DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

lunedì 23 luglio 2018

IL MONDO SECONDO MARCHIONNE - GIUDIZIO MOLTO NEGATIVO SULLA UE - GRAN PARTE DEGLI UTILI DI FCA DAL MERCATO AMERICANO - Per gli investimenti "in tutto il mondo i criteri sono la vicinanza ai mercati e i benefici economici dell’investimento"- Un' intervista a Limes di due anni fa.



Conversazione con Sergio MARCHIONNE, amministratore delegato di Fca e presidente di Cnh Industrial.
a cura di   5/11/2015
LIMES Che effetto ha il caso Volkswagen sul mercato dell’auto?
MARCHIONNE È ancora presto per dirlo. È come aprire un’arancia: gli spicchi vengono fuori uno a uno. Ci vorrà del tempo. Un paio di cose però sono già chiare. Primo: il comparto dell’auto ha fatto una figura pessima. Si è visto che anche una delle maggiori industrie automobilistiche del mondo può fare cose al di fuori del consentito. Come ho cercato di spiegare ai miei colleghi europei, nella mia doppia veste di italiano e nordamericano, il vero problema sta in quello che gli anglosassoni chiamano il breach of trust. Concetto che non ha un vero equivalente in italiano, ma che possiamo rendere con «tradire la fiducia». È l’aspettativa che nel contratto sociale alcune norme di base vadano rispettate, perché non farlo è un affronto intollerabile all’ordine sociale. Si tratta di un’idea che da noi non ha mai attecchito veramente, tant’è che in Italia gli esempi di breach of trust abbondano, specie negli ultimi anni.
LIMES Se è per questo, anche in America: pensiamo solo agli scandali finanziari che, da Enron alla crisi del 2007-8, hanno segnato il paese.
MARCHIONNE Sì, ma in America il breach of trust è punito come tale: questi comportamenti non vengono tollerati, perché c’è la convinzione che se lo fossero il sistema sociale crollerebbe. Dunque non sappiamo ancora come reagiranno le autorità pubbliche a questo scandalo, ovvero se e quando imporranno standard sulle emissioni ancora più stringenti di quelli attuali. Ma c’è un’altra conseguenza pesante.
LIMES Ovvero?
MARCHIONNE L’impatto negativo dello scandalo Volkswagen sul diesel: una delle tecnologie fondamentali nello sviluppo dell’auto, anche nel settore dei mezzi industriali. Un settore che peraltro ci vede in prima linea con Cnh Industrial, azienda che sta dando un contributo importante alla meccanizzazione agricola in molti paesi, come l’India. Come il resto del gruppo, Cnh Industrial persegue ovviamente il profitto, ma le ricadute sociali positive di un aumento della produttività agricola sono enormi e di questo siamo ben coscienti. Non so quanto lo siano quelli che ora sparano a zero sul diesel, causa di tutti mali.
Questo anatema è totalmente ingiustificato e arbitrario. Avrebbe potuto colpire indifferentemente qualsiasi altro componente oggetto di regolamentazione, dalle cinture di sicurezza ai freni.
LIMES Qual è il rapporto tra una multinazionale e i governi dei paesi in cui opera?
MARCHIONNE È un rapporto di pura convenienza economica. Per questo la Fiat è un caso particolare. Almeno negli anni della mia gestione, dal 2004 in poi, la presenza di Fiat in Italia non è stata dettata da ragioni puramente economiche. Al netto delle mie origini italiane e dei 116 anni di storia della Fiat in Italia, nessuno, oggi, avrebbe fatto quel che abbiamo fatto noi. Quando ho deciso di far produrre la Panda a Pomigliano d’Arco, in Campania, qui in Fiat mi dicevano che ero pazzo, eppure oggi Pomigliano è il nostro miglior stabilimento in Europa. È stato uno sforzo enorme. Non lo è stato di meno produrre a Melfi, in Basilicata, le jeep da esportare, prendendosi la responsabilità di industrializzare quell’area. O tenere in vita lo stabilimento di Mirafiori, a Torino, che è una città nella città.
LIMES Di norma, quali sono i criteri in base ai quali sceglie i luoghi di produzione?
MARCHIONNE Ovunque nel mondo, eccezion fatta per l’Italia, i criteri sono la vicinanza ai mercati e i benefici economici dell’investimento. Non fosse altro che per giustificare gli esborsi di fronte agli azionisti. In Italia a pesare è l’oggettiva importanza della Fiat nel contesto nazionale: siamo il più grande gruppo industriale italiano e questo comporta delle responsabilità.
LIMES Italianità e multinazionalità sono quindi in contrasto?
