LIMES Oggi a chi è connesso lo scalo di Trieste? È un porto italiano?
D’AGOSTINO Trieste è un porto mitteleuropeo in Italia. Per noi rivestono importanza apicale i collegamenti ferroviari lungo gli assi che conducono in Germania, Austria, Belgio, Lussemburgo, Slovacchia, Repubblica Ceca, in grado di trasportare merci fino in Scandinavia e nel Regno Unito. Stiamo poi studiando l’apertura di tratte per collegarci direttamente con la Polonia e più intensamente con l’Ungheria – pezzo forte degli ultimi anni. Si tratta di economie in sensibile crescita, connesse al resto del mondo, specie all’Asia, in particolare per quanto riguarda le forniture di materie prime, componentistica, semilavorati.
LIMES Spicca nel suo elenco l’assenza dell’Italia.
D’AGOSTINO Il collegamento con l’Italia esiste, verso Padova, Milano, Novara. Ma è questione delicata. Perché se puntiamo a ovest non facciamo concorrenza ai vicini della Mitteleuropa ma ai porti nazionali. La tratta italiana segnala disfunzioni degli altri scali italiani più che costituire un valore aggiunto per Trieste. Significa che qualcosa non funziona a Venezia e a Genova. Noi miriamo anzitutto alle direttrici nordiche e orientali, come testimoniano i traffici ferroviari da e per Trieste.
LIMES Che valore riveste l’oleodotto Transalpino che collega Trieste all’Europa centrale, coprendo il 40% del fabbisogno tedesco (100% di quello di Baviera e Baden-Württemberg), il 50% di quello ceco e il 90% delle importazioni austriache?
D’AGOSTINO Quel tubo simboleggia la nostra competitività logistica. Se riusciamo a portare tanto petrolio in Germania, Austria e Cechia, significa che possiamo essere competitivi anche in altri settori merceologici. L’oleodotto risale agli anni Sessanta. È il frutto delle menti aperte e lungimiranti dell’epoca, a partire da Enrico Mattei: la progettazione dell’oleodotto è difatti molto precedente alla sua realizzazione, ultimata nel 1967.
LIMES Prima dell’ingresso degli amburghesi nel Molo VIII con il 50,1%, in estate c’è stato un tentativo cinese di rientrare nella partita con China Merchants. L’offerta era economicamente molto superiore. Perché è stata rifiutata?
D’AGOSTINO Si è trattato di una proposta giunta a privati, rispetto alla quale il porto è soggetto terzo. Ma è chiaro che in questo momento qualsiasi acquisizione nei comparti strategici deve passare il vaglio del golden power. Questo spiega perché l’iniziativa tedesca è andata a buon fine, diversamente da quella cinese.
LIMES Dunque i calcoli geopolitici hanno prevalso sui criteri commerciali?
D’AGOSTINO Solo in parte, perché la ratio è senz’altro geopolitica ma poi la questione assume rilevanza prettamente economica. Accettare un’offerta pur vantaggiosa nella consapevolezza che questa si arenerà per mesi o addirittura anni, dato il golden power, sarebbe improduttivo. Si tratta di essere pragmatici. L’implicazione è di business.
LIMES Quindi si dà per assodato che le acquisizioni tedesche non incontrino ostacoli?
D’AGOSTINO L’operazione di HHLA potrebbe essere considerata prova della nascente collaborazione fra italiani e tedeschi in materia portuale. Bloccare un’offerta tedesca sarebbe altrettanto significativo per gli equilibri europei del «no» ai cinesi. Anche nel caso degli ungheresi la trafila è stata tutto sommato veloce – stesso attivismo riscontrato per quella in atto inerente il Molo VIII.
LIMES Lei ha da tempo avviato una trattativa con China Communications Construction Company (Cccc) per installare una testa di ponte triestina in Cina, in particolare a Nanchino. A che punto siamo?
