Proponiamo ai nostri lettori un articolo sulla situazione italiana di portualità e shipping pubblicato sul n.6 di Limes. L' articolo non tene conto dei recenti sviluppi del Porto Franco Internazionale di Trieste anche in Relazione alle Nuove Vie della Seta.
L’ITALIA DEVE FARSI POTENZA MARITTIMA
Nel Mediterraneo allargato si deciderà la centralità commerciale della Penisola. Eppure, il paese stenta a concepire il bacino in modo strategico. La concorrenza dei porti europei. La sfida della pirateria e delle migrazioni. Un patto del mare per non finire ai margini.
di Luca Sisto e Matteo Pellizzari
1. Quando Nicolas Sarkozy, appena eletto presidente della Repubblica francese, dichiarò che «la Francia è una potenza mediterranea», l’eco delle sue parole non colpì apparentemente la nostra opinione pubblica. Gli osservatori politico-economici ne valutarono la portata in termini di strategia geopolitica e conseguenti contromisure, ma nessuno si soffermò sul significato «marittimo» di tale affermazione. Come se, paradossalmente, la parola «Mediterraneo» potesse ormai fare a meno del mare. È solo un caso? Davvero si può pensare di giocare un ruolo di potenza mediterranea senza essere una potenza marittima? Si può giocare un ruolo di controllo e di potere nell’area, senza partecipare e vincere sulle rotte del trasporto di merci e persone, nei complessi e dinamici mercati dei noli?
Le risposte a queste domande affondano le loro radici in un tempo lontano, un tempo in cui gli arabi chiamarono questo mare al-Baḥr al-Rūmī (il mare dei romani): un mare in bilico tra due oceani e tre continenti, un fitto intreccio di rotte, commerci e guerre che nei millenni ha dato vita a un comune patrimonio genetico mediterraneo. Non solo tempo, ma anche spazio: quello spazio necessario per definirsi un paese marittimo, cioè che ha sbocco al mare. Tale spazio all’Italia non manca, con i suoi quasi 8 mila chilometri di costa (più del subcontinente indiano) attraverso i quali affermare la propria marittimità, nelle sue diverse componenti.
Nell’attuale contesto geopolitico, che vede una rinnovata attenzione alle vicende del Mare nostrumdopo anni di apparente sottovalutazione, risorge l’importanza delle compagnie di navigazione, che da sole muovono – attraverso navi moderne e sempre più grandi – il 90% delle merci mondiali. In una parola: lo shipping, vero motore della globalizzazione, capace di mettere in rete le economie dei mercati, maturi e crescenti, del mondo.
Il nostro viaggio non può che partire dalla nave, infrastruttura mobile che, come l’aereo (per il trasporto passeggeri) e diversamente dalla gomma, dal ferro e dalle condotte, non necessita di strutture su cui scorrere, utilizzando una sorta di autostrada immateriale, con i porti al posto dei caselli. La nave, se presa a unità di misura della nostra «marittimità», ci pone tra le principali flotte (potenze marittime) al mondo: la 3adei grandi paesi riuniti nel G20. Oltre 16,5 milioni di tonnellate di stazza (circa 1.500 unità superiori alle 100gt), con posizioni di assoluto rilievo nei settori più sofisticati: dai ro/ro – le navi dotate di rampe capaci di accogliere e togliere dalla strada fino a duecento tir a viaggio, comparto nel quale siamo leader mondiale – alle navi da crociera, passando per le cosiddette product tankers, navi per il trasporto di prodotti raffinati derivati dal petrolio. Una flotta giovane (il 60% del naviglio ha meno di 10 anni) e tecnologicamente all’avanguardia, risultato dell’opera di specializzazione del naviglio che trova le sue lontane origini nella ricostruzione postbellica: navi da carico generale, navi portarinfuse, navi cisterna, navi passeggeri e miste, mezzi ausiliari eccetera.
A partire dagli anni Sessanta si assiste allo straordinario sviluppo delle navi cisterna, con le superpetroliere (Vlcc e Ulcc) di portata superiore alle 250 mila tonnellate. Le navi sono sempre più grandi e automatizzate, gli equipaggi ridotti nel numero ma maggiormente specializzati. Nel frattempo, come noto, il container rivoluziona il trasporto di merci via mare, mentre fra gli anni Sessanta e Settanta scompaiono i grandi transatlantici di linea, sostituiti da navi da crociera progressivamente avviate a diventare sempre più veri villaggi vacanze. La nave non è più un mezzo di collegamento o di trasporto, ma di divertimento.
A partire dagli anni Ottanta, l’evoluzione della flotta mercantile si consolida e va di pari passo al mutare delle esigenze dell’industria: le navi sono sempre più specializzate in riferimento ai tipi di carico da trasportare. Ma proprio in quegli anni, l’agguerrita competitività sui mari del mondo favorisce la nascita delle cosiddette bandiere ombra (meglio, bandiere di convenienza), che mettono in crisi le flotte battenti le bandiere nazionali degli Stati occidentali. L’Italia ha potuto riconquistare le prime posizioni tra i principali paesi marittimi solo verso la fine degli anni Novanta, grazie all’introduzione di una legge che recepiva le linee guida dell’Unione Europea di fine anni Ottanta per frenare il flagging out e rilanciare lo shippingcontinentale. È stata così rilanciata l’occupazione marittima, ottenendo in cambio alcuni abbattimenti di costo, pur limitati rispetto a quelli ancor più consistenti permessi dalle bandiere di comodo. L’introduzione del Registro internazionale nel 1998 ha consentito di frenare l’emorragia di naviglio e ha addirittura invertito il trend, facendo più che raddoppiare la nostra flotta nel rispetto dei più alti standard di sicurezza (per lavoratori e passeggeri) e ambientali. Parlando di «marittimità» italiana non si può sorvolare sulla figura dell’armatore:
il quale, a dispetto del nome che richiama alla mente qualcosa di bellico, svolge oggi un’attività che nulla ha a che vedere con le armi. Se nell’antichità l’attività dell’armatore era proprio quella di equipaggiare la nave con armi da guerra, con il trascorrere del tempo e il mutare delle condizioni l’armatore è divenuto colui che allestisce la nave, dotandola dell’equipaggio e di tutti i mezzi atti alla navigazione, fornendo le strumentazioni nautiche e curando la manutenzione delle stive, provvedendo alla sistemazione delle cabine per l’equipaggio e ai rifornimenti di carburante, sistemando a bordo i mezzi per movimentare adeguatamente il carico.