MARCHIONNE Spesso sì. E ciò che più mi dà fastidio è che i sacrifici che questo comporta per l’azienda non siano adeguatamente riconosciuti. Noi abbiamo acquisito un’azienda americana, la Chrysler, da cui nel 2015 sono venuti gran parte degli utili di Fca, dato che il mercato europeo è ancora fiacco. Se applicassi in tutte le parti del mondo le cautele che ho per l’Italia, Fca sarebbe fallita da un pezzo. Ma la Chrysler ha quarantamila dipendenti, non uno, e ho responsabilità anche verso di loro. Gli operai italiani non sono costituzionalmente inferiori agli altri, ma non sono nemmeno automaticamente superiori: in un mercato globale essi sono in competizione con gli operai di tutti i posti del mondo dove si producono auto e questa è una realtà impossibile da ignorare. Nello stabilimento che abbiamo aperto di recente nel Pernambuco, nel Nord-Est del Brasile, lavorano persone che sono state letteralmente strappate alla povertà. Abbiamo offerto loro un’enorme opportunità di sviluppo e l’impegno che mettono nel lavoro li rende qualitativamente eccellenti, pur essendo l’area priva di una tradizione industriale. Quel tipo di passione, di serietà e di competenza sopravvive comunque anche in Italia: a Melfi come a Pomigliano o a Grugliasco. Dopo dieci anni di traversie, l’orgoglio di appartenere a questo gruppo è di nuovo presente negli stabilimenti.
LIMES Nel gestire una multinazionale, quanto contano i confini statali? È più corretto parlare di imprese multi-o sovranazionali?
MARCHIONNE Direi sovranazionali, nel senso che per molti aspetti – soprattutto quello fiscale – tali imprese sono in grado di muoversi indipendentemente dalle autorità statali, per eluderne paletti e imposizioni.
LIMES Le multinazionali sono dunque eversive del sistema politico?
MARCHIONNE No. Considerano la realtà e la stabilità politica come uno dei fattori di cui tener conto nell’equazione del loro business. In Brasile, ad esempio, oggi ci troviamo a gestire l’impatto dei problemi di Dilma Rousseff, così come gestiamo i rapporti con Cristina Fernández in Argentina, con François Hollande in Francia, con Matteo Renzi in Italia o con Angela Merkel in Germania.
LIMES Come valuta Matteo Renzi?
MARCHIONNE Ammetto che all’inizio l’ho valutato male, con leggerezza, ma nel tempo mi sono ricreduto. È svelto, energico e sta mettendo impegno nel cercare di imprimere una svolta a questo paese. È privo di condizionamenti mentali e questo lo aiuta a pensare in modo originale. Ci rivedo un po’ me stesso nel 2004, quando giunsi alla guida della Fiat praticamente digiuno di industria automobilistica.
LIMES Lei non si sente in qualche modo gestito dai politici?
MARCHIONNE Assolutamente no. Zero. Ma proprio zero. Quello che i politici possono fare è fissare norme che mi obblighino ad adeguarmi. In ultima analisi, però, sta a me decidere: se mi conviene mi adeguo, altrimenti cerco, nei limiti della legalità ovviamente, di trovare alternative.
LIMES Il fatto che le multinazionali abbiano manager di provenienza molto diversa non ne inficia la governance? Non ci sono barriere culturali?
MARCHIONNE No, perché si condividono valori e interessi. Fra i primi figurano l’onestà e l’integrità, fra i secondi al primo posto c’è, ovviamente, l’interesse aziendale. Venticinque anni fa ho cominciato la mia esperienza in Europa alle dipendenze di una multinazionale canadese con interessi in Inghilterra. Quell’azienda è poi stata acquisita da un’azienda svizzera, quindi da Londra sono passato in Svizzera, poi a Parigi e altrove. La Svizzera è un paese sui generis, che pur essendosi molto aperto al mondo negli ultimi vent’anni resta estremamente geloso delle proprie peculiarità e del suo sistema sociale e istituzionale, frutto di un’evoluzione plurisecolare. Un sistema che funziona e che continuerà a funzionare. Eppure, nonostante questo la cultura aziendale delle multinazionali svizzere – come di quelle degli altri paesi – si basa su un codice universale. Ho avuto modo di constatarlo ampiamente, avendo lavorato con persone provenienti dai quattro angoli del globo.
LIMES Crede che nel caso Volkswagen c’entri qualcosa la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), l’accordo di libero scambio tra Usa e Ue perseguito da Washington e fortemente osteggiato dalla Germania?
MARCHIONNE Direi proprio di no. Sul Ttip ho letto parecchie teorie del complotto, ma la semplice verità è che nessuno vuole male alla Volkswagen, come nessuno vuole male alla Chrysler, eppure noi le multe le abbiamo prese e le abbiamo pagate in silenzio. Quando sbagli paghi, punto. Anche se la vicenda Volkswagen è un’altra cosa. Sbagli di quel calibro aprono un vaso di Pandora.
LIMES A cosa si riferisce, in particolare, quando dice che il mondo sta cambiando velocemente?
