In questa orazione Qiao annuncia il nuovo pensiero strategico nazionale e definisce di natura economica, non geopolitica, la principale sfida all’ascesa della Repubblica Popolare.
Lo stesso Generale Qiao ha autorizzato Limes a pubblicare il discorso in via esclusiva.
E' lungo ma ne vale la pena perchè è una grande lezione su cosa vuol dire avere una vera strategia globale.
I. LA
CONGIUNTURA GEOPOLITICA CINESE E IL CICLO DEL DOLLARO
Per la
prima volta nella storia, la nascita di un impero finanziario
Esistono certamente compagni, esperti di finanza, che meglio di me
potrebbero parlare di economia. Tuttavia io ho intenzione di affrontare il tema
da un punto di vista meramente strategico. Iniziamo dal principio. Con
l’obiettivo di appropriarsi della leadership geopolitica e valutaria della Gran
Bretagna, nel luglio del 1944 gli Stati Uniti promossero la nascita di tre
sistemi globali: uno eminentemente politico, le Nazioni Unite; un altro
commerciale, il Gatt (successivamente trasformato nel Wto); e uno monetario e
finanziario, il sistema di Bretton Woods. Allora proposero ai paesi del globo
di agganciare le varie monete nazionali al dollaro che, a sua volta, sarebbe
stato agganciato all’oro con un prezzo fisso di convertibilità di 35 dollari
per oncia. Nel tempo il modello di Bretton Woods realizzò la leadership del
biglietto verde, ma proprio la commutabilità aurea, che impediva di stampare
valuta ad libitum, riduceva il margine di manovra della Federal
Reserve.
Peraltro, dopo la seconda guerra mondiale la superpotenza decise
scioccamente di partecipare alla guerra di Corea e a quella del Vietnam,
conflitti finanziariamente assai dispendiosi. In particolare quello vietnamita,
che costò all’erario circa 800 miliardi di dollari. Così se nel 1944 gli Stati Uniti
possedevano circa l’80% delle riserve auree mondiali, nell’agosto del 1971
queste erano scese a circa 880 tonnellate e i guai stavano per cominciare.
Anche a causa delle manovre di alcuni leader internazionali. Come Charles de
Gaulle che, sospettoso della tenuta della divisa Usa, ordinò al ministero delle
Finanze e alla Banca centrale francesi di convertire in oro l’intero portfolio
dacirca 2,3 miliardi di dollari. Molte nazioni emularono l’affondo di de Gaulle
spingendo Washington a un passo dal collasso.
Per questo il 15 agosto il presidente Richard Nixon annunciò la fine del
sistema aureo. Terminavano gli accordi di Bretton Woods e non era chiaro cosa
sarebbe successo. Dopo essere stato usato come moneta di scambio e di riserva
per quasi trent’anni, ora il dollaro non era più agganciato all’oro. Come
misurare il valore delle merci negli scambi bilaterali? Come fidarsi delle
altre valute? Molte nazioni sembravano spaesate. Tra queste Unione Sovietica e
Cina, che si rifiutarono di riconoscere le rispettive monete e continuarono a
usare il dollaro per i loro commerci. Un’inerzia globale che nell’ottobre del
1973 consentì agli americani di imporre la propria volontà ai membri
dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec): da quel momento
la vendita di greggio sarebbe stata effettuata in dollari.
Abbandonato l’oro, la Casa Bianca aveva agganciato la valuta nazionale alla
risorsa energetica strategica per eccellenza. Era una mossa tanto semplice
quanto razionale: giacché ogni nazione necessita di energia e dunque di
petrolio, da quel momento non avrebbe potuto fare a meno del dollaro.
Tramontato il sistema aureo, era quella un’altra svolta nella storia monetaria
del globo, benché all’epoca se ne accorgessero in pochi. Ancora oggi molti
economisti ed esperti di finanza non comprendono che l’evento più rilevante del
XX secolo non è stato né la seconda guerra mondiale, né il crollo dell’Unione
Sovietica, bensì proprio l’abbandono del gold standard. Nasceva
allora l’impero finanziario statunitense che avrebbe attirato al suo interno
l’intera umanità.
Per la prima volta, sostrato di una valuta non era più un metallo prezioso,
ma la credibilità del governo Usa che se ne sarebbe servito per accrescere la
propria influenza e sottrarre ricchezza al resto del mondo. Nel corso dei
secoli gli esseri umani hanno realizzato profitti in molti modi – dalla
manipolazione del tasso di cambio all’utilizzo di oro o argento, fino
all’appropriazione di beni altrui attraverso la guerra – ma d’ora in poi il
dollaro, quale semplice cartamoneta, avrebbe garantito a Washington un rapporto
costi-benefici estremamente vantaggioso. Tuttora la diffusione all’estero del
biglietto verde permette all’America di mantenere sotto controllo il tasso di
inflazione, che altrimenti con la possibilità di creare moneta in quantità
illimitata raggiungerebbe livelli pericolosi. A questa si aggiunge la frugalità
della Federal Reserve, che in cento anni di storia – tra il 1913 e il 2013 – ha
stampato «appena» 10 mila miliardi di dollari, proprio per limitarne il
deprezzamento.