Oggi, in uno scenario economico globalizzato che vede una continua evoluzione dei mercati e delle professionalità, la figura dell’armatore si è evoluta in imprenditore che opera a volte lungo tutta la catena logistica, dal mare alla terra, agendo a volte anche come terminalista e tour operator, che investe in infrastrutture tradizionali a terra e in unità specializzate a mare. Nonostante questa evoluzione, l’armatore resta un uomo di mare, a volte ancora iscritto nelle matricole e con libretto di navigazione, che conosce perfettamente la realtà della vita a bordo. Come Ulisse che arma la sua nave in un viaggio di salvezza e di scoperta attraverso il Mediterraneo, evitando tempeste e cercando il giusto approdo, oggi l’imprenditore marittimo affronta le sfide dei mercati in un mare altrettanto difficile. Lo fa grazie a equipaggi professionali molto lontani dall’idea melvilliana del marinaio, garanzia di un trasporto marittimo sicuro ed efficiente. L’elevato livello tecnologico e la grande specializzazione raggiunta dalle navi impone infatti la presenza a bordo di professionisti altamente qualificati, in grado di governare le unità in qualsiasi condizione, e una moderna ed efficiente organizzazione a terra. Circa 60 mila professionisti a bordo della nostra flotta che generano a terra oltre 11 mila posti di lavoro nelle sole società di navigazione.
Se allarghiamo lo sguardo oltre la nave, possiamo osservare un fiorire di attività economiche. Lo confermano i dati dell’ultimo Rapporto dell’economia del mare realizzato dalla Federazione del Mare assieme al Censis, dal quale emerge che il distretto marittimo (armamento, porti, cantieri, logistica, nautica, pesca, agenzie marittime, broker, avvocati marittimisti) contribuisce al prodotto interno lordo nazionale per 31,6 miliardi di euro (2,03%) e dà occupazione a circa il 2% della forza lavoro del paese (471 mila persone fra addetti diretti e indotto).
Altri dati di grande impatto sono il moltiplicatore del reddito, pari a 2,63, e il moltiplicatore dell’occupazione, che è pari a 2,77: 100 euro d’incremento del reddito nell’ambito del distretto marittimo attivano circa 263 euro di reddito nazionale e 100 nuove unità di lavoro del settore attivano 277 unità a livello nazionale. Non a caso si parla di economia del mare (blue economy) in particolare in Italia, dove oltre il 54% del commercio estero (240 milioni di tonnellate) avviene via mare, a fronte del 15% che utilizza la modalità stradale. Siamo un’economia di trasformazione, grande importatrice di materie prime, soprattutto di prodotti energetici, in primis petrolio (la quasi totalità del petrolio importato dall’Italia utilizza la via marittima). Ma siamo anche un mercato che importa prodotti finiti (giocattoli, vestiti, computer e altro) e derrate alimentari: tutte merci che viaggiano sul mare. Limitando lo sguardo al traffico commerciale con i soli paesi extra-Ue, ben l’85% delle merci arriva e parte utilizzando la grande via marittima.
3. Un’importanza fondamentale è ovviamente rivestita dai porti. Nel tempo, da semplici ripari i porti si sono evoluti in realtà sempre più complesse, intorno alle quali sono sorte città economicamente e politicamente importanti (cosiddetti porti città). Oggi sono infrastrutture gestite da sistemi elettronici di smistamento delle merci e collocate fuori dai centri abitati (porti di transhipment), almeno nel caso dei grandi scali del Nord Europa. Nel bacino del Mediterraneo sono presenti entrambe le tipologie portuali: i porti di transhipment dedicati quasi esclusivamente a navi transoceaniche (le navi madre), in cui avviene il trasporto del contenitore che viene successivamente inviato al porto di destinazione tramite una nave di minor tonnellaggio (feeder); e i porti di destinazione finale (spesso porti città).
La seconda categoria è quella più diffusa in Italia, vista la storia bimillenaria della nostra penisola; caratteristica che se da una parte crea ricchezza per il territorio urbano, dall’altra rappresenta un limite all’aumento dei volumi di traffico. Emblematiche al riguardo le statistiche riportate nel Rapporto 2016 della Corte dei conti europea: nel 2012 i tre maggiori porti dell’Ue (Rotterdam, Amburgo e Anversa) hanno movimentato circa il 20% delle merci europee (anche grazie alla loro vicinanza a importanti aree di produzione e consumo nell’Europa nord-occidentale), a fronte del 15% registrato dai nove maggiori porti europei del Mediterraneo. La mancanza di spazi nei porti città è un limite effettivo, soprattutto quando si accompagna a infrastrutture di collegamento inadeguate.
In tal senso la condizione dello storico porto italiano di Genova è indicativa: ancora non si sa la data certa di entrata in funzione del terzo valico dei Giovi, la linea ad alta velocità che consentirà ai porti liguri di collegarsi con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e con il resto d’Europa, trasferendo importanti quote di merci dalla strada alla rotaia. Intanto, la Svizzera ha inaugurato già da un anno il tunnel del Gottardo, con l’obiettivo di far transitare ben 260 treni merci al giorno a una velocità di 100 chilometri l’ora. Senza contare che dal 2020 sarà pienamente operativo il tunnel di 15 chilometri del Monte Ceneri – che velocizzerà ancor più il transito attraverso le Alpi sul corridoio Rotterdam/Genova – e che nel 2025 dovrebbe entrare in funzione la galleria di base del Brennero, ultimo grande collo di bottiglia sul corridoio scandinavo-mediterraneo che collegherà i principali centri urbani e porti della Scandinavia e della Germania settentrionale ai centri industriali della Germania meridionale, dell’Austria e del Nord Italia, fino a raggiungere via mare Malta.
Queste gallerie transalpine rischiano di risucchiare verso nord il traffico merci, collegando i grandi porti del Northern Range a un’area d’influenza sempre più estesa che già oggi comprende gran parte della Pianura Padana. Questo effetto non riguarderà solo la produzione italiana, ma anche le merci internazionali destinate ai mercati del Sud Europa (Italia compresa), nonostante il vantaggio di cinque giorni di navigazione offerto dai porti liguri rispetto al Nord Europa.
Un caso emblematico delle opportunità che stiamo perdendo, destinato tristemente a ripetersi alle condizioni sopradescritte, è rappresentato dalle scelte logistiche di un famoso produttore con stabilimento situato al confine tra Austria e Svizzera, che esporta nel mondo quasi 500 mila container l’anno e che è costretto a distribuire la merce destinata al mercato mediterraneo passando attraverso i porti del Nord Europa, malgrado la riduzione dei tempi offerta dai porti liguri. Certo, questa situazione non può essere imputata esclusivamente alle carenze infrastrutturali; un ruolo non secondario è stato giocato da un’industria per certi versi miope rispetto al ruolo del trasporto e della logistica. Come se l’incontro tra domanda e offerta avvenisse su un piano metafisico, la prima industrializzazione italiana considerava il trasporto della materia prima e del manufatto come un costo da limitare il più possibile, mero ausilio – e a volte ostacolo – all’incontro tra la produzione e il consumo. Lontani dal considerare come valore aggiunto quella che oggi si definisce supply chain, o filiera logistica, i nostri imprenditori non davano peso all’origine e alla modalità di trasporto in entrata e in uscita dagli stabilimenti.