MARCHIONNE A tutto. Appena due anni fa fior di esperti decantavano le virtù dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), vaticinando che avrebbero tirato il mondo fuori dalle secche della crisi. Sono stato di recente in Brasile e faccio fatica a vederci una delle nuove locomotive dell’economia mondiale. Se nel 2004 qualcuno mi avesse detto che da amministratore delegato della Fiat avrei acquisito la Chrysler, gli avrei dato del folle: nessuno poteva prevedere il semi-fallimento dell’industria americana dell’auto. Noi abbiamo avuto la fortuna e l’intelligenza di presentarci lì al momento giusto e questo ha cambiato per sempre la faccia della Fiat.
LIMES È stata fortuna?
MARCHIONNE Sì, nella misura in cui ci si è presentata questa opportunità. La scelta di perseguirla e il modo in cui è stata architettata l’acquisizione, invece, sono stati voluti. Chi ha rischiato non è stata la Fiat, ma Marchionne: sono io che ci ho messo la faccia con il governo americano per ottenere gli aiuti governativi, l’azienda non ci ha messo un centesimo. Se fosse andata male a saltare sarei stato io: la Chrysler sarebbe andata a qualcun altro, ma la Fiat era salva. Il vero contenzioso con il Tesoro statunitense è stato questo: loro chiedevano che mettessimo soldi, io pretendevo di non metterceli, almeno all’inizio e finché non avessi avuto garanzie sufficienti per portare Chrysler nel gruppo. Alla fine l’ho spuntata, ma mi ci sono giocato vita e carriera. È stato un esperimento controllato per la Fiat.
LIMES L’esperimento della sua vita.
MARCHIONNE Sì. Ha cambiato me non meno di quanto abbia cambiato la Fiat. Il fatto che poi la United Automobile Workers (Uaw) abbia scelto la Chrysler, un’azienda a proprietà italiana, per iniziare a rinnovare il contratto di lavoro nazionale è altrettanto indicativo. Qui non c’entra la nazionalità dell’azienda, ma la chimica personale: se i rappresentanti sindacali credono in te, negoziano con te. E questo vale per l’America come per il Brasile e per qualsiasi altra parte del mondo. Una multinazionale ben gestita dovrebbe avere questa capacità di interfacciarsi con le parti sociali. Non necessariamente attraverso l’amministratore delegato, anche attraverso i suoi vertici locali. Nel caso specifico, con il presidente della Uaw Dennis Williams ho un ottimo rapporto personale e detto francamente ho trovato ragionevoli molte delle sue richieste, tant’è che alla fine l’accordo è arrivato.
LIMES Torniamo all’Italia: lei crede al made in Italy?
MARCHIONNE Credo che, se ben gestito, per certi aspetti il made in Italy abbia un indubbio valore, ma non credo che sia la soluzione al problema industriale italiano. Una jeep non si vende bene agli americani perché è fabbricata in Italia, anche se questa è una storiella che ci raccontiamo spesso e in modo anche convincente. Il made in Italy ha valore se applicato a un certo tipo di prodotti e di attività in cui l’italianità costituisce effettivamente un valore aggiunto, dal cibo alla moda al design. Ma una realtà industriale come quella dell’auto di massa, che deve competere a livello internazionale e misurarsi con gli altri su basi tecnologiche oggettive, non trae alcun vantaggio dalle etichette nazionali.
LIMES Salvo forse che nel caso tedesco, in cui l’industria dell’auto e il made in Germany sostanzialmente coincidono.
MARCHIONNE Sì. Francamente non riesco a gioire minimamente del passo falso di Volkswagen. Innanzi tutto perché è ingiusto condannare in blocco tutta l’industria tedesca, che dal secondo dopoguerra ha fatto passi da gigante. Il made in Germany non è rovinato, ma senza dubbio è ammaccato. Di contro, l’aspetto positivo del made in Italy è che risulta quasi impossibile da ammaccare, perché si manifesta in tanti ambiti che trovare il punto debole capace di squalificarlo è molto difficile. 
LIMES La differenza sta forse nel fatto che nessuno pretende dal made in Italy la stessa affidabilità. Insomma: è un po’ difficile ora per i tedeschi rinfacciare ai greci di truccare i bilanci.
MARCHIONNE È questo l’aspetto più preoccupante e potenzialmente nefasto di tutta la faccenda. I tedeschi hanno perso il diritto morale di emettere sentenze. Ma guardando oggi all’Europa, chi altri ha tale autorità? Lo scandalo Volkswagen è come la livella di Totò: ci ha rimesso tutti sullo stesso piano. Un piano piuttosto basso direi. Né l’attuale architettura europea risulta di alcuna utilità, essendosi allontanata dagli ideali originari.
LIMES L’Unione Europea non le fa una buona impressione?
