizzazione del Tlt, gli angloamericani permisero all’Iri di mantenere la proprietà di tutte le più grandi realtà industriali della città. Il governo italiano aveva il controllo della quasi totalità delle industrie triestine e conseguentemente dei posti di lavoro che queste garantivano. Inoltre, l’Iri amministrava direttamente le filiali triestine della Banca commerciale italiana, del Banco di Roma e del Credito italiano, detenendo così il monopolio del credito verso l’industria e il commercio. Anche la gestione e il coordinamento degli aiuti Erp (Piano Marshall) per Trieste non venivano stabiliti dalle autorità alleate della città, bensì da una commissione mista situata a Roma. Tutto ciò faceva già rientrare de facto la Zona A del Tlt nel sistema economico italiano.
A livello amministrativo, alcune delle cariche interne del Gma furono assegnate a personale italianodi chiaro orientamento filogovernativo, sbilanciando così il funzionamento stesso dell’amministrazione alleata a favore della componente «pro-Italia». Venne creata la carica di presidente di Zona, affidata al democristiano Gino Palutan che, grazie alla propria posizione, permise l’insediamento a Trieste di circa 30 mila profughi istriani (tendenzialmente elettori della Dc), sbilanciando anche gli equilibri elettorali della città a favore dell’Italia. Con il tempo il Gma ridusse gradualmente le proprie attribuzioni delegandole sempre di più alle autorità locali, in primis al Comune di Trieste, saldamente nelle mani del sindaco Bartoli e della corrente degasperiana della Dc). Si limitò a funzioni simili a quello di un governo centrale, lasciando agli enti locali la gestione pratica dell’amministrazione ordinaria.
Questa situazione provocò le proteste della Jugoslavia (e dei partiti indipendentisti), inducendo Londra e Washington a sostituire Airey con il più neutrale Winterton. La nomina di Winterton cristallizzò la situazione, impendendo ad altri profughi istriani di fermarsi in città, ma ormai il quadro, a livello amministrativo ed elettorale, era stato fortemente modificato a favore dell’Italia.
Ciononostante, il consenso elettorale verso l’opzione indipendentista crebbe di anno in anno: nelle elezioni amministrative del 1949 la percentuale di voti raccolti dai partiti favorevoli al Tlt fu di poco inferiore al 35%. Nel 1952, dopo la rottura Tito-Stalin, che rese più lontana la prospettiva di un Tlt subordinato a Belgrado (o addirittura annesso dalla Jugoslavia), un numero sempre maggiore di triestini si sganciò dall’idea dell’unione all’Italia, trovando ben più appetibile la creazione di una città indipendente. Nelle elezioni amministrative di quell’anno la percentuale di elettori favorevoli al Tlt crebbe al 37,7%. In ambito internazionale, accodandosi alla diplomazia italiana – che auspicava un plebiscito per risolvere la questione di Trieste ponendo ai cittadini del Tlt la scelta tra Italia e Jugoslavia – gli indipendentisti proposero a loro volta l’organizzazione di una consultazione popolare, in cui sarebbero state però previste tre opzioni: Italia, Jugoslavia o Tlt. Quando la proposta del referendum con tre opzioni venne fatta propria dalla Jugoslavia, il governo italiano smise di sostenerla.
5. Il 5 ottobre del 1954 le diplomazie inglese, americana, jugoslava e italiana, dopo una serie di complesse trattative, trovarono un accordo che risolveva definitivamente la questione di Trieste: con il Memorandum di Londra la Zona A passava all’Italia e la Zona B alla Jugoslavia. Una modifica del confine tra le due zone assegnava alla Jugoslavia anche un settore del Muggesano che era appartenuto alla Zona A. Il 26 ottobre Trieste fu definitivamente ricongiunta all’Italia.
Gli indipendentisti protestarono fortemente contro la spartizione del Tlt, considerata un accordoche passava sopra le teste degli autoctoni e violava il trattato di pace. Anche i partiti autonomi sloveni stigmatizzarono la fine del Territorio libero, affermando che, mentre nel Tlt gli sloveni sarebbero stati una delle componenti fondanti dello Stato, in Italia finivano con l’essere una piccola minoranza in una popolazione di decine di milioni di italiani. Il Pctlt protestò contro la mancata organizzazione della consultazione referendaria, ma preso atto della nuova situazione espresse lealtà verso la nuova amministrazione italiana e confluì in tempi rapidissimi nel Pci.