Lo ricorda bene l’economista e armatore Bruno Musso nel suo Il cuore in porto, raccontando l’acceso scambio di vedute negli anni Ottanta con grandi imprenditori italiani indifferenti agli emergenti temi della logistica e felici di utilizzare Rotterdam piuttosto che Genova se più conveniente, senza comprendere che non investire sullo sviluppo di un sistema logistico autonomo avrebbe inciso sulla competitività delle merci italiane, costrette a percorrere oltre 1.200 chilometri per giungere al mare. La porta d’accesso naturale dell’industria italiana al Mediterraneo, peraltro ora in competizione con l’emergente portualità nordafricana e maltese, rischia di non poter più recuperare il divario con i porti nordeuropei, sebbene i fondali naturali (ad esempio quelli di Voltri, capaci di accogliere le classi 15 e 18 mila teu) siano un sogno per Amburgo.
In tale situazione, il paese da qualche tempo sembra aver distolto lo sguardo dall’utentegovernance portuale che sembra emergere dalla recente (e tanto attesa) riforma delle autorità portuali ha definito un nuovo ruolo per l’armatore nell’ambito dei processi strategico-decisionali di sviluppo del porto, collocandolo con gli altri operatori economici all’interno di un partenariato consultivo. Vedere il porto da terra o dal mare può incidere molto sulle scelte, sulla selezione degli investimenti imposta dalla spending review, sulla volontà di far decollare i nostri traffici, a cominciare da quelli mediterranei.
3. Un’importanza fondamentale è ovviamente rivestita dai porti. Nel tempo, da semplici ripari i porti si sono evoluti in realtà sempre più complesse, intorno alle quali sono sorte città economicamente e politicamente importanti (cosiddetti porti città). Oggi sono infrastrutture gestite da sistemi elettronici di smistamento delle merci e collocate fuori dai centri abitati (porti di transhipment), almeno nel caso dei grandi scali del Nord Europa. Nel bacino del Mediterraneo sono presenti entrambe le tipologie portuali: i porti di transhipment dedicati quasi esclusivamente a navi transoceaniche (le navi madre), in cui avviene il trasporto del contenitore che viene successivamente inviato al porto di destinazione tramite una nave di minor tonnellaggio (feeder); e i porti di destinazione finale (spesso porti città).
La seconda categoria è quella più diffusa in Italia, vista la storia bimillenaria della nostra penisola; caratteristica che se da una parte crea ricchezza per il territorio urbano, dall’altra rappresenta un limite all’aumento dei volumi di traffico. Emblematiche al riguardo le statistiche riportate nel Rapporto 2016 della Corte dei conti europea: nel 2012 i tre maggiori porti dell’Ue (Rotterdam, Amburgo e Anversa) hanno movimentato circa il 20% delle merci europee (anche grazie alla loro vicinanza a importanti aree di produzione e consumo nell’Europa nord-occidentale), a fronte del 15% registrato dai nove maggiori porti europei del Mediterraneo. La mancanza di spazi nei porti città è un limite effettivo, soprattutto quando si accompagna a infrastrutture di collegamento inadeguate.
In tal senso la condizione dello storico porto italiano di Genova è indicativa: ancora non si sa la data certa di entrata in funzione del terzo valico dei Giovi, la linea ad alta velocità che consentirà ai porti liguri di collegarsi con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e con il resto d’Europa, trasferendo importanti quote di merci dalla strada alla rotaia. Intanto, la Svizzera ha inaugurato già da un anno il tunnel del Gottardo, con l’obiettivo di far transitare ben 260 treni merci al giorno a una velocità di 100 chilometri l’ora. Senza contare che dal 2020 sarà pienamente operativo il tunnel di 15 chilometri del Monte Ceneri – che velocizzerà ancor più il transito attraverso le Alpi sul corridoio Rotterdam/Genova – e che nel 2025 dovrebbe entrare in funzione la galleria di base del Brennero, ultimo grande collo di bottiglia sul corridoio scandinavo-mediterraneo che collegherà i principali centri urbani e porti della Scandinavia e della Germania settentrionale ai centri industriali della Germania meridionale, dell’Austria e del Nord Italia, fino a raggiungere via mare Malta.
Queste gallerie transalpine rischiano di risucchiare verso nord il traffico merci, collegando i grandi porti del Northern Range a un’area d’influenza sempre più estesa che già oggi comprende gran parte della Pianura Padana. Questo effetto non riguarderà solo la produzione italiana, ma anche le merci internazionali destinate ai mercati del Sud Europa (Italia compresa), nonostante il vantaggio di cinque giorni di navigazione offerto dai porti liguri rispetto al Nord Europa.
Un caso emblematico delle opportunità che stiamo perdendo, destinato tristemente a ripetersi alle condizioni sopradescritte, è rappresentato dalle scelte logistiche di un famoso produttore con stabilimento situato al confine tra Austria e Svizzera, che esporta nel mondo quasi 500 mila container l’anno e che è costretto a distribuire la merce destinata al mercato mediterraneo passando attraverso i porti del Nord Europa, malgrado la riduzione dei tempi offerta dai porti liguri. Certo, questa situazione non può essere imputata esclusivamente alle carenze infrastrutturali; un ruolo non secondario è stato giocato da un’industria per certi versi miope rispetto al ruolo del trasporto e della logistica. Come se l’incontro tra domanda e offerta avvenisse su un piano metafisico, la prima industrializzazione italiana considerava il trasporto della materia prima e del manufatto come un costo da limitare il più possibile, mero ausilio – e a volte ostacolo – all’incontro tra la produzione e il consumo. Lontani dal considerare come valore aggiunto quella che oggi si definisce supply chain, o filiera logistica, i nostri imprenditori non davano peso all’origine e alla modalità di trasporto in entrata e in uscita dagli stabilimenti.
Lo ricorda bene l’economista e armatore Bruno Musso nel suo Il cuore in porto, raccontando l’acceso scambio di vedute negli anni Ottanta con grandi imprenditori italiani indifferenti agli emergenti temi della logistica e felici di utilizzare Rotterdam piuttosto che Genova se più conveniente, senza comprendere che non investire sullo sviluppo di un sistema logistico autonomo avrebbe inciso sulla competitività delle merci italiane, costrette a percorrere oltre 1.200 chilometri per giungere al mare. La porta d’accesso naturale dell’industria italiana al Mediterraneo, peraltro ora in competizione con l’emergente portualità nordafricana e maltese, rischia di non poter più recuperare il divario con i porti nordeuropei, sebbene i fondali naturali (ad esempio quelli di Voltri, capaci di accogliere le classi 15 e 18 mila teu) siano un sogno per Amburgo.
In tale situazione, il paese da qualche tempo sembra aver distolto lo sguardo dall’utente primario del porto: la nave. La nuova architettura della governance portuale che sembra emergere dalla recente (e tanto attesa) riforma delle autorità portuali ha definito un nuovo ruolo per l’armatore nell’ambito dei processi strategico-decisionali di sviluppo del porto, collocandolo con gli altri operatori economici all’interno di un partenariato consultivo. Vedere il porto da terra o dal mare può incidere molto sulle scelte, sulla selezione degli investimenti imposta dalla spending review, sulla volontà di far decollare i nostri traffici, a cominciare da quelli mediterranei.