MARCHIONNE Decisamente no. Risulta quasi incomprensibile, le sue dinamiche politiche e istituzionali appaiono completamente avulse dalla realtà. Sono stato a una quantità di riunioni a Bruxelles in cui la Commissione parla di Vision 2020, Vision 2025 e via dicendo: documenti di ampie visioni cui poi non corrisponde alcuna azione concreta, o peggio azioni discutibili. Un esempio: il trattato di libero scambio Ue-Corea del Sud. Perché lo abbiamo stipulato? Essenzialmente perché lo avevano fatto gli Stati Uniti. Ma se per Washington ha perfettamente senso rinsaldare i rapporti con un paese strategico, che dalla guerra di Corea ospita migliaia di soldati americani e che sta a due passi dal grande avversario cinese, per l’Europa che fatica a emergere da una crisi devastante aprire le porte agli agguerriti esportatori sudcoreani equivale a un atto di pura demagogia. Quando l’ho fatto notare a Bruxelles, mi è stato risposto che gli accordi di libero scambio vanno firmati tutti. Punto. Questo vuol dire applicare la teoria economica senza tener conto della realtà economica.
LIMES Ritiene che da un punto di vista tecnologico nei prossimi anni l’auto cambierà molto?
MARCHIONNE Totalmente. Innanzi tutto, il motore a scoppio come lo conosciamo oggi andrà gradualmente perdendo la sua centralità in 10-15 anni, a vantaggio di altri sistemi di propulsione. Per ora l’orizzonte principale è il motore elettrico, ma anche le celle a combustibile sono in campo, sebbene queste abbiano un alto impatto ambientale – in termini di CO2 – in fase di produzione e presentino seri problemi di sicurezza, essendo altamente esplosive. Poi ci sono i cambiamenti epocali avvenuti nel mondo che circonda la vettura, di cui questa deve tener conto. Oggi viviamo immersi nell’elettronica e facciamo un uso massiccio, quotidiano di Internet e del cosiddetto infotainment, a metà tra informazione e intrattenimento. Questa realtà andrà inevitabilmente a invadere l’auto: considerando il numero di ore che si passano in macchina, l’utente vorrà ritrovare nell’abitacolo quella che io chiamo la «sintassi» di questa architettura informatica. In un futuro non lontano vedo autovetture che si aprono avvicinando il telefonino alla portiera e, una volta dentro, riproducono su uno schermo il proprio desktop, permettendo di lavorare mentre si viaggia. La tecnologia c’è già e non è molto costosa. Il problema è la connettività, agganciare cioè l’auto alla Rete in modo veloce e costante.
LIMES Difficile pensare di poter guidare e lavorare al tempo stesso senza provocare incidenti a catena.
MARCHIONNE Infatti la tendenza è verso l’auto che si guida da sola, o che per lo meno consente di impostare il «pilota automatico» quando si vuole. In molti sono interessati a questa tecnologia, non solo le case automobilistiche. C’è Google ad esempio, ma anche Uber, il cui costo maggiore è il tassista. Vetture pubbliche a guida automatica abbatterebbero il costo delle corse. Per non parlare delle vertenze. Non è un mondo astruso: sono cose che possono succedere nei prossimi dieci anni. Tutto quello che siamo abituati a considerare tecnologia di base delle macchine sarà rimpiazzata, l’industria dell’auto cambierà volto. Ne è un esempio concreto Elon Musk, che con la sua Tesla sta rivoluzionando l’auto elettrica. Nel 2011, al salone dell’auto di Francoforte, mi sono ritrovato Musk seduto accanto a una cena e l’ho ignorato per tutto il tempo: non per cattiveria, ma perché non sapevo nemmeno cosa facesse. L’ho rivisto di recente in California e ormai si è fatto un nome. Al di là del suo grado di realismo come imprenditore, trovo eccezionale come riesca a rompere gli schemi. Le sue auto con le porte che si aprono all’insù sono imparcheggiabili in molti posti, eppure lui le vende. All’estremo opposto sta la Toyota, azienda che negli ultimi vent’anni ha sviluppato una tecnologia ibrida economicamente accessibile, finanziata peraltro con la vendita dei «classici» motori a scoppio. In questo caso le ricadute industriali sono già tangibili, perché i fornitori globali di Toyota hanno tenuto il passo con la casa madre e si sono dunque impadroniti di un know how che può tornare utile ad altre aziende, come Fiat e Chrysler, che negli anni passati non hanno potuto investire nelle tecnologie di punta e che ora possono più agevolmente recuperare terreno. Del resto, nel 2004 il nostro problema non era l’auto tra vent’anni, ma arrivare al giorno dopo, mentre ora possiamo guardare di nuovo al futuro. Dall’anno prossimo Chrysler sarà la prima in America ad applicare la tecnologia plug-in hybrid ai minivans, segmento in cui siamo leader nel mercato statunitense. Mentre Cnh Industrial ha fatto enormi passi avanti nel campo degli autobus a metano, ibridi ed elettrici.
LIMES Comunque, seppure in un’altra pelle, l’automobile sopravvivrà.
MARCHIONNE Almeno finché non impareremo a volare. Non tutto il mondo è la Svizzera, dove la rete ferroviaria funziona alla perfezione: precisa, pulita, puntuale, sicura. Il resto dell’Europa è molto indietro da questo punto di vista. Senza contare che la libertà personale associata ad avere un mezzo proprio è ineguagliabile.