A partire dal 1954, da quando cioè ha coniato la nuova divisa, la Banca
centrale cinese ha emesso invece 120 mila miliardi di yuan, che se convertiti
in dollari a un tasso di cambio del 6,2 equivalgono a 20 mila miliardi. Non una
grandezza esagerata. Pechino incamera un gigantesco volume di dollari che, a
causa dei controlli sul mercato valutario, non possono circolare sul territorio
nazionale ed è dunque costretta a stampare una somma di renminbi corrispondente
a quella della divisa estera. In futuro però, dopo aver ottenuto il profitto
desiderato, gli investimenti stranieri potrebbero volatilizzarsi, lasciando in
circolazione una quantità sproporzionata di yuan. Già adesso Pechino ammette
che sul territorio nazionale è presente gran parte dei 120 mila miliardi di
renminbi stampati. Ecco perché è necessario occuparsi della questione
successiva: l’internazionalizzazione della nostra moneta.
La
relazione tra il ciclo del dollaro e l’economia mondiale
Con la diffusione globale del dollaro la superpotenza s’è liberata
dell’inflazione. Visto che produrre un grande volume di denaro ne causerebbe la
perniciosa svalutazione, essa emette buoni del Tesoro per spingerlo fuori dal
paese. E quando questo rientra in patria attraverso la vendita del debito
inizia un gioco diverso, con gli americani che da una parte producono moneta e
dall’altra ottengono prestiti. In sintesi: fanno soldi con i soldi. Ma se è più
semplice arricchirsi con la finanza piuttosto che con l’economia reale, chi è
disposto a lavorare duramente in industrie dal basso valore aggiunto? Dopo il
15 agosto 1971 gli Stati Uniti hanno gradualmente abbandonato l’economia reale
in favore di quella virtuale e sono diventati una nazione vuota. Nel frattempo
il pil Usa ha raggiunto i 18 mila miliardi di dollari, ma la componente
dell’economia reale non supera i 5 mila miliardi.
Con l’emissione di bond un enorme volume di dollari circolante all’estero
torna nei tre cruciali mercati statunitensi: quello azionario, quello dei futures e
quello del debito. Il flusso di moneta in entrata e in uscita produce profitti
e fa dell’America un impero valutario, oltre che il centro del sistema
finanziario globale. Molti pensavano che con il declino dell’impero britannico
si fosse conclusa l’esperienza colonialista, ma gli Usa utilizzano il dollaro
proprio come malcelato strumento di espansione, controllando le altre economie
e trasformandole in colonie. Esistono numerose nazioni – tra queste la Cina –
che, seppur sovrane e indipendenti, dotate di una costituzione e di un governo,
non riescono ad affrancarsi dal dominio del biglietto verde. La taglia della
loro economia è comunque espressa in dollari e parte della loro ricchezza si
trasferisce negli Stati Uniti attraverso il commercio e il flusso di valuta.
Possiamo comprendere il fenomeno attraverso lo studio del tasso di cambio
del dollaro registrato negli ultimi quarant’anni. Nel 1971 lo sganciamento
dall’oro consentì alla Federal Reserve di stampare liberamente moneta, così la
circolazione del dollaro aumentò e il tasso di cambio rimase basso fino alla
fine degli anni Settanta. Una dinamica senz’altro positiva per l’economia
mondiale, poiché una maggiore disponibilità di dollari si tradusse in un
aumento del flusso di capitali. Invece di restare in loco, gran
parte del denaro si riversò all’estero. Soprattutto in America Latina, dove
stimolò gli investimenti e produsse crescita. Fino al 1979, quando la Fed
chiuse i rubinetti: il dollaro si rafforzò e la liquidità si ridusse
notevolmente, tanto in patria quanto nel resto del globo.
In America Latina gli investimenti diminuirono, la disponibilità
finanziaria si esaurì e l’economia entrò in crisi. Nel continente sudamericano
ogni nazione provò a escogitare un sistema per mettersi in salvo. Anche
l’Argentina, che negli anni Settanta era divenuta, in termini di reddito pro
capite, un’economia sviluppata, ma che con lo scoppio della crisi era stata la
prima nazione a scivolare in recessione. Giunto al potere in seguito a un colpo
di Stato, il generale Leopoldo Galtieri, a totale digiuno di economia, pensò di
risolvere la situazione con la guerra. Mise gli occhi sulle isole Malvine, un
arcipelago posto a 600 chilometri dalle coste argentine e che da quasi duecento
anni con il nome di Falkland Islands appartiene alla corona britannica. Deciso
ad appropriarsi delle isole, Galtieri volle interpellare sul tema l’egemone
continentale. Nel 1982 alcuni collaboratori del generale si incontrarono a
Washington con il presidente Ronald Reagan che, pur consapevole dell’incombenza
della guerra, si limitò a definire la questione un affare tra argentini e
britannici. «Rimaniamo neutrali», annunciò. Galtieri interpretò l’ambiguità di
Reagan come acquiescenza e poco tempo dopo lanciò la campagna delle Malvine che
condusse alla veloce occupazione delle isole. Il popolo argentino festeggiò
l’evento quasi fosse carnevale, ma la mancata accettazione del fait
accompli da parte del primo ministro britannico Margaret Thatcher
costrinse il presidente americano a schierarsi. Reagan si tolse la maschera e
condannò duramente l’aggressione argentina, mentre Londra inviava
nell’Atlantico meridionale la propria flotta che, dopo aver percorso 8 mila
miglia marine, riconquistò le Falklands.