L’Italia è stata spesso definita una piattaforma logistica naturale posizionata al centro del Mediterraneo, con ciò volendo rimarcare la naturale propensione del nostro paese a fungere da baricentro dei traffici infra-mediterranei, soprattutto delle grandi rotte dall’Estremo Oriente all’Europa. Il Mare nostrumè il crocevia di numerose importanti direttrici di traffico: sebbene rappresenti circa l’1% della superfice marittima mondiale, vi transita circa il 20% del traffico marittimo globale, il 25% dei servizi di linea su container, il 30% dei flussi di petrolio mondiali, il 65% del flusso energetico per i paesi dell’Ue.
La rinnovata attenzione mondiale per questo piccolo specchio d’acqua è ben rappresentata dalla crescita degli investimenti cinesi, passati in poco più di un decennio dai 16,2 miliardi del 2001 ai 185 attuali. Strategicamente indicativi sono gli investimenti nel porto del Pireo, privatizzato nel 2016 in favore di China Cosco Shipping Group, il quarto carrier mondiale alle spalle di Maersk, Msc e Cma-Cgm, nonché leader nel settore dry e liquid bulk. Sembrerebbe chiaro l’obiettivo cinese di fare del Pireo il maggiore hub logistico per il Mediterraneo, forte della vicinanza geografica a Suez (porta d’ingresso dall’Oriente) e con la potenzialità di divenire nel prossimo futuro uno snodo cruciale per il transhipment dei container provenienti dall’Asia. Significativa in tal senso la recente performance del porto, passato nell’ultimo anno dal 93° al 39° posto nella graduatoria mondiale per capacità di movimentazione merci. Al Pireo si aggiunge l’accordo da 3 miliardi di dollari tra Cina e Algeria per lo sviluppo del porto algerino di Šaršāl, che secondo le previsioni del governo algerino movimenterà 35 milioni di tonnellate di merci e 8 milioni di container all’anno entro il 2050.
Tali investimenti, che riguardano anche le vie di collegamento terrestri ai porti, si inseriscono nella più ampio disegno cinese Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta) che prevede ingenti investimenti sulle direttrici terrestre e marittima tra Cina ed Europa: un traffico che attualmente si attesta ad oltre 25 milioni di container/anno. Il piano d’investimento coinvolgerebbe paesi che rappresentano il 55% del pil, il 70% della popolazione e il 75% delle riserve energetiche mondiali. A detta di tutti gli osservatori, esso configura la risposta cinese ai grandi trattati commerciali (Ttp e Ttip) perseguiti dall’amministrazione Obama e sospesi da Trump.
Se da un lato queste iniziative renderanno il Mediterraneo più centrale rispetto al passato, dall’altro rischiano di emarginare definitivamente l’Italia dalle grandi rotte ormai in mano a pochi carriers di livello mondiale. A ciò va aggiunto che, secondo i maggiori analisti, nel breve-medio periodo l’eccesso di offerta di stiva rispetto alla domanda sarà del 20%, con conseguente impennata della concorrenza sul costo per container. Ciò porterà all’esclusione degli scali meno economici ed efficienti dalle grandi rotte «pendulum».
La sorte del sistema portuale italiano, comunque, non dipende esclusivamente dai trafficiprovenienti dalla Cina. L’Italia, con 272 milioni di tonnellate di merci movimentate nel 2015, si conferma il primo paese europeo nei traffici di short sea shipping (le cosiddette autostrade del mare europee) nel Mediterraneo e il terzo in Europa dopo Inghilterra e Norvegia. Tale tipologia di traffico, mutuata dall’esempio italiano delle autostrade del mare, viene adottata con la Decisione 884/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, in cui si definisce lo short sea shipping come «la rete transeuropea che intende concentrare i flussi di merci su itinerari basati sulla logistica marittima in modo da migliorare i collegamenti marittimi esistenti o stabilirne di nuovi, che siano redditizi, regolari e frequenti, per il trasporto di merci tra Stati membri onde ridurre la congestione stradale e/o migliorare l’accessibilità delle regioni e degli Stati insulari e periferici».
Le autostrade del mare rappresentano da anni il fiore all’occhiello del cabotaggio italiano. Grazie a esse si attua il trasferimento modale delle merci dal tutto-strada al combinato marittimo, con benefici per la collettività anche in termini di riduzione dei costi esterni. Il cabotaggio nazionale è operato da industrie armatoriali diversissime tra loro, dallo short sea shipping al bunkeraggio, dal cisterniero ai carichi generali e alla rinfusa, solo per fare qualche esempio. I servizi di cabotaggio (considerati latu sensu), oltre a creare valore aggiunto sul territorio nazionale, rappresentano anche un’importante occasione di lavoro, generando nell’indotto quasi 50 mila occupati e un giro d’affari diretto di quasi 5 miliardi di euro, con ricadute sull’indotto per circa 15 miliardi. Un settore che in molte realtà, come le isole minori con 20 milioni di passeggeri trasportati all’anno, rappresenta un elemento ineludibile della quotidianità sociale.
Alcuni dati sono indicativi in tal senso: Campania e Sicilia movimentano da sole metà dei passeggeri in navigazione nazionale; insieme a Toscana, Sardegna e Calabria, ne movimentano l’86%. Secondo un recente studio pubblicato da Confitarma, a parità di merci e passeggeri trasportati, il maggior costo derivante dall’utilizzo della strada rispetto alla modalità marittima è risultato essere compreso tra il 70 e il 220%. La ferrovia ha costi maggiori della nave, con valori compresi tra il 7% e il 57%. La modalità marittima risulta pertanto la soluzione di trasporto migliore in termini di benefici per la collettività.
Il comparto marittimo è altresì fondamentale nell’assicurare la mobilità di milioni di persone, lavoratori, studenti, turisti e la continuità territoriale delle isole. Quasi 80 milioni sono i passeggeri che si spostano via nave tra i porti italiani, gran parte dei quali (circa 74 milioni) in navigazione nazionale. Per la metà dei passeggeri, soprattutto da e per le isole minori, la nave rappresenta l’unica possibilità di collegamento con il resto del paese.
Anche nell’ambito delle merci le autostrade del mare registrano un grande dinamismo: negli ultimi 10 anni sono passate da circa 650 mila metri lineari di offerta di stiva settimanale a quasi un milione. Si stima che giornalmente circa 80 mila metri lineari di stiva siano occupati da mezzi commerciali che si imbarcano su navi ro/ro (traghetti) sui collegamenti internazionali e nazionali, riducendo il traffico autostradale e contribuendo notevolmente a ridurre l’impatto ambientale e sociale del trasporto merci.
Infine, parlando di turismo che «viene dal mare» per quanto attiene il settore crocieristico il Mediterraneo rappresenta il secondo mercato mondiale dopo quello caraibico. In tale contesto, l’Italia è leader con oltre 11 milioni di crocieristi transitati nei nostri porti, 4,5 miliardi di spese dirette effettuate nel territorio e 103 mila addetti. Civitavecchia con oltre 2,3 milioni di passeggeri si conferma al primo posto in Italia e al secondo nel Mediterraneo dopo Barcellona.