venerdì 20 luglio 2018

TRIESTE ENTRERA' NELLA RETE NORD-EUROPEA CON I DANESI CHE SONO ARRIVATI IN MOLO V - PROSEGUE LO SVILUPPO FERROVIARIO DEL "PORTO FRANCO INTERNAZIONALE DI TRIESTE" - UTILIZZO PRODUTTIVO DEI PUNTI FRANCHI NELL' AREA EX-WARTSILA - SULLE CROCIERE SI SVILUPPI VENEZIA - Intervista a Zeno D' Agostino sul Meditelegraph



L’ intervista a Zeno D’ Agostino della rivista specializzata Meditelegraph (Dfds è l’ operatore danese che ha acquistato la Un RoRo ):

«Con Dfds Trieste entrerà nella rete Nord-europea»

Prosegue l’integrazione con i retroporti, mentre è appena partita quella con Monfalcone. D’Agostino promuove l’ingresso dei danesi in Molo V


IL SUCCESSO nello sviluppo dei traffici ferroviari ha permesso al porto di Trieste di superare quello di Venezia, storico concorrente per il primato portuale nel Mar Adriatico, per numero di container movimentati. Nel 2017 sono stati 616 mila teu per una crescita del 26,7%. Nei primi mesi del 2018 ancora in crescita contenitori, rotabili, rinfuse, treni movimentati.
Sul tavolo del presidente dell’Autorità di sistema del mare Adriatico orientale, Zeno D’Agostino, che guida anche l’associazione nazionale delle Authority, Assoporti, ci sono adesso altri progetti che premono, a partire dal porto franco: «Il porto franco - spiega il presidente - è legato all’avvio dell’area ex-Wartsila. Ci sono lavori in corso, gestiti dall’interporto di Fernetti, che per la prima fase pensiamo di ultimare in autunno. Già per la fine del 2018 ci saranno attività. Si devono creare tanti piazzali per gestire tante merci. Si stanno rimettendo a posto gli immobili. C’è un’ipotesi della costruzione di un magazzino a temperatura controllata su cui c’è una forte domanda sia per l’attività in porto franco sia no per i flussi di merce deperibile e a temperatura controllata. Cerchiamo di renderci autonomi da questo punto di vista. Inoltre c’è una domanda collegata all’intermodale ferroviario».
Dove è localizzata?
«Cominciamo a organizzarla non soltanto sul porto, ma anche sull’interporto di Cervignano. Si comincia a ragionare coi nostri clienti sul fatto che i treni non devono arrivare direttamente in porto, ma su Cervignano da una parte e su Villa Opicina dall’altra e poi da lì ci sono le navette che vengono fatte da Adriafer con il porto di Trieste». Che cosa dicono gli operatori? «Stanno sposando questa logica. Da una parte ci sono aree ben infrastrutturate e con spazi ampi, con molti binari, fuori dal porto. Dall’altra i terminal portuali a cui accedono le navi. La logica è utilizzare gli spazi esterni di ottima accessibilità ferroviaria e stradale per diventare buffer che riforniscono l’attività dei terminal portuali. Già oggi a Fernetti facciamo il check-in dei camion turchi che salgono sulle navi. I camion si fermano a Fernetti finché non c’è il semaforo verde dal porto. La stessa logica trasferita in ottica ferroviaria utilizzando gli shuttle di Adriafer, nostra impresa ferroviaria. L’Authority, gestendo anche queste piattaforme, integra tutta l’attività».
Progetti per l’integrazione nell’Authority del porto di Monfalcone?
«L’iter è concluso. Monfalcone ha bisogno di un processo di integrazione della governance, di una mano unica, come si è fatto a Trieste fra porto e retroporto. Con un’ipotesi che va costruita con gli attuali proprietari. Questa frammentarietà nella gestione la pagano gli operatori, che si trovano ad avere aree di enti diversi con tempi di assegnazione diversi e costi diversi».
Che cosa cambia per Trieste con l’acquisto di Un Roro da parte di Dfds?
«Cambia in meglio. Dfds vuole integrare il proprio network del Nord Europa con quello che parte dal porto di Trieste. Dfds vuole integrare il proprio network del Nord Europa con quello che parte dal porto di Trieste. Che è in piena espansione: Un Roro ha appena inaugurato il nuovo terminal ferroviario e si pone come nuovo soggetto nello sviluppo intermodale e ferroviario del porto. Fino a ieri era un soggetto meno dinamico perché aveva vincoli infrastrutturali. Con il nuovo terminal questi vincoli non ci sono più e lo vediamo già. Il Molo V di Un Roro ha avuto crescite incredibili dal punto di vista ferroviario. Ci aspettiamo che si consolidi ancora più e che la fusione non sia soltanto societaria, ma si integri il network intermodale del Nord Europa con quello che c’è a Trieste, sul corridoio con la Turchia».
Per quanto riguarda i passeggeri?
«A Trieste si parla soprattutto di crociere, perché i traghetti sono quasi tutti commerciali. Essendo porto franco abbiamo difficoltà nella gestione operativa di traffici comunitari perché il passeggero scende in porto franco. E’ un problema che avevamo con le vecchie linee come Minoan che non abbiamo più dall’anno scorso. Dovevamo creare corridoi doganali per far transitare i passeggeri. Per le crociere, tifo perché Venezia acquisisca un ruolo che beneficia l’Alto Adriatico. Le sofferenze di Venezia sono di tutti».