Nel frattempo il dollaro cominciò ad apprezzarsi e un eccezionale numero di
capitali fece ritorno negli Stati Uniti. Lo scoppio della guerra delle Malvine
persuase gli investitori internazionali che l’America Latina era in piena crisi
e nel continente il clima economico si guastò. La Federal Reserve sfruttò il momento
propizio per annunciare un aumento del tasso di interesse che innescò un
massiccio trasferimento di capitali dal Sudamerica verso i tre mercati
statunitensi (debito, futures, azionario). L’infusione di denaro
generò il primo grande boom borsistico dalla fine del gold standard.
Il tasso di cambio del dollaro, che fino ad allora era cresciuto di 60 punti,
aumentò in pochi giorni di 120 punti. I mercati Usa non trattennero la nuova
liquidità, piuttosto aumentarono i profitti acquistando asset di grande valore
proprio in America Latina dove i prezzi erano crollati, saccheggiando
ulteriormente le economie locali.
Se nella storia il fenomeno si fosse registrato una sola volta sarebbe da
considerarsi una rara coincidenza, ma dato che si ripete con straordinaria
puntualità deve trattarsi di un evento artificiale. Eppure al tempo di questo
primo ciclo – dieci anni di dollaro debole e sei anni di dollaro forte – gli
analisti non ne compresero la scientificità. Superata la fase acuta della
depressione latinoamericana, a partire dal 1986 il tasso di cambio del dollaro
cominciò a scendere di nuovo. Neppure le crisi finanziarie giapponese ed
europea riuscirono ad arrestarne la picchiata. Fino a che, dieci anni più
tardi, la divisa tornò ad apprezzarsi nuovamente. Ancora una volta il «dollaro
forte» sarebbe durato circa sei anni.
A metà degli anni Ottanta l’Asia era una regione in grande espansione
economica, con le cosiddette quattro Tigri a dominare la scena. Molti
credevanoche l’inedita prosperità continentale fosse il frutto del duro lavoro,
dell’intelligenza e del senso per gli affari della popolazione locale. In
realtà a stimolare la crescita era stato l’afflusso dei dollari e appena le
economie locali divennero abbastanza prosperose, gli americani pensarono fosse
giunto il momento di raccogliere quanto seminato. Così nel 1997, dopo dieci
anni di dollaro debole, la Federal Reserve tagliò la disponibilità monetaria,
causando un sostanziale apprezzamento della valuta nazionale. Numerose
industrie asiatiche furono colpite dall’improvvisa assenza di liquidità e
alcune non riuscirono a ricapitalizzarsi: erano i segnali del crollo. A
dimostrazione che per causare sconvolgimenti non è necessario fare la guerra,
ma può bastare una manovra finanziaria. Specie se l’obiettivo è appropriarsi di
capitali altrui.
All’epoca centinaia di hedge funds e speculatori del
calibro di George Soros, alla guida del Quantum Fund, cominciarono ad attaccare
come lupi famelici le economie più deboli della regione (tra queste la
Thailandia di cui colpirono duramente la divisa nazionale, il bath). In poco
più di una settimana il contagio si estese gradualmente verso sud (coinvolgendo
la Malesia, l’Indonesia, le Filippine e Singapore) e verso nord, fino alla
Russia. Anche nel caso asiatico gli investitori stabilirono che convenisse
abbandonare il continente e mentre la Fed aumentava i tassi d’interesse,
trasferirono i loro capitali nei mercati statunitensi, che avrebbero vissuto
una nuova stagione rialzista. Come in America Latina, gli Stati Uniti utilizzarono
i risparmi accumulati per comprare asset asiatici a prezzi stracciati, mentre
le economie locali apparivano devastate. Solo la Cina si salvò.
Ora è
il nostro turno
Sei anni più tardi il dollaro tornò debole e, puntuale come la marea, nel
2012 la Federal Reserve ne ha segnalato l’imminente apprezzamento. Nel tempo il
trucco è rimasto lo stesso: provocare crisi regionali a scapito delle nazioni
indigene. Di recente lo abbiamo visto con l’incidente del Cheŏnan (la
nave sudcoreana affondata nel 2010 forse da un missile di P’yŏngyang, n.d.t.);
nella disputa per le isole Diaoyu/Senkaku tra Cina e Giappone; e in quella per
l’isola Huangyan/Scarborough Shoal tra Cina e Filippine. Ma gli Stati Uniti,
che giocavano col fuoco in casa propria, nel 2008 sono stati travolti a loro
volta dalla crisi finanziaria. Ne è conseguito un ritardo nel rafforzamento del
dollaro, mentre gli scontri per Hungyan e le isole Diaoyu non sembrano aver
avuto un rilevante impatto finanziario. Perché tali incidenti sono avvenuti proprio
all’inizio del decennale periodo di debolezza della valuta Usa?