5. La rinnovata centralità del Mediterraneo nelle strategie delle grandi potenze mondiali è anche il risultato del notevole sforzo profuso per la messa in sicurezza della sua porta d’ingresso-uscita orientale. Nei primi anni del nuovo secolo, ha infatti ripreso vigore un fenomeno che fino a quel momento in Occidente era stato relegato alla letteratura e al cinema: la pirateria marittima. La pirateria è sempre esistita e a volte venne utilizzata dagli Stati per combattere le nazioni avversarie: basti pensare che tra il XVI e il XVII secolo la Gran Bretagna veniva definita una nazione di pirati. Questa moderna riproposizione del fenomeno si è manifestata al largo della Somalia, all’imbocco del Mar Rosso, il canale d’ingresso-uscita dal Mediterraneo. Esso rappresenta un grave rischio per l’incolumità degli equipaggi a bordo delle navi che attraversano il Golfo di Aden, l’Oceano Indiano e da qualche tempo anche le acque al largo dell’Africa occidentale. Ma la pirateria rappresenta una grave minaccia anche per l’economia italiana, europea e internazionale, visto che per il Golfo di Aden passa una delle rotte commerciali più importanti tra Estremo Oriente, Europa e Stati Uniti.
L’Italia, consapevole del rischio, ha affiancato le Marine militari internazionali nel contrasto del fenomeno e nel 2011, attraverso una serie di provvedimenti normativi (a partire dalla legge 130 del 2011), ha introdotto la difesa attiva a bordo delle navi italiane. Tale situazione ha obbligato l’Europa, e noi in primis, a ripensare l’idea di Mediterraneo quale mare chiuso, ridefinendo un’area geostrategica denominata Mediterraneo allargato che include Golfo Persico, Mar Nero, Oceano Indiano e coste occidentali africane che insistono sul Golfo di Guinea. Un’area geostrategicamente unitaria sotto il profilo della sicurezza marittima.
Se dunque il Mediterraneo non è più definibile solo nostrum, certamente resta di nostro primario interesse, quindi da tutelare. Da qui l’esigenza di assicurare la libertà e la sicurezza dei traffici marittimi, di preservare l’approvvigionamento energetico nazionale (fondamentali da questo punto di vista la rotta del petrolio dal Golfo via Suez, quella dal Sudafrica e il Golfo di Guinea per il gas) e di non marginalizzare il Mediterraneo.
Ma la minaccia di un Mediterraneo economicamente marginalizzato non è del tutto sventata. Nuovi e rilevanti pericoli derivano dalla crisi migratoria, che obbliga all’allungamento delle rotte, al dispiego di capacità navali nell’area Sud del nostro mare, al fenomeno ormai «sistemico» e non più accidentale dell’organizzazione, anche in capo alla nostra flotta mercantile, del search and rescue. Ne derivano sovraccosti assicurativi, la necessità di impiegare ingenti capitali pubblici e privati per aumentarne i livelli di sicurezza, nonché pesanti ripercussioni sulla libertà dei traffici dovute all’instabilità regionale (dalla Crimea alla Libia). Mare insicuro uguale mare costoso: occorre pertanto evitare che s’inneschi una catena di inefficienze tali da rendere diseconomico il nostro mare.
In questo Mediterraneo allargato, l’Italia è chiamata a superare la classica visione di se stessa come molo d’Europa, in favore di una nuova coscienza delle potenzialità che l’industria marittima nazionale (armamento, cantieristica, portualità, diporto e pesca in primis) può esprimere in termini di forza economica, benessere e occupazione. Se è vero, come qualcuno sostiene, che la storia accelera sempre quando prende la via del mare, la nostra presenza mediterranea dovrà lasciare il porto e riaffrontare con coraggio un nuovo viaggio via mare, necessariamente condiviso. Da qui l’importanza di evitare approcci solipsistici – che in un mondo globalizzato finiscono per ledere competitività e sviluppo nazionali – e di continuare a mettere in sicurezza le rotte dentro e fuori il Mediterraneo, sottolineando la comune appartenenza europea per non marginalizzare l’area.
Viviamo un momento storico che mette in evidenza paradossi e contraddizioni, a cominciare dal fatto di essere i primi armatori mediterranei ma di non avere un ministero della Marina mercantile. La nostra centralità mediterranea ci vedrà protagonisti solo se favoriti e accompagnati dalle amministrazioni coinvolte attraverso un patto del mare, un comune sentimento marittimo che ci consenta di sviluppare le potenzialità e la capacità di chi al nostro mare guarda non solo come meta delle prossime vacanze estive.
Nel Mediterraneo allargato si deciderà la centralità commerciale della Penisola. Eppure, il paese stenta a concepire il bacino in modo strategico. La concorrenza dei porti europei. La sfida della pirateria e delle migrazioni. Un patto del mare per non finire ai margini.
1. Quando Nicolas Sarkozy, appena eletto presidente della Repubblica francese, dichiarò che «la Francia è una potenza mediterranea», l’eco delle sue parole non colpì apparentemente la nostra opinione pubblica. Gli osservatori politico-economici ne valutarono la portata in termini di strategia geopolitica e conseguenti contromisure, ma nessuno si soffermò sul significato «marittimo» di tale affermazione. Come se, paradossalmente, la parola «Mediterraneo» potesse ormai fare a meno del mare. È solo un caso? Davvero si può pensare di giocare un ruolo di potenza mediterranea senza essere una potenza marittima? Si può giocare un ruolo di controllo e di potere nell’area, senza partecipare e vincere sulle rotte del trasporto di merci e persone, nei complessi e dinamici mercati dei noli?
Le risposte a queste domande affondano le loro radici in un tempo lontano, un tempo in cui gli arabi chiamarono questo mare al-Baḥr al-Rūmī (il mare dei romani): un mare in bilico tra due oceani e tre continenti, un fitto intreccio di rotte, commerci e guerre che nei millenni ha dato vita a un comune patrimonio genetico mediterraneo. Non solo tempo, ma anche spazio: quello spazio necessario per definirsi un paese marittimo, cioè che ha sbocco al mare. Tale spazio all’Italia non manca, con i suoi quasi 8 mila chilometri di costa (più del subcontinente indiano) attraverso i quali affermare la propria marittimità, nelle sue diverse componenti.
Nell’attuale contesto geopolitico, che vede una rinnovata attenzione alle vicende del Mare nostrumdopo anni di apparente sottovalutazione, risorge l’importanza delle compagnie di navigazione, che da sole muovono – attraverso navi moderne e sempre più grandi – il 90% delle merci mondiali. In una parola: lo shipping, vero motore della globalizzazione, capace di mettere in rete le economie dei mercati, maturi e crescenti, del mondo.