Rete Ferroviaria del Porto Franco di Trieste


giovedì 19 luglio 2018

L' EUROPA E' UN' ESPRESSIONE GEOGRAFICA, NON UN SOGGETTO GEOPOLITICO - Dopo l' Incontro Trump - Putin un articolo di Lucio Caracciolo -


Non c’è da stupirsi se, nel loro caloroso incontro di Helsinki, Donald Trump e Vladimir Putin abbiano come d’abitudine trattato gli europei come oggetti e non da coprotagonisti della scena mondiale.
di  (Direttore di Limes)


L’Europa è stata, è, sarà per il tempo prevedibile un’espressione geografica. Peraltro imprecisata,almeno nei suoi confini orientali, che i manuali normalmente assegnano a una modesta catena montuosa interna alla Russia, gli Urali. Non hanno forse torto quei geografi russi che designano il nostro continente, dall’alto del loro immenso spazio, quale “Asia anteriore”.

Di sicuro, l’Europa non è un soggetto geopolitico. Altrettanto certamente l’Unione Europea non è l’Europa – anche se curiosamente per noi italiani sono sinonimi – ma una istituzione che sfugge a ogni classificazione canonica, oggi in profonda crisi di identità e di legittimazione. Non c’è dunque da stupirsi se, nel loro caloroso incontro di Helsinki, Donald Trump e Vladimir Putin abbiano come d’abitudine trattato gli europei come oggetti e non da coprotagonisti della scena mondiale.

Tutto questo può apparirci sgradevole, ma non sorprendente. Da tre generazioni gli italiani sono abituati a mangiare pane ed Europa. Evocata come un altrove vagamente nordico, spesso identificato con la Germania, dal quale dovremmo apprendere le buone maniere, visto che da soli stentiamo a governarci. Nessuno ama le pedagogie permanenti, sanzione della propria inferiorità. Sicché non stupisce se di recente siamo slittati dall’eurofilia ebete all’aspra eurofobia: stando all’Eurobarometro solo croati e cechi gradiscono l’Ue meno di noi. Finché resteremo imprigionati in questo ottovolante di smodate passioni, favorevoli o demonizzanti, capiremo poco del nostro posto in Europa e nel mondo.

Un rapido sguardo al passato ci aiuta a decrittare gli approcci delle maggiori potenze allo spazio veterocontinentale. Tra il 1814 e il 1914 – apertura del Congresso di Vienna e colpi di pistola a Sarajevo – le maggiori potenze europee, all’epoca regine del mondo, seppero concordare un regime geopolitico che per due estesi periodi (1815-54 e 1871-1914) impedì qualsiasi guerra fra loro. All’inizio dello scorso secolo vigeva l’Europa mondiale: persino Stati europei relativamente esigui – dal Portogallo all’Olanda o al Belgio – disponevano di vasti imperi transcontinentali.

In un trentennio (1914-1945) si consumò il suicidio in due tempi dell’egemonia globale europea.Persino Francia e Regno Unito, formalmente fra i vincitori di entrambi i conflitti, ne uscivano con le ossa rotte. Da allora il destino di noi europei non è più, in buona parte, nelle nostre mani.

Per oltre mezzo secolo, dalla sconfitta dell’Asse alla riunificazione della Germania e al crollo dell’Urss (1990-91), la parte prevalente dei paesi europei a occidente della cortina di ferro si incamminò – sotto impulso, guida e tutela americana, codificata nella Nato (1949), dunque come avanguardia dello schieramento antisovietico – verso l’integrazione economica e monetaria (da Roma 1957 a Maastricht 1992). Peraltro incompleta. Regola di tale ingegnosa architettura era il moto perpetuo quale surrogato della meta comune. Bisognava pedalare in sincrono, non importa verso dove: mettersi d’accordo sull’obiettivo finale – federale, confederale o quant’altro risultava e resta impossibile. Finché ci siamo stancati di farlo. Oggi ognuno muove i pedali o azzarda il surplace come crede.

Il principio base delle Comunità poi dell’Unione Europea era e resta peraltro identico a quello dell’Alleanza Atlantica: americani dentro, russi fuori, tedeschi sotto. Dopo il suicidio sovietico e la rinascita della Russia in formato ridotto, l’insieme euroatlantico a guida americana ha assorbito gran parte dell’ex impero di Mosca. Non per caso lo spazio dell’Ue e quello della Nato coincidono quasi perfettamente.

Quanto alla Germania unita, di cui alcuni germanofobi (Thatcher, Mitterrand, Andreotti) temevano dopo il 1990 l’incomprimibile vocazione imperialista, si conferma invece incapace di egemonia. La sua politica economica elevata al grado europeo – una filosofia morale, anche se meno inflessibile di quanto paia – assorbe liquidità dai partner comunitari e vi esporta deflazione: il contrario di quanto seppero fare gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. La sua cultura strategica è nebulosa e reticente. La disponibilità all’uso della forza tuttora limitata, come e più del suo modesto strumento militare. Risultato: né un’Europa tedesca né una Germania europea. L’Europa – qualsiasi cosa si intenda con questo nome – non esprime un egemone interno. Ed è sempre più oggetto di vettori esterni, sui quali non ha controllo: dai flussi migratori alle strategie americane, russe, ormai anche cinesi.