Scrutando gli eventi attraverso il prisma del ciclo del dollaro, teso a
distruggere le economie antagoniste, possiamo stabilire che è giunto il turno
della Cina, da tempo divenuta un magnete per gli investimenti stranieri. La
Repubblica Popolare è più di una nazione: la sua economia è grande quanto
quella dell’America Latina (in termini di pil lo è perfino di più) ed è
pressoché identica a quella dell’intera Asia orientale. Nell’ultimo decennio
l’afflusso di capitali stranieri haconsentito a Pechino di crescere a una
velocità sconvolgente e di diventare la seconda economia del mondo. Nulla di
stupefacente dunque se ora l’egemone globale punta a guastarne il successo.
Per questo a partire dal 2012 si sono susseguite numerose dispute nel Mar
Cinese Meridionale e Orientale, fino allo scontro nel 2014 tra Cina e Vietnam
per la piattaforma petrolifera hd-981 e il costituirsi a Hong Kong del
movimento Occupy Central. Quando nel maggio del 2014 accompagnai a Hong Kong il
generale Liu Yazhou, commissario politico dell’Università nazionale per la
Difesa, la protesta appariva in fermento e sarebbe potuta deflagrare già
allora, ma nulla è accaduto almeno fino ad agosto. Cosa aspettavano i
manifestanti? Proviamo a confrontare la cronologia di Occupy Central con lo
sviluppo di un altro evento: la cadenzata fine del quantitative easing (Qe)
decisa dalla Federal Reserve. Per tutta l’estate la Banca centrale ha mantenuto
il dollaro debole, rendendo inutile l’inizio delle proteste. Solo l’annunciata
fine del Qe nel settembre successivo ha provocato il rafforzamento del
biglietto verde e inaugurato Occupy Central.
La contesa per le isole Diaoyu, per Huangyan, per la piattaforma
petrolifera hd-981, nonché le proteste a Hong Kong, sono quattro eventi
potenzialmente esplosivi. Se anche uno solo di questi deflagrasse, il
subcontinente cinese non apparirebbe più appetibile agli investimenti. Uno
sviluppo che realizzerebbe la strategia di Washington, per cui quando il
dollaro si apprezza una regione del globo deve essere investita dalla crisi.
Questa volta però, la superpotenza si è schiantata contro la forza della Repubblica
Popolare. I cinesi hanno usato il metodo del taijiquan per
sventare ciascuno degli attacchi sferrati nella loro regione, con il risultato
che quanto auspicato dagli americani non si è realizzato. La situazione è
lontana dal punto di rottura e la Fed non può ancora permettersi di alzare i
tassi d’interesse.
Eppure, malgrado le difficoltà, gli Stati Uniti non hanno intenzione di
rinunciare all’impresa. In simultanea con il sostegno fornito a Occupy Central,
hanno cominciato ad agire in altre aree geografiche. A partire dall’Ucraina.
All’inizio del 2014 hanno pensato di colpire il paese guidato da Viktor
Janukovyč, non certamente un modello di efficienza e trasparenza, perché
costituiva un obiettivo facile. Inoltre, un intervento contro Kiev avrebbe
arrestato l’avvicinamento in corso tra Unione Europea e Russia e avrebbe
influito negativamente sul clima per gli investimenti. Di fatto, come prendere
tre piccioni con una fava. Si è verificata così una rivoluzione colorata che si
è spinta perfino oltre gli obiettivi dei suoi ideatori. Putin, l’uomo forte di
Mosca, ha colto l’occasione per riconquistare la Crimea, ma la mossa è servita
agli Stati Uniti per premere sull’Ue e sul Giappone affinché adottassero
sanzioni stringenti contro la Russia, colpendo duramente anche l’economia
europea.
Qual è il senso dell’offensiva americana? Spesso si tende a interpretare
quanto accade soltanto con gli strumenti della geopolitica e non con quelli
della finanza. La crisi ucraina ha provocato un netto deterioramento delle
relazioni tra Russia e Occidente, mentre le sanzioni contro Mosca hanno
rallentato l’afflusso di investimenti verso l’Europa e provocato una massiccia
fuga di capitali. Secondo alcuni rilevamenti, negli ultimi mesi più di mille
miliardi di dollari avrebbero abbandonato il Vecchio Continente. Tuttavia la
duplice offensiva si è dimostrata solo parzialmente efficace. Impossibilitata a
toglierli alla Cina, l’America ha sottratto capitali all’Europa. Questi però si
sono diretti soprattutto verso Hong Kong. È evidente che gli investitori non
credono nella ripresa statunitense e preferiscono affidarsi al Celeste Impero
che, ancorché in frenata, può ancora vantare il più alto tasso di crescita del
mondo.
L’anno scorso il governo di Pechino ha poi annunciato una sinergia tra le
Borse di Shanghai e Hong Kong e gli investitori globali bramano per profittare
della novità. In passato i capitali occidentali non osavano accedere al mercato
azionario cinese, a causa dei severi controlli sugli scambi tra monete e della
difficoltà ad abbandonare il paese. Ma con la creazione della Shanghai and Hong
Kong Markets Communication ora possono investire in entrambi i mercati e
ritirarsi quando vogliono. Non a caso, mentre più di mille miliardi di dollari
si riversavano su Hong Kong, i manifestanti di Occupy Central si rifiutavano di
mollare. Obama intendeva sfruttare fino all’ultimo la sommossa per i suoi
scopi.