D’AGOSTINO È tutto bloccato. Era in agenda una riunione a febbraio che coinvolgeva i cinesi e i maggiori produttori vinicoli del Nord-Est italiano, ma la diffusione dell’epidemia prima nella Repubblica Popolare e poi nel nostro paese ha congelato la trattativa. Stessa sorte toccata ad altre operazioni, come quelle in Slovacchia. Idem riguardo agli investimenti di Cccc nelle nostre reti ferroviarie.
LIMES C’è una clamorosa asimmetria in questi negoziati. In Italia i colossi stranieri, appoggiati o financo controllati dai rispettivi governi, negoziano direttamente con le nostre autorità locali, mosse da legittimi interessi specifici, e con i nostri non colossali privati. Non ci servirebbe una regìa italiana, analoga a quelle altrui?
D’AGOSTINO Decisamente sì. Vale anche per il complesso dei paesi europei. È inconcepibile ed emblematico che non esista sul piano europeo un progetto simile alla Bri cinese. Stiamo parlando di corridoi strategici. Il nostro è un immobilismo deleterio. Dovremmo sì proteggerci, ma pure imparare. Pechino viene criticata, ma non concede prestiti a fondo perduto. Le nuove vie della seta prevedono infatti finanziamenti, anche a tassi elevati. E allora perché non lo facciamo noi? Magari partendo da realtà come Assicurazioni Generali, con appendici sparse nel globo, Hong Kong compresa, che non vogliamo o sappiamo sfruttare. Più che finanziario, il problema è di visione strategica. La Bri è anzitutto un’idea.
Il paradosso per eccellenza in questo senso è il nostro approccio all’Africa. Stigmatizziamo la proiezione della Cina in un continente che noi percepiamo principalmente come fonte di problemi, invece di investire sul suo potenziale dopo un’accurata pianificazione. Non siamo in grado di porci come centro di pensiero strategico, il quale è alla base di qualsivoglia estroflessione su larga scala. Avremo il coordinamento della portualità italiana quando l’Italia avrà una strategia, non viceversa.
LIMES Quali dovrebbero essere le nostre direttrici strategiche?
D’AGOSTINO I porti non sono mere infrastrutture ma centri di competenze, è su queste ultime che urge investire. Siamo divenuti un paese di poeti, santi e – più che navigatori – costruttori. Questi ultimi sono decisivi. Ne è esempio la parabola del ponte Morandi di Genova. A costruzione ultimata, ci si interrogava ancora a chi consegnarlo. Riprova della mancanza di progettualità organizzativa, non solamente infrastrutturale. Gli scali portuali devono assurgere a centri di eccellenza, scommettendo sulla competenza oltre che sul cemento e prevedendo modalità di azione pubblica diverse da quelle oggi consentite per legge. Ci vuole lo Stato, o comunque una mano pubblica. Dovremmo prendere spunto dalla recente acquisizione del Molo VIII a opera di un’azienda della municipalità di Amburgo. In Italia invece si dà per scontato che l’intelligenza sia appannaggio dei privati. Il primo passo consiste quindi nell’operare una rivoluzione concettuale. In assenza di un indirizzo pubblico complessivo partiamo sconfitti, come giustamente sostiene Alessandro Aresu nel suo libro sul capitalismo politico, notando le affinità tra Cina e Usa sotto questo profilo.
Decisiva resta la modesta dimensione delle aziende private italiane rispetto alle controparti estere. Le nostre aziende finiscono così per curare il proprio orticello invece di perseguire anche l’interesse nazionale, codificato in una strategia condivisa. Stato ed enti pubblici come le autorità portuali devono giocare un ruolo incisivo.
Se noi italiani riusciremo a costituirci come centro di intelligenza, oltre che di transito di merci e persone, potremo estrofletterci. Trieste ha già contatti ben avviati in Malaysia, Texas, Grecia, ed è oggetto delle attenzioni di tutti gli altri attori dell’Adriatico.