Quanto a Stati Uniti e Russia, i sorrisi e la palese complicità fra Trump e Putin non ingannino. Gli interessi di fondo delle due potenze, alquanto asimmetriche, restano inconciliati. L’establishment politico, militare e amministrativo americano continua a considerare la Russia il nemico per antonomasia. Pur se in meno di trent’anni ha costretto Mosca ad arretrare da Berlino a Sebastopoli (-1717 chilometri), per Washington la Russia resta inaffidabile e minacciosa. Opinione condivisa al cubo dagli Stati euroatlantici che dal Baltico al Mar Nero sono a ridosso della frontiera russa e incitano gli Stati Uniti a consolidare i loro contingenti militari lungo la nuova, mobile linea di faglia. Inoltre, come e più di prima gli Stati Uniti guardano alla Germania come a un competitore e a un potenziale nemico, laddove slittasse troppo, non solo via gas, verso il campo russo, creando in Eurasia un polo di potenza capace di minare il primato a stelle e strisce.

Per i russi, non solo per Putin, la Nato – ovvero l’America in Europa – è spada di Damocle che pende sulla loro testa, pronta a staccarla dal collo. Stretta fra il nemico americano e l’”amico” cinese (Putin amerebbe scambiare i ruoli, ma non può), la Federazione Russa si preoccupa di dividere gli europei fra loro e dagli americani, non diversamente dall’Urss, ma con mezzi assai inferiori.

Certo, né gli americani né i russi hanno interesse a destabilizzare lo spazio europeo oltre il limite di guardia. Solo un pazzo potrebbe immaginare, a Mosca come a Washington, di aver qualcosa da guadagnare da una conflagrazione europea, destinata a involvere in catastrofe globale.

Ma dove siano le “linee rosse” da oltrepassare per evitare un conflitto accidentale, nessuno sembra saperlo con certezza.

Articolo originariamente pubblicato su la Repubblica il 18 luglio 2018.


martedì 17 luglio 2018

IL VERTICE DI HELSINKI È ANDATO MEGLIO A PUTIN - TRUMPUTIN VISTO DAGLI USA e TRUMPUTIN VISTO DALLA RUSSIA - Due articoli di LimesOnLine


1/ TRUMPUTIN VISTO DAGLI USA
[di Dario Fabbri]
Al netto degli annunci fantasiosi di queste ore – per cui ieri sarebbe finita la guerra fredda, oppure sarebbe addirittura cominciato un nuovo ordine mondiale – può essere utile analizzare cosa Donald Trump può aver promesso a Vladimir Putin e cosa può aver ottenuto in cambio. Per stabilire che il summit di Helsinki è stato nettamente più favorevole al leader russo.
Convinto che la Russia non costituisca un problema perché economicamente inconsistente, da tempo Trump vorrebbe utilizzare il Cremlino per contrastare l’espansionismo iraniano in Medio Oriente e incrinare le certezze della Germania, dipendente dagli idrocarburi siberiani. Mentre è meno intenzionato a giocare Mosca contro Pechino, perché la Cina non lo preoccupa sul piano strategico.
Per questo ieri ha probabilmente chiesto a Putin di rinnegare la propria intesa con l’Iran e di distanziarsi da Angela Merkel, pur continuando a rifornire i tedeschi di gas. In cambio avrebbe offerto la sospensione delle sanzioni ai danni di Mosca e la promessa di congelare la questione ucraina – con la Crimea ovviamente destinata a rimanere russa.
Richieste che Putin avrebbe facilmente accolto perché funzionali agli interessi del suo paese, che da sempre riconosce l’Iran come nemico strategico (nonostante il confermato sostegno all’accordo nucleare) e che in questa fase non potrebbe stringere un’alleanza con la Germania nemmeno se volesse (considerata la ritrosia di Berlino).
Il capo del Cremlino sa bene che la Casa Bianca non può incidere sulle penalità imposte alla Russia dal Congresso e che nel lungo periodo gli Stati Uniti proveranno a condurre definitivamente l’Ucraina nel campo occidentale. Ma è altrettanto consapevole che non riceverà dagli americani offerte migliori di questa, peraltro a fronte di nessuno sforzo concreto da parte sua.
Mentre Trump torna da Helsinki con la magra soddisfazione d’essersi misurato con un altro uomo forte del panorama internazionale e d’aver apparentemente sconvolto la politica estera statunitense. Risultati utili a corroborare la sua personale narrazione, ma non paragonabili a quanto può aver incassato il suo interlocutore.