La dipendenza assoluta degli Stati Uniti dai flussi internazionali di
capitali risiede nell’abbandono, avvenuto con la fine del gold standard,
della produzione manifatturiera e dell’economia reale. Gli americani
considerano «spazzatura» le imprese che producono beni dal basso valore
aggiunto (sunset industries) e per questo le hanno gradualmente
trasferite nei paesi in via di sviluppo, tra questi la Cina. Se si escludono
industrie high-tech come Ibm, Microsoft ed altre, il governo Usa ha favorito
l’esodo nel settore finanziario del 70% dei posti di lavoro. Divenuto
industrialmente vuoto e privo dell’apporto dell’economia reale, il paese vive
esclusivamente di economia virtuale. Riesce a produrre soldi soltanto con i
capitali stranieri che accedono ai tre mercati interni e poi utilizza i
profitti per spennare il resto del mondo. È questo ormai il suo unico
sostentamento: chiamiamolo pure American way of life. La
superpotenza ha bisogno di assorbire grandi quantità di capitale per sorreggere
l’economia nazionale e mantenere il livello di benessere dei cittadini.
Pertanto chiunque cerchi di interrompere il flusso in questione è da considerarsi
un nemico strategico. Se non comprendiamo questo non possiamo valutare con
lucidità la situazione attuale.
II. A
CHI HA ROVINATO LA FESTA LA RAPIDA ASCESA DELLA CINA?
Perché
la nascita dell’euro scatenò una guerra?
L’euro nacque il primo gennaio del 1999. Tre mesi più tardi, cominciò la
guerra del Kosovo. Molti credettero che gli Stati Uniti e la Nato avessero
unito le forze per combattere il regime serbo di Milošević che, con il massacro
degli albanesi etnici, stava provocando una tragedia umanitaria. Poi, al
termine del conflitto, gli americani ammisero che si era trattato di una
campagna realizzata congiuntamente dalla Cia e dai media occidentali per
colpire Belgrado. Ma la guerra in Kosovo fu realmente combattuta contro la
Jugoslavia? Nei giorni del lancio della moneta unica, gli europei apparivano in
preda all’euforia. Tanto da fissare a 1,07 il cambio con il dollaro e da
partecipare massicciamente alla campagna dei Balcani. Solo quando, dopo 72
giorni di bombardamenti, il regime di Milošević crollò, a Bruxelles compresero
che i conti non tornavano. Durante il conflitto l’euro si era deprezzato del
30%, raggiungendo quota 0,82 dollari. Per questa ragione quattro anni più tardi
Francia e Germania si sarebbero veementemente opposte alla guerra in Iraq.
Sebbene molti analisti sostengano che le democrazie occidentali non si
combattono fra loro, negli ultimi anni si sono registrate numerose guerre
finanziarie ed economiche. Una di queste fu proprio quella del Kosovo, nociva
tanto per la Jugoslavia quanto per l’euro. D’altronde con la sua nascita la
moneta unica aveva rotto l’idillio del dollaro che prima del 1999 rappresentava
l’indiscussa divisa globale, usata per l’80% delle transazioni internazionali
(oggi lo è per il 60%). Con 27 mila miliardi di dollari l’Unione Europea era
divenuta la regione economica più grande del mondo, maggiore della North
American Free Trade Area (24-25 mila miliardi di dollari), ed era inevitabile
che l’euro erodesse di almeno un terzo le transazioni effettuate dal dollaro (attualmente
il 23% degli scambi mondiali avviene nella moneta unica europea). Quando gli
Stati Uniti si accorsero che l’euro minacciava il primato del dollaro era già
troppo tardi. Imparata la lezione, adesso intervengono per annientare
preventivamente qualsiasi avversario.
Cosa
vuole ottenere l’America con il suo ribilanciamento strategico verso
l’Asia-Pacifico?
In questa fase la Cina costituisce il principale avversario della
superpotenza. Gli scontri del 2012 per le isole Diaoyu e Huangyan non sono
altro che gli ultimi tentativi di colpire un potenziale rivale. Entrambi gli
eventi sono avvenuti nell’area geopolitica cinese e, nonostante non siano
riusciti a innescare una fuga di capitali, hanno comunque raggiunto
parzialmente gli obiettivi. Nello specifico hanno nuociuto gravemente al
trattato di libero scambio dell’Asia nordorientale (Northeast Asian Fta). Se
agli inizi del 2012 il negoziato tra Cina, Giappone e Corea del Sud appariva a
un passo dalla conclusione (nell’aprile dello stesso anno Pechino e Tokyo
avevano raggiunto un’intesa preliminare in tema di scambio di yen e buoni del
Tesoro), le successive dispute per le isole hanno reso impraticabili entrambi
gli obiettivi. A distanza di tre anni è stato a malapena completato il
negoziato bilaterale tra Cina e Corea del Sud.