Insomma: conviene accettare la sfida cinese, iniziando a ragionare al grado europeo, facendo perno sulla rinnovata competitività del nostro mare. In quest’ambito dovremmo proporre un binomio italo-tedesco, per non restare schiacciati dal solito asse tra Parigi e Berlino.
LIMES Quale relazione dovremmo intrattenere con i porti del Nord Europa, nostri concorrenti?
D’AGOSTINO Torniamo alla strategia: dobbiamo iniziare a fare progetti, a ragionare nel medio-lungo periodo. Due anni fa sono stato ospite dell’esecutivo hongkonghese, il quale dispone di un intero dipartimento che studia la Hong Kong del 2050. Fra trent’anni il sistema portuale europeo sarà segnato dall’innalzamento delle acque al Sud e dal progressivo insabbiamento degli scali nordici. Non è un caso che Amburgo si proietti verso il Nord-Est italiano.
Il nostro governo dovrebbe rimboccarsi le maniche e fare leva anche sul previsto cambiamento climatico nelle trattative con i soci nordeuropei. I quali rischiano di perdere tutto nei prossimi decenni e ne sono consapevoli. Invece i dibattiti nostrani sul tema restano centrati sulla narrazione per cui il grosso delle navi aggirerà comunque Suez per approdare nei porti del Nord Europa. Eppure qui i problemi legati all’abbassamento del livello delle acque (anche fluviali) sono palesi, a partire dai porti di Olanda e Germania.
LIMES È più facile negoziare con i tedeschi o con i cinesi? Chi di loro ci conosce meglio? Quanto li conosciamo noi?
D’AGOSTINO Al netto delle differenze interne ai singoli paesi – tra amburghesi e bavaresi, pechinesi o hongkonghesi come tra siciliani e lombardi – i tedeschi sono seri nel lavoro quanto nel divertimento. Sono quadrati, dunque vanno ricambiati con la stessa moneta, ma poi a cena ci si trova bene insieme. Dei cinesi invece serbo due esperienze diametralmente opposte. Cccc è un soggetto tipicamente pechinese, politicamente allineato e di riflesso rigido; non ricordo stimoli particolari allo sviluppo di idee. Le proposte più fantasiose arrivavano da noi, ad esempio quelle relative alle piattaforme in Cina e agli investimenti in Slovacchia. Rispetto a Cccc, China Merchant è molto più business oriented, affidata a manager la cui prima preoccupazione è economica.
Complessivamente, nel quadro dello scontro tra Usa e Cina si poteva presumere l’interesse di Pechino a intestarsi Trieste. Così non è stato. Parimenti, da Napoli la cinese Cosco ha alzato le tende appena i conti non quadravano più, chiamandosi fuori a favore di Msc senza tergiversare. I conti «contano» più di quanto si pensi in queste strategie. Anche per i cinesi, su questo insisto.
LIMES Quanto conta il vostro status di porto franco nelle trattative?
D’AGOSTINO La sua cogenza emerge in ogni negoziato. Tutti ne chiedono la disponibilità. Gli amburghesi della HHLA negherebbero, ma soltanto perché sanno il fatto loro e a suo tempo ad Amburgo hanno ottenuto da Bruxelles condizioni che compensano gli svantaggi derivanti dal mancato utilizzo dello status di porto franco.
È la storia dello scalo giuliano, considerato in Italia uno fra tanti, sebbene meriterebbe particolare attenzione. Anni fa in un convegno a Vienna affermai provocatoriamente che Trieste non è un porto italiano, poiché al contrario della gran parte degli altri scali del paese gode di nodali connessioni ferroviarie e pescaggi da 18 metri. E non lo è neanche tecnicamente, proprio in qualità di porto franco. Ma la consapevolezza della sua rilevanza sta prendendo piede. L’Italia sta mostrando di capire quanto importante sia attivare fino in fondo il porto franco di Trieste.