2/ TRUMPUTIN VISTO DALLA RUSSIA
[di Mauro De Bonis]
Su una cosa in Russia sono quasi tutti d’accordo circa l’importanza del vertice di Helsinki tra Putin e Trump: il fatto che ci sia stato. Prova inoppugnabile che Mosca resta attore di prima grandezza nel panorama internazionale, che il suo apporto appare essenziale per lavorare a una stabilità planetaria e che i tentativi di emarginarla per le sue ambizioni e disegni geopolitici sembrano falliti.
Molte le voci caute che, al di là di una vittoria d’immagine assegnata al leader russo durante l’incontro di lunedì, fanno notare come nessun risultato concreto sia stato ottenuto, nessun accordo firmato. Coscienti del peso relativo di cui il leader statunitense dispone in patria per poter decretare l’inizio di una nuova epoca di cooperazione a tutto tondo con la Russia. La quale, per gran parte dell’establishment a stelle e strisce, resta “il” nemico.
Le sanzioni occidentali peseranno sulla Federazione per ancora molto tempo, il Cremlino non rinuncerà al rapporto con una Cina tra le cui braccia è stato spinto da Washington stessa, e non restituirà, come chiarito da Putin, la Crimea. Ma per molta della stampa russa un primo passo è comunque stato fatto. Anche se sarà complicato camminare assieme a un partner mentre questo ti castiga.

lunedì 16 luglio 2018

PERCHÉ LA FRANCIA ATTACCA FINCANTIERI - Le diverse sensibilità di Macron e Salvini non c’entrano nulla. Un articolo di Alessandrfo Aresu per LimesOnLine


Perché la Francia attacca Fincantieri
Il ruolo dell’azienda cantieristica resta al centro delle tensioni tra Roma e Parigi. Le diverse sensibilità di Macron e Salvini non c’entrano nulla.

Nel dibattito per le elezioni presidenziali francesi del 2017, mentre Marine Le Pen lo incalzava con l’accusa di “aver venduto i cantieri dell’Atlantico agli italiani”, Emmanuel Macron rispondeva dichiarandosi estraneo all’operazione e promettendo di difendere in ogni modo gli interessi di Parigi

Il principio pacta sunt servanda, nella prospettiva transalpina, è ovviamente subordinato rispetto alla strategia. Le azioni successive del 2017 hanno confermato la volontà francese di ottenere un accordo in grado di mettere in difficoltà – nel concreto, in minoranza – gli italiani, sgraditi in quanto avversari geopolitici rispetto ai precedenti proprietari coreani finiti in bancarotta. Si spiegano così le notizie, riportate da La Tribune  e amplificate dalla stampa italiana, sui dossier elaborati contro Fincantieri da Adit, società di intelligence economica partecipata dallo Stato francese.

Gli obiettivi ultimi della condotta di Parigi vanno al di là delle diverse sensibilità tra Macron e Salvini.

La strategia per rendere l’Italia subordinata, pur partendo da una posizione di svantaggio, poggia su tre presupposti. Il primo e cruciale elemento è il lungo termine, esplicito nell’accordo: la quota dell’1% in prestito dallo Stato francese che garantisce la maggioranza assoluta di Stx a Fincantieri potrà essere restituita nel 2029 e richiede la verifica di adempimenti nel corso del tempo. In questo monitoraggio, la storica instabilità e litigiosità italiana andrà raffrontata alla forza delle istituzioni francesi.   

Il secondo punto riguarda lo sviluppo della difesa europea: nel corso dei prossimi anni, l’obiettivo francese è inserire l’operazione nel calderone complessivo di questa partita, dove la supremazia militare e nucleare possano garantire il comando di Parigi, salvo improbabili (e sgradite a Washington) fughe della Germania dalla dimensione post-storica in cui abita. A ciò potrà affiancarsi in futuro una mossa francese su Leonardo, in particolare in caso di instabilità di un gruppo che non ha ancora trovato una sua chiara identità.  Il terzo punto, implicito nella prospettiva decennale, è che i francesi non avranno a che fare con Giuseppe Bono per tutta la durata dell’accordo.

Bono, in Fincantieri dal 2002, rappresenta un’eredità positiva della grande impresa partecipata dallo Stato. Si tratta di quell’autonomia manageriale che ha costruito capacità di lungo corso, attraverso mandati molto lunghi in grado di rispondere a un mercato in rapida evoluzione (si pensi, nel suo settore, proprio alla Corea del Sud e alla Cina) al riparo dalla volatilità politica. Nel caso di Telecom, la polverizzazione della nidiata di manager di Ernesto Pascale, figura centrale per la storia delle comunicazioni in Europa e purtroppo dimenticata, è stata una delle cause del declino. Nel caso di Eni ed Enel, parte del successo sta proprio nella capacità di costruire classe dirigente e di realizzare successioni interne. Senza queste caratteristiche essenziali, una grande impresa non può funzionare in uno scacchiere geopolitico.

L’Italia, non avendo una produzione formale di riserve e leve manageriali, corre sempre il rischio di cadere su questo punto e così di indebolire l’interesse nazionale. Secondo Giulio Sapelli, “Giuseppe Bono fa paura ai francesi”; perciò viene attaccato, in termini strumentali e personali. Bono ha lavorato bene, anche grazie a scelte lungimiranti delle istituzioni come la legge navale, per costruire un’azienda italiana scomoda perché “predatore e non preda”. In ogni caso, questo manager di lungo corso non guiderà il gruppo fino al 2029.

La prova del nove dell’interesse nazionale italiano sarà quindi l’unità di intenti in questi anni decisivi, al di là del colore politico, tanto nel presidio delle commesse quanto nella difesa del lavoro di Bono e della sua squadra.