Gli Stati Uniti temono fortemente il Northeast Asian Fta perché questo,
includendo Cina, Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Macao e Taiwan,
diventerebbe con circa 20 mila miliardi di dollari di pil complessivo la terza
area economica del mondo. Non soltanto. In futuro potrebbe inglobare anche
l’area di libero scambio del Sud-Est asiatico e creare così un gigante da oltre
30 mila miliardi di dollari, l’economia più grande del globo. Se poi si
unissero anche l’India, le cinque repubbliche dell’Asia Centrale e il Medio
Oriente, raggiungerebbe i 50 mila miliardi di dollari di pil, più dell’Unione
Europea e del Nafta messe insieme. Come accaduto al dollaro in Nord America e
successivamente nel mondo, lo yuan diventerebbe la valuta utilizzata nelle
transazioni di un immenso mercato comune.
L’internazionalizzazione del renminbi non avrebbe un significato
esclusivamente monetario. Rappresenterebbe anche il volano della politica delle
vie della seta che condurrebbe alla tripartizione tra dollaro, euro e yuan del
primato valutario globale e alla divisione del mondo in tre blocchi
commerciali. Gli americani ne sono perfettamente consapevoli e per questo hanno
premuto su Giappone e Filippine affinché si scontrassero con la Cina. Del resto
se il dollaro coprisse appena un terzo degli scambi globali, come potrebbero
gli Usa mantenere la loro supremazia monetaria? Ancor più importante, come può
una nazione priva di un’economia reale restare leader mondiale se perde
l’egemonia monetaria? Per capire cosa sta succedendo dobbiamo riconoscere che
dietro le recenti difficoltà della Repubblica Popolare si cela la longa
manus di Washington, abituata a pensare nel lungo periodo e ora
impegnata a disinnescare l’insidia cinese. È questa la principale ragione del
perno asiatico, il cui vero obiettivo non è creare un pacifico equilibrio tra
la Cina e le potenze locali, quanto stroncare sul nascere le nostre ambizioni.
III.
SOLDATI AMERICANI COMBATTONO IN NOME DEL DOLLARO
La
guerra irachena e la valuta utilizzata nella vendita del petrolio
Tutti concordano nel sostenere che il potere a stelle e strisce si regge su
tre pilastri: denaro, tecnologia e Forze armate. Adesso però possiamo affermare
che i pilastri sono soltanto quello monetario e quello militare, con il Pentagono
impegnato a sostenere il dollaro. Fare la guerra è assai dispendioso, ma gli
Stati Uniti sono in grado di guadagnare denaro combattendo, indipendentemente
dalle dolorose sconfitte subite di recente.
Ad esempio: perché hanno invaso l’Iraq? Molti risponderebbero «per il
petrolio», ma si sbagliano. Se gli Usa puntavano agli idrocarburi, perché mai
dopo l’invasione del paese non hanno ottenuto neanche una goccia di greggio?
Perché il prezzo al barile passò tra l’inizio e la fine della guerra da 38 a
149 dollari, gravando sulle tasche dei cittadini statunitensi? La ragione è
molto semplice: Iraqi Freedom è stata pensata solo per il biglietto verde. Come
ormai sappiamo, per mantenere la supremazia globale la superpotenza ha bisogno
che il mondo usi la sua valuta. Per raggiungere tale obiettivo nel 1973
l’amministrazione Nixon si dimostrò scaltra nel costringere l’Arabia Saudita e
le principali nazioni dell’Opec a utilizzare il dollaro per la vendita dell’oro
nero. E quando gli Stati Uniti attaccano una nazione produttrice di petrolio,
il prezzo del greggio schizza in alto e con esso anche la domanda globale della
loro divisa. Con la Federal Reserve libera di adottare una politica monetaria
espansiva.
C’è anche un’altra ragione per cui George W. Bush volle la guerra. Saddam
Hussein non sosteneva al-Qā’ida, né nel paese vi era traccia di armi di
distruzione di massa, ma il ra’īs negli anni precedenti aveva
peccato di hybris. In particolare, nel 1999 Saddam aveva annunciato
l’intenzione di vendere in euro gli idrocarburi iracheni. Una decisione presto
emulata dal presidente russo Vladimir Putin, da quello iraniano Mahmud
Ahmadi-Nejad e dal leader venezuelano Hugo Chávez. È proprio questo che irritò
gli americani. Non a caso il primo decreto emesso dal governo di Baghdad nel
dopo invasione stabiliva che l’esportazione del petrolio sarebbe stata
effettuata in dollari.
La
guerra in Afghanistan e il surplus nella bilancia dei pagamenti americana
Se il conflitto in Iraq fu ordito per mantenere il primato del dollaro,
secondo molti osservatori lo stesso non si può dire della guerra in
Afghanistan. Anche perché nel paese dell’Asia centrale non vi sono idrocarburi
e la campagna fu lanciata immediatamente dopo l’11 settembre per punire
al-Qā‘ida e i taliban. Cominciata circa un mese dopo il crollo delle Torri
Gemelle, l’Operazione Enduring Freedom fu realizzata in tutta fretta. Il
Pentagono non poté fare altro che attingere agli arsenali nucleari, rimuovendo
mille testate atomiche dai missili Cruise e rimpiazzandole con testate convenzionali.
Dopo rastrellò altri novecento missili e solo allora poté battere
l’Afghanistan. Questa è la riprova che la preparazione era stata assai carente.
Dunque perché scatenare la guerra tanto velocemente?