Il Memorandum di Londra cancellò le prospettive di realizzabilità del Tlt, anche perché, partito il Gma, le nuove autorità italiane ricominciarono a insediare a Trieste decine di migliaia di profughi istriani. Il ministero dell’Interno italiano sottolineò spesso come più di un terzo della popolazione di Trieste continuasse a essere ostile a Roma 11. L’insediamento degli istriani, in gran parte orientati politicamente verso i partiti di governo e con un sentimento di italianità ben più solido di quello triestino, significava la modifica del tessuto politico ed etnico della città in senso favorevole all’Italia. Nel 1971, su una popolazione comunale di 271.879 abitanti, si contavano più di 70 mila persona nate nei territori ceduti alla Jugoslavia diciassette anni prima.
Il ritorno dell’Italia a Trieste portò a un irrimediabile ridimensionamento dell’idea di una Triesteindipendente, attivamente propiziato dai continui atti di ritorsione nei confronti degli indipendentisti intrapresi dalle autorità italiane. Già il 2 maggio 1952 in una seduta del parlamento italiano si era sostenuto che, una volta avvenuta la riannessione della città adriatica all’Italia, tutti i dipendenti civili del Gma sarebbero stati assunti nella futura amministrazione italiana, «eccetto le persone impegnate contro l’annessione del Tlt all’Italia» 12. Una dichiarazione di questo genere, insieme al ricordo non lontano degli assalti e delle devastazioni compiuti contro la sede del Fronte dell’indipendenza durante le manifestazioni del biennio 1952-53, non lasciava presagire nulla di buono per coloro che avevano lottato per l’indipendenza della città.
Dopo l’ottobre 1954 a diversi militanti indipendentisti fu bloccato il rilascio del passaporto o ne fu limitata la validità. In altri casi fu congelato o rallentato l’iter per il conseguimento di documenti necessari per l’assunzione o per la continuazione del lavoro, causando talvolta la perdita del posto o il licenziamento 13. Addirittura, quando un dirigente indipendentista venne aggredito e malmenato a sangue da militanti di destra per aver parlato dell’Italia come Stato occupante, essendosi difeso e in seguito citato in causa dai suoi aggressori fu condannato a due anni di reclusione per vilipendio e lesioni volontarie.
I movimenti indipendentisti vennero penalizzati anche alle elezioni amministrative del 1956. Il commissario generale per il territorio di Trieste Giovanni Palamara, la più alta carica della nuova amministrazione italiana, escluse dall’agone elettorale l’Unione triestina – il movimento unitario degli indipendentisti formatosi nel gennaio dell’anno precedente – adducendo come pretesto un errore nella compilazione dei documenti richiesti per la candidatura. I militanti indipendentisti sostennero che l’esclusione dalla tornata elettorale violava i princìpi fondamentali della democrazia, e che dietro alla decisione della commissione elettorale si nascondesse il preciso intento di punire un soggetto politico che alle precedenti elezioni aveva ottenuto 27 mila consensi.
La strategia di Palamara si dimostrò efficace: nelle elezioni successive del 1958, i due partiti indipendentisti (nuovamente separati) persero molti suffragi. Tale calo può essere attribuito anche al forte movimento emigratorio che si sviluppò a Trieste nel biennio 1954-55. A partire da quegli anni, con strascichi fino al 1960, circa 25 mila triestini lasciarono la città per emigrare in Australia, un numero non molto distante dai 17 mila voti persi dai partiti indipendentisti tra 1952 e 1958. Anche se nella storiografia triestina «ufficiale» e «accademica» si parlò (e si parla ancora) di un’emigrazione dovuta principalmente a questioni economiche, il fatto che oltre metà degli emigranti avesse un’occupazione a Trieste contraddice questa versione. È incontestabile che ci fu una vasta fetta della popolazione che non gradì la soluzione italiana della «questione di Trieste». Le stesse autorità italiane spinsero quanti più triestini possibile a emigrare all’estero. Per volontà del commissario Palamara, tutti gli ex lavoratori del Gma che avessero deciso di emigrare in Australia avrebbero beneficiato di incentivi economici particolarmente vantaggiosi.
Diversi episodi avvenuti durante le partenze delle navi per l’Australia suggeriscono che non tutti i triestini apprezzavano il ritorno dell’Italia, confermando come l’emigrazione avesse anche motivazioni politiche. Su una delle navi in partenza per l’Australia venne esposto uno striscione dove, parafrasando il testo del discorso del sindaco Bartoli in occasione del ritorno dell’Italia («È la madre che ritorna per farci vivere liberi»), si leggeva l’affermazione sarcastica: «La madre è tornata, i figli partono» 14.