Il nostro viaggio non può che partire dalla nave, infrastruttura mobile che, come l’aereo (per il trasporto passeggeri) e diversamente dalla gomma, dal ferro e dalle condotte, non necessita di strutture su cui scorrere, utilizzando una sorta di autostrada immateriale, con i porti al posto dei caselli. La nave, se presa a unità di misura della nostra «marittimità», ci pone tra le principali flotte (potenze marittime) al mondo: la 3adei grandi paesi riuniti nel G20. Oltre 16,5 milioni di tonnellate di stazza (circa 1.500 unità superiori alle 100gt), con posizioni di assoluto rilievo nei settori più sofisticati: dai ro/ro – le navi dotate di rampe capaci di accogliere e togliere dalla strada fino a duecento tir a viaggio, comparto nel quale siamo leader mondiale – alle navi da crociera, passando per le cosiddette product tankers, navi per il trasporto di prodotti raffinati derivati dal petrolio. Una flotta giovane (il 60% del naviglio ha meno di 10 anni) e tecnologicamente all’avanguardia, risultato dell’opera di specializzazione del naviglio che trova le sue lontane origini nella ricostruzione postbellica: navi da carico generale, navi portarinfuse, navi cisterna, navi passeggeri e miste, mezzi ausiliari eccetera.
A partire dagli anni Sessanta si assiste allo straordinario sviluppo delle navi cisterna, con le superpetroliere (Vlcc e Ulcc) di portata superiore alle 250 mila tonnellate. Le navi sono sempre più grandi e automatizzate, gli equipaggi ridotti nel numero ma maggiormente specializzati. Nel frattempo, come noto, il container rivoluziona il trasporto di merci via mare, mentre fra gli anni Sessanta e Settanta scompaiono i grandi transatlantici di linea, sostituiti da navi da crociera progressivamente avviate a diventare sempre più veri villaggi vacanze. La nave non è più un mezzo di collegamento o di trasporto, ma di divertimento.
A partire dagli anni Ottanta, l’evoluzione della flotta mercantile si consolida e va di pari passo al mutare delle esigenze dell’industria: le navi sono sempre più specializzate in riferimento ai tipi di carico da trasportare. Ma proprio in quegli anni, l’agguerrita competitività sui mari del mondo favorisce la nascita delle cosiddette bandiere ombra (meglio, bandiere di convenienza), che mettono in crisi le flotte battenti le bandiere nazionali degli Stati occidentali. L’Italia ha potuto riconquistare le prime posizioni tra i principali paesi marittimi solo verso la fine degli anni Novanta, grazie all’introduzione di una legge che recepiva le linee guida dell’Unione Europea di fine anni Ottanta per frenare il flagging out e rilanciare lo shippingcontinentale. È stata così rilanciata l’occupazione marittima, ottenendo in cambio alcuni abbattimenti di costo, pur limitati rispetto a quelli ancor più consistenti permessi dalle bandiere di comodo. L’introduzione del Registro internazionale nel 1998 ha consentito di frenare l’emorragia di naviglio e ha addirittura invertito il trend, facendo più che raddoppiare la nostra flotta nel rispetto dei più alti standard di sicurezza (per lavoratori e passeggeri) e ambientali. Parlando di «marittimità» italiana non si può sorvolare sulla figura dell’armatore:
Oggi, in uno scenario economico globalizzato che vede una continua evoluzione dei mercati e delle professionalità, la figura dell’armatore si è evoluta in imprenditore che opera a volte lungo tutta la catena logistica, dal mare alla terra, agendo a volte anche come terminalista e tour operator, che investe in infrastrutture tradizionali a terra e in unità specializzate a mare. Nonostante questa evoluzione, l’armatore resta un uomo di mare, a volte ancora iscritto nelle matricole e con libretto di navigazione, che conosce perfettamente la realtà della vita a bordo. Come Ulisse che arma la sua nave in un viaggio di salvezza e di scoperta attraverso il Mediterraneo, evitando tempeste e cercando il giusto approdo, oggi l’imprenditore marittimo affronta le sfide dei mercati in un mare altrettanto difficile. Lo fa grazie a equipaggi professionali molto lontani dall’idea melvilliana del marinaio, garanzia di un trasporto marittimo sicuro ed efficiente. L’elevato livello tecnologico e la grande specializzazione raggiunta dalle navi impone infatti la presenza a bordo di professionisti altamente qualificati, in grado di governare le unità in qualsiasi condizione, e una moderna ed efficiente organizzazione a terra. Circa 60 mila professionisti a bordo della nostra flotta che generano a terra oltre 11 mila posti di lavoro nelle sole società di navigazione.
Se allarghiamo lo sguardo oltre la nave, possiamo osservare un fiorire di attività economiche. Lo confermano i dati dell’ultimo Rapporto dell’economia del mare realizzato dalla Federazione del Mare assieme al Censis, dal quale emerge che il distretto marittimo (armamento, porti, cantieri, logistica, nautica, pesca, agenzie marittime, broker, avvocati marittimisti) contribuisce al prodotto interno lordo nazionale per 31,6 miliardi di euro (2,03%) e dà occupazione a circa il 2% della forza lavoro del paese (471 mila persone fra addetti diretti e indotto).
Altri dati di grande impatto sono il moltiplicatore del reddito, pari a 2,63, e il moltiplicatore dell’occupazione, che è pari a 2,77: 100 euro d’incremento del reddito nell’ambito del distretto marittimo attivano circa 263 euro di reddito nazionale e 100 nuove unità di lavoro del settore attivano 277 unità a livello nazionale. Non a caso si parla di economia del mare (blue economy) in particolare in Italia, dove oltre il 54% del commercio estero (240 milioni di tonnellate) avviene via mare, a fronte del 15% che utilizza la modalità stradale. Siamo un’economia di trasformazione, grande importatrice di materie prime, soprattutto di prodotti energetici, in primis petrolio (la quasi totalità del petrolio importato dall’Italia utilizza la via marittima). Ma siamo anche un mercato che importa prodotti finiti (giocattoli, vestiti, computer e altro) e derrate alimentari: tutte merci che viaggiano sul mare. Limitando lo sguardo al traffico commerciale con i soli paesi extra-Ue, ben l’85% delle merci arriva e parte utilizzando la grande via marittima.
3. Un’importanza fondamentale è ovviamente rivestita dai porti. Nel tempo, da semplici ripari i porti si sono evoluti in realtà sempre più complesse, intorno alle quali sono sorte città economicamente e politicamente importanti (cosiddetti porti città). Oggi sono infrastrutture gestite da sistemi elettronici di smistamento delle merci e collocate fuori dai centri abitati (porti di transhipment), almeno nel caso dei grandi scali del Nord Europa. Nel bacino del Mediterraneo sono presenti entrambe le tipologie portuali: i porti di transhipment dedicati quasi esclusivamente a navi transoceaniche (le navi madre), in cui avviene il trasporto del contenitore che viene successivamente inviato al porto di destinazione tramite una nave di minor tonnellaggio (feeder); e i porti di destinazione finale (spesso porti città).