All’alba del XXI secolo gli Stati Uniti erano una nazione industrialmente
nulla che per sopravvivere aveva bisogno ogni anno di assorbire dall’estero
circa 700 miliardi di dollari. Gli attentati dell’11 settembre avevano guastato
il clima per gli investimenti come mai accaduto prima e in circa trenta giorni
oltre 300 miliardi di dollari avevano lasciato il paese. Il nocciolo della
questione era fin troppo chiaro: se l’America non era in grado di difendere il
proprio territorio, come poteva garantire la sicurezza finanziaria degli
investitori? La guerra doveva dunque servire a riconquistare la fiducia dei
mercati. E Washington centrò agilmente l’obiettivo. Quando i primi missili
Cruise colpirono Kabul, l’indice Dow Jones guadagnò 600 punti in un solo giorno
e al termine dell’invasione circa 400 miliardi di dollari fecero ritorno negli
Stati Uniti.
Perché
le portaerei saranno sostituite da sistemi globali di attacco rapido
Molti cultori della storia della Marina da guerra si aspettano grandi cose
dalla portaerei cinese Liaoning, giacché una grande nazione deve
necessariamente possederne almeno una. Tuttavia l’economia globale è sempre più
incentrata sulla tecnologia finanziaria e la rilevanza delle portaerei appare
in netto declino. L’impero britannico, che al suo apogeo vendeva manufatti in
cambio di risorse naturali, necessitava di una Marina potente che garantisse la
sicurezza del commercio globale e mantenesse praticabili le vie marittime. Lo
sviluppo delle portaerei ottemperava perfettamente a questa funzione. Allora il
motto era «la logistica è sovrana» e controllare il commercio via mare
significava decidere della ricchezza globale.
Oggi però viviamo in un’èra in cui a regnare sovrano è il denaro.
Centinaia, se non addirittura migliaia di miliardi di capitale si spostano da
un luogo all’altro in pochi secondi con la semplice pressione di un tasto del
computer. La portaerei che solca gli oceani può dominare la logistica, ma priva
della stessa velocità, non è in grado di controllare i trasferimenti di valuta.
Come fare dunque per stare al passo con la direzione, la grandezza e la
velocità di tali flussi alimentati da Internet? Gli americani stanno
sviluppando un sistema globale di attacco rapido che, dotato di testate
balistiche e caccia supersonici cinque o dieci volte più veloci di un missile
Cruise, può colpire qualsiasi luogo in cui si concentrano gli investimenti. Il
Pentagono sostiene di poter realizzare in meno di 28 minuti un attacco militare
in qualsiasi parte del mondo. E appena un missile Usa centra l’obiettivo scatta
puntuale la fuga di capitali. Ecco perché i sistemi globali di attacco rapido
sono destinati a sostituire le portaerei. Certo, le piattaforme marittime
continueranno a proteggere il transito commerciale e a condurre missioni
umanitarie, ma in futuro un armamento sarà valido solo se in grado di incidere
sui flussi di denaro.
IV. LA
AIRSEA BATTLE: IL NODO GORDIANO DEGLI AMERICANI
Nel tentativo di escogitare il sistema più efficace per contrastare la
Cina, di recente il Pentagono ha coniato il concetto di AirSea battle,
che a mio parere rappresenta un ineludibile dilemma. Annunciata al summit
dell’Aeronautica e della Marina Usa del 2010, tale strategia palesa l’attuale
declino delle Forze armate statunitensi. In precedenza la superpotenza era
certa che un attacco condotto simultaneamente dal cielo e dal mare contro la
Repubblica Popolare l’avrebbe posta in una posizione favorevole. Ciò
nonostante, circa quattro anni più tardi la AirSea battle ha
già cambiato nome per trasformarsi in «concetto di comune coinvolgimento
globale e di mobilità congiunta».
Ora Washington afferma che i due rivali non si faranno la guerra per almeno
dieci anni, anche perché studi recenti dedicati allo sviluppo delle Forze
armate cinesi hanno dimostrato che le attuali capacità militari degli Stati
Uniti non bastano per annullare i vantaggi acquisiti da Pechino nella
distruzione dei sistemi spaziali e nell’attacco alle portaerei. Sicché in
questa fase il Pentagono si sta industriando per realizzare un sistema di
combattimento maggiormente sofisticato, che renda possibile un conflitto armato
nel decennio successivo. Uno scenario che potrebbe nonavverarsi e che non
vorremmo affrontare, ma al quale dobbiamo comunque prepararci, sia sul piano
economico che militare.
V. IL
SIGNIFICATO STRATEGICO DELLE VIE DELLA SETA
Occupiamoci della passione degli americani per lo sport. Il pugilato in
particolare riflette l’idea di forza che hanno: attacco frontale, colpi
diretti, movimenti chiari, il knockout che sancisce la
vittoria. Al contrario i cinesi, che apprezzano le sfumature e la sinuosità,
non puntano a stendere l’avversario, quanto a comprenderne e ad annullarne le
mosse. Nella Repubblica Popolare si pratica il taiji, un’arte
nettamente superiore alla boxe. Il modello delle vie della seta riflette questo
approccio. Storicamente è l’ascesa delle grandi potenze a innescare la
globalizzazione: un processo discontinuo, legato a doppio filo all’epopea del
soggetto geopolitico dominante. E se con l’impero romano o con quello Qin la
globalizzazione mantenne un’estensione regionale, fu con la Gran Bretagna che
raggiunse dimensioni realmente universali. Gli Stati Uniti, che si sono
sostituiti al Regno Unito, hanno invece realizzato la globalizzazione del
dollaro, così le vie della seta, piuttosto che segnalare l’integrazione della Cina
in un sistema straniero, rappresenta la fase iniziale di un analogo processo
indipendente. Presto il dollaro andrà in declino e la Repubblica Popolare, in
quanto grande potenza, soppianterà l’egemone con un suo peculiare modello.