Quando i due partiti indipendentisti si fusero nuovamente nel 1966, sotto la guida di Giovanni Marchesich, dando vita al Movimento indipendentista triestino, il peso politico dell’indipendentismo era ormai scarso. Sporadicamente, continuarono a verificarsi episodi di fastidio verso l’Italia 15, ma la sempre maggior integrazione degli istriani nel tessuto cittadino, il numero crescente di immigrati dal resto dell’Italia e l’inserimento a tutti gli effetti di Trieste nell’apparato statale italiano portarono a una definitiva metamorfosi della struttura etnica e politica della città. Trieste, che era stata uno dei centri più laici, socialisti e operai dell’impero austro-ungarico, divenne una città cattolica e democristiana.
L’industria e l’imprenditorialità della città furono quasi completamente azzerate e si assistette alla creazione di un’economia assistita che legò sempre di più la città a Roma, facendo dipendere i finanziamenti dalle amicizie e dalle reti clientelari politiche che si potevano vantare nella capitale. La dirigenza politica democristiana e istriana di Trieste, che aveva fatto dell’italianità uno dei perni della propria politica, riprese quella retorica ufficiale, già cara al fascismo, della «città italianissima». La vocazione triestina all’autonomia, da sempre forte e con spinte centrifughe, venne imbrigliata in un nesso fortissimo con l’Italia, tanto che, dopo il trattato di Osimo (1975), la neonata Lista per Trieste, pur ponendo l’autonomia come punto fondamentale del proprio programma, sottolineò con decisione la propria imprescindibile italianità 16.
Carta di Laura Canali
Note:
1. T.N. Page, Italy and the World War, New York 1920, Charles Scherner’s Sons, pp. 204-205.
2. G. Sluga, The Problem of Trieste and the Italo-Yugoslav Border, Albany 2001, State University of New York, p. 41; Trieste ottobre-novembre 1918, Comitato Trieste ’68, Milano, 1968, All’insegna del pesce d’oro, vol. 1, p. 84.
3. Sulle proposte di federalizzazione dell’Austria: F. Fejtő, Requiem per un impero defunto, Milano 1990, Mondadori. L’appello di Lenin è a p. 308.
4. Trieste ottobre-novembre 1918, vol. 1, cit., p. 150.
5. M. Kacin-Wohinz, Pinko Tomažič, Slovenski biografski leksikon, Ljubljana 2013, ZRC, SAZU.
6. B. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano 1996, Mursia, p. 148; D. de Castro, La questione di Trieste, Trieste 1981, Lint, vol. 1, p. 213.
7. G. Sluga, «Inventing ethnic spaces: “Free Territory”, Sovereigny and the 1947 Peace Treaty», in Prispevki z mednarodne konference “Pariška mirovna pogodba. Nova Jugoslovansko-italijanska meja in prikjučitev Primorske k Sloveniji” (Contributi dalla Conferenza internazionale “Il Trattato di pace di Parigi. Il nuovo confine italo-jugoslavo e l’annessione della Primorska alla Slovenia”), Koper-Nova Gorica, 25-27/9/1997, Acta Histriae, VI, Zgodovinsko društvo za južno Primorsko, Znanstveno-raziskovalno središčeRepublike Slovenije, Koper 1998, p. 175.
8. G. Sluga, op. cit., pp. 136-137.
9. Ivi, p. 138.
10. Ivi, pp. 143-144.
11. P. Purini, «L’emigrazione da Trieste nel dopoguerra», Annales, 10, 1997, p. 257.
12. B. Novak, op. cit., p. 374
13. J. Dekleva, Enoletni obračun, Trst 1956, Jadranski Koledar, p. 34.
14. C. Tonel, Rapporto con Trieste, Trieste 1987, Dedolibri, p. 73.
15. La sezione triestina del Partito comunista, ad esempio, dovette stampare per alcuni anni due tessere diverse, perché un certo numero di militanti non gradiva quella con il tricolore.
16. P. Purini, «Mutamenti etno-demografici a Trieste nel periodo 1943-1954», in J. Pirjevec, G. Bajc, B. Klabjan (a cura di), Vojna in mir na Primorskem, Univerza na Primorskem, Zgodovinsko društvo za južno Primorsko, Znanstveno-raziskovalno središče Koper, Koper 2005, pp. 267-268.