La seconda categoria è quella più diffusa in Italia, vista la storia bimillenaria della nostra penisola; caratteristica che se da una parte crea ricchezza per il territorio urbano, dall’altra rappresenta un limite all’aumento dei volumi di traffico. Emblematiche al riguardo le statistiche riportate nel Rapporto 2016 della Corte dei conti europea: nel 2012 i tre maggiori porti dell’Ue (Rotterdam, Amburgo e Anversa) hanno movimentato circa il 20% delle merci europee (anche grazie alla loro vicinanza a importanti aree di produzione e consumo nell’Europa nord-occidentale), a fronte del 15% registrato dai nove maggiori porti europei del Mediterraneo. La mancanza di spazi nei porti città è un limite effettivo, soprattutto quando si accompagna a infrastrutture di collegamento inadeguate.
In tal senso la condizione dello storico porto italiano di Genova è indicativa: ancora non si sa la data certa di entrata in funzione del terzo valico dei Giovi, la linea ad alta velocità che consentirà ai porti liguri di collegarsi con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e con il resto d’Europa, trasferendo importanti quote di merci dalla strada alla rotaia. Intanto, la Svizzera ha inaugurato già da un anno il tunnel del Gottardo, con l’obiettivo di far transitare ben 260 treni merci al giorno a una velocità di 100 chilometri l’ora. Senza contare che dal 2020 sarà pienamente operativo il tunnel di 15 chilometri del Monte Ceneri – che velocizzerà ancor più il transito attraverso le Alpi sul corridoio Rotterdam/Genova – e che nel 2025 dovrebbe entrare in funzione la galleria di base del Brennero, ultimo grande collo di bottiglia sul corridoio scandinavo-mediterraneo che collegherà i principali centri urbani e porti della Scandinavia e della Germania settentrionale ai centri industriali della Germania meridionale, dell’Austria e del Nord Italia, fino a raggiungere via mare Malta.
Queste gallerie transalpine rischiano di risucchiare verso nord il traffico merci, collegando i grandi porti del Northern Range a un’area d’influenza sempre più estesa che già oggi comprende gran parte della Pianura Padana. Questo effetto non riguarderà solo la produzione italiana, ma anche le merci internazionali destinate ai mercati del Sud Europa (Italia compresa), nonostante il vantaggio di cinque giorni di navigazione offerto dai porti liguri rispetto al Nord Europa.
Un caso emblematico delle opportunità che stiamo perdendo, destinato tristemente a ripetersi alle condizioni sopradescritte, è rappresentato dalle scelte logistiche di un famoso produttore con stabilimento situato al confine tra Austria e Svizzera, che esporta nel mondo quasi 500 mila container l’anno e che è costretto a distribuire la merce destinata al mercato mediterraneo passando attraverso i porti del Nord Europa, malgrado la riduzione dei tempi offerta dai porti liguri. Certo, questa situazione non può essere imputata esclusivamente alle carenze infrastrutturali; un ruolo non secondario è stato giocato da un’industria per certi versi miope rispetto al ruolo del trasporto e della logistica. Come se l’incontro tra domanda e offerta avvenisse su un piano metafisico, la prima industrializzazione italiana considerava il trasporto della materia prima e del manufatto come un costo da limitare il più possibile, mero ausilio – e a volte ostacolo – all’incontro tra la produzione e il consumo. Lontani dal considerare come valore aggiunto quella che oggi si definisce supply chain, o filiera logistica, i nostri imprenditori non davano peso all’origine e alla modalità di trasporto in entrata e in uscita dagli stabilimenti.
Lo ricorda bene l’economista e armatore Bruno Musso nel suo Il cuore in porto, raccontando l’acceso scambio di vedute negli anni Ottanta con grandi imprenditori italiani indifferenti agli emergenti temi della logistica e felici di utilizzare Rotterdam piuttosto che Genova se più conveniente, senza comprendere che non investire sullo sviluppo di un sistema logistico autonomo avrebbe inciso sulla competitività delle merci italiane, costrette a percorrere oltre 1.200 chilometri per giungere al mare. La porta d’accesso naturale dell’industria italiana al Mediterraneo, peraltro ora in competizione con l’emergente portualità nordafricana e maltese, rischia di non poter più recuperare il divario con i porti nordeuropei, sebbene i fondali naturali (ad esempio quelli di Voltri, capaci di accogliere le classi 15 e 18 mila teu) siano un sogno per Amburgo.
In tale situazione, il paese da qualche tempo sembra aver distolto lo sguardo dall’utentegovernance portuale che sembra emergere dalla recente (e tanto attesa) riforma delle autorità portuali ha definito un nuovo ruolo per l’armatore nell’ambito dei processi strategico-decisionali di sviluppo del porto, collocandolo con gli altri operatori economici all’interno di un partenariato consultivo. Vedere il porto da terra o dal mare può incidere molto sulle scelte, sulla selezione degli investimenti imposta dalla spending review, sulla volontà di far decollare i nostri traffici, a cominciare da quelli mediterranei.
3. Un’importanza fondamentale è ovviamente rivestita dai porti. Nel tempo, da semplici ripari i porti si sono evoluti in realtà sempre più complesse, intorno alle quali sono sorte città economicamente e politicamente importanti (cosiddetti porti città). Oggi sono infrastrutture gestite da sistemi elettronici di smistamento delle merci e collocate fuori dai centri abitati (porti di transhipment), almeno nel caso dei grandi scali del Nord Europa. Nel bacino del Mediterraneo sono presenti entrambe le tipologie portuali: i porti di transhipment dedicati quasi esclusivamente a navi transoceaniche (le navi madre), in cui avviene il trasporto del contenitore che viene successivamente inviato al porto di destinazione tramite una nave di minor tonnellaggio (feeder); e i porti di destinazione finale (spesso porti città).
La seconda categoria è quella più diffusa in Italia, vista la storia bimillenaria della nostra penisola; caratteristica che se da una parte crea ricchezza per il territorio urbano, dall’altra rappresenta un limite all’aumento dei volumi di traffico. Emblematiche al riguardo le statistiche riportate nel Rapporto 2016 della Corte dei conti europea: nel 2012 i tre maggiori porti dell’Ue (Rotterdam, Amburgo e Anversa) hanno movimentato circa il 20% delle merci europee (anche grazie alla loro vicinanza a importanti aree di produzione e consumo nell’Europa nord-occidentale), a fronte del 15% registrato dai nove maggiori porti europei del Mediterraneo. La mancanza di spazi nei porti città è un limite effettivo, soprattutto quando si accompagna a infrastrutture di collegamento inadeguate.
In tal senso la condizione dello storico porto italiano di Genova è indicativa: ancora non si sa la data certa di entrata in funzione del terzo valico dei Giovi, la linea ad alta velocità che consentirà ai porti liguri di collegarsi con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e con il resto d’Europa, trasferendo importanti quote di merci dalla strada alla rotaia. Intanto, la Svizzera ha inaugurato già da un anno il tunnel del Gottardo, con l’obiettivo di far transitare ben 260 treni merci al giorno a una velocità di 100 chilometri l’ora. Senza contare che dal 2020 sarà pienamente operativo il tunnel di 15 chilometri del Monte Ceneri – che velocizzerà ancor più il transito attraverso le Alpi sul corridoio Rotterdam/Genova – e che nel 2025 dovrebbe entrare in funzione la galleria di base del Brennero, ultimo grande collo di bottiglia sul corridoio scandinavo-mediterraneo che collegherà i principali centri urbani e porti della Scandinavia e della Germania settentrionale ai centri industriali della Germania meridionale, dell’Austria e del Nord Italia, fino a raggiungere via mare Malta.