Quella delle vie della seta è di gran lunga la migliore strategia
securitaria che Pechino possa adottare contro il ribilanciamento verso Oriente
perseguito dal Pentagono. Qualcuno potrà obiettare che solitamente il
contenimento di un rivale si fa nella sua stessa direzione, ma il modo più
efficace per rispondere al perno asiatico è andare nella direzione opposta.
Ovvero muoversi verso Occidente. Non per evitare il confronto, né per paura.
Quanto per allentare la pressione esercitata su di noi a Oriente. Le vie della
seta rappresentano un progetto composto da priorità diverse. Dal momento che la
nostra Marina è ancora debole, dobbiamo competere via terra, con il continente
come prima direzione d’attacco e i mari come traiettoria secondaria. In tale
contesto l’Esercito cinese, che all’interno del territorio nazionale è di fatto
invincibile, ricoprirà un ruolo cruciale e nostro obiettivo primario sarà
espanderne le capacità di proiezione all’estero.
L’anno scorso ho affrontato questo argomento al Global Times Forum. Ho
spiegato che nello scegliere la Cina come avversario, l’America ha commesso un
grave errore. Soprattutto perché, in vista del futuro, il suo rivale è se
stessa e finirà per autodistruggersi. Non comprende che il capitalismo
finanziario è declinante e che, privilegiando l’economia virtuale, ne ha già
drenato i benefici. Inoltre l’innovazione scientifica e tecnologica, nel cui
ambito la Silicon Valley rimane l’indiscusso leader mondiale, spingerà
all’estremo innovazioni come Internet, big data, cloud che,
assumendo vita propria, si trasformeranno nei principali oppositori del
capitalismo finanziario e annienteranno la superpotenza.
Alcuni segnali sono già visibili. Ad esempio, l’11 novembre 2014, il giorno
che in Cina corrisponde a San Valentino, lo shopping online su Alibaba’s Taobao
ha toccato i 50,7 miliardi di yuan, mentre negli Stati Uniti nei tre giorni
successivi alla festa del ringraziamento si sono registrate vendite online e di
persona per un totale di 40,7 miliardi di yuan. Uno scarto significativo,
ottenuto senza tenere conto di siti quali Netease, Tencent, Jingdong, o degli
incassi dei centri commerciali. È fin troppo chiaro che una nuova èra è
iniziata e che alla Casa Bianca non ne sono consapevoli. Peraltro, su Alibaba
tutti gli acquisti sono stati effettuati attraverso il sistema di pagamento
diretto Alipay: di fatto la moneta è già stata estromessa dalle transazioni.
Che succederà agli Usa, un impero costruito sulla valuta, se il dollaro diventa
inutile? È questa la domanda che dovrebbero porsi i nostri interlocutori.
Anche la stampante 3D rappresenta una svolta e causerà una rivoluzione nel
settore industriale. E se il commercio e i sistemi di produzione si stanno
evolvendo, anche il mondo è destinato a cambiare radicalmente. La storia
dimostra che solo le innovazioni determinano un reale mutamento. Fu ai tempi
dell’imperatore Qin che il popolo cinese, guidato da Chen Sheng e Wu Guang,
cominciò a ribellarsi e in duemila anni di storia si sono registrate decine di
rivolte. Ma benché questi movimenti abbiano prodotto numerosi cambi di regime,
non sono riusciti a trasformare la natura della società rurale, né i sistemi di
produzione o il modo di commerciare.
Lo stesso è accaduto in Occidente con Napoleone, che pur conducendo la
Francia a conquistare l’Europa, una volta sconfitto a Waterloo non poté
impedire il ripristino dell’ancien régime e della società feudale.
Al contrario la rivoluzione industriale, innescata dall’invenzione del motore a
vapore, sconvolse il mondo provocando un aumento della produzione, un surplus
di manufatti e con questi l’avvento del capitale e dei capitalisti.
Oggi proprio con il tramonto delle valute materiali e l’emergere della
stampante 3D l’umanità appare prossima a entrare in una nuova èra. Washington e
Pechino partono pressoché alla pari in tema di Internet, big data e cloud.
Il punto è stabilire chi saprà muoversi meglio in questa nuova fase storica,
anziché prevedere chi riuscirà a sopraffare l’altro. Poiché il suo principale
nemico è se stessa, l’America ha individuato nella Cina il rivale sbagliato.
Eppure non comprende l’errore. È troppo bramosa di mantenere la propria
solitaria leadership e non ha intenzione di condividere la governance mondiale
con le altre nazioni. Mentre affrontare insieme questa nuova epoca, piena di
incognite e di barriere sconosciute, appare del tutto necessario.
(traduzione di Dario Fabbri)
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