Queste gallerie transalpine rischiano di risucchiare verso nord il traffico merci, collegando i grandi porti del Northern Range a un’area d’influenza sempre più estesa che già oggi comprende gran parte della Pianura Padana. Questo effetto non riguarderà solo la produzione italiana, ma anche le merci internazionali destinate ai mercati del Sud Europa (Italia compresa), nonostante il vantaggio di cinque giorni di navigazione offerto dai porti liguri rispetto al Nord Europa.
Un caso emblematico delle opportunità che stiamo perdendo, destinato tristemente a ripetersi alle condizioni sopradescritte, è rappresentato dalle scelte logistiche di un famoso produttore con stabilimento situato al confine tra Austria e Svizzera, che esporta nel mondo quasi 500 mila container l’anno e che è costretto a distribuire la merce destinata al mercato mediterraneo passando attraverso i porti del Nord Europa, malgrado la riduzione dei tempi offerta dai porti liguri. Certo, questa situazione non può essere imputata esclusivamente alle carenze infrastrutturali; un ruolo non secondario è stato giocato da un’industria per certi versi miope rispetto al ruolo del trasporto e della logistica. Come se l’incontro tra domanda e offerta avvenisse su un piano metafisico, la prima industrializzazione italiana considerava il trasporto della materia prima e del manufatto come un costo da limitare il più possibile, mero ausilio – e a volte ostacolo – all’incontro tra la produzione e il consumo. Lontani dal considerare come valore aggiunto quella che oggi si definisce supply chain, o filiera logistica, i nostri imprenditori non davano peso all’origine e alla modalità di trasporto in entrata e in uscita dagli stabilimenti.
Lo ricorda bene l’economista e armatore Bruno Musso nel suo Il cuore in porto, raccontando l’acceso scambio di vedute negli anni Ottanta con grandi imprenditori italiani indifferenti agli emergenti temi della logistica e felici di utilizzare Rotterdam piuttosto che Genova se più conveniente, senza comprendere che non investire sullo sviluppo di un sistema logistico autonomo avrebbe inciso sulla competitività delle merci italiane, costrette a percorrere oltre 1.200 chilometri per giungere al mare. La porta d’accesso naturale dell’industria italiana al Mediterraneo, peraltro ora in competizione con l’emergente portualità nordafricana e maltese, rischia di non poter più recuperare il divario con i porti nordeuropei, sebbene i fondali naturali (ad esempio quelli di Voltri, capaci di accogliere le classi 15 e 18 mila teu) siano un sogno per Amburgo.
In tale situazione, il paese da qualche tempo sembra aver distolto lo sguardo dall’utente primario del porto: la nave. La nuova architettura della governance portuale che sembra emergere dalla recente (e tanto attesa) riforma delle autorità portuali ha definito un nuovo ruolo per l’armatore nell’ambito dei processi strategico-decisionali di sviluppo del porto, collocandolo con gli altri operatori economici all’interno di un partenariato consultivo. Vedere il porto da terra o dal mare può incidere molto sulle scelte, sulla selezione degli investimenti imposta dalla spending review, sulla volontà di far decollare i nostri traffici, a cominciare da quelli mediterranei.
L’Italia è stata spesso definita una piattaforma logistica naturale posizionata al centro del Mediterraneo, con ciò volendo rimarcare la naturale propensione del nostro paese a fungere da baricentro dei traffici infra-mediterranei, soprattutto delle grandi rotte dall’Estremo Oriente all’Europa. Il Mare nostrumè il crocevia di numerose importanti direttrici di traffico: sebbene rappresenti circa l’1% della superfice marittima mondiale, vi transita circa il 20% del traffico marittimo globale, il 25% dei servizi di linea su container, il 30% dei flussi di petrolio mondiali, il 65% del flusso energetico per i paesi dell’Ue.
La rinnovata attenzione mondiale per questo piccolo specchio d’acqua è ben rappresentata dalla crescita degli investimenti cinesi, passati in poco più di un decennio dai 16,2 miliardi del 2001 ai 185 attuali. Strategicamente indicativi sono gli investimenti nel porto del Pireo, privatizzato nel 2016 in favore di China Cosco Shipping Group, il quarto carrier mondiale alle spalle di Maersk, Msc e Cma-Cgm, nonché leader nel settore dry e liquid bulk. Sembrerebbe chiaro l’obiettivo cinese di fare del Pireo il maggiore hub logistico per il Mediterraneo, forte della vicinanza geografica a Suez (porta d’ingresso dall’Oriente) e con la potenzialità di divenire nel prossimo futuro uno snodo cruciale per il transhipment dei container provenienti dall’Asia. Significativa in tal senso la recente performance del porto, passato nell’ultimo anno dal 93° al 39° posto nella graduatoria mondiale per capacità di movimentazione merci. Al Pireo si aggiunge l’accordo da 3 miliardi di dollari tra Cina e Algeria per lo sviluppo del porto algerino di Šaršāl, che secondo le previsioni del governo algerino movimenterà 35 milioni di tonnellate di merci e 8 milioni di container all’anno entro il 2050.
Tali investimenti, che riguardano anche le vie di collegamento terrestri ai porti, si inseriscono nella più ampio disegno cinese Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta) che prevede ingenti investimenti sulle direttrici terrestre e marittima tra Cina ed Europa: un traffico che attualmente si attesta ad oltre 25 milioni di container/anno. Il piano d’investimento coinvolgerebbe paesi che rappresentano il 55% del pil, il 70% della popolazione e il 75% delle riserve energetiche mondiali. A detta di tutti gli osservatori, esso configura la risposta cinese ai grandi trattati commerciali (Ttp e Ttip) perseguiti dall’amministrazione Obama e sospesi da Trump.
Se da un lato queste iniziative renderanno il Mediterraneo più centrale rispetto al passato, dall’altro rischiano di emarginare definitivamente l’Italia dalle grandi rotte ormai in mano a pochi carriers di livello mondiale. A ciò va aggiunto che, secondo i maggiori analisti, nel breve-medio periodo l’eccesso di offerta di stiva rispetto alla domanda sarà del 20%, con conseguente impennata della concorrenza sul costo per container. Ciò porterà all’esclusione degli scali meno economici ed efficienti dalle grandi rotte «pendulum».
La sorte del sistema portuale italiano, comunque, non dipende esclusivamente dai trafficiprovenienti dalla Cina. L’Italia, con 272 milioni di tonnellate di merci movimentate nel 2015, si conferma il primo paese europeo nei traffici di short sea shipping (le cosiddette autostrade del mare europee) nel Mediterraneo e il terzo in Europa dopo Inghilterra e Norvegia. Tale tipologia di traffico, mutuata dall’esempio italiano delle autostrade del mare, viene adottata con la Decisione 884/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, in cui si definisce lo short sea shipping come «la rete transeuropea che intende concentrare i flussi di merci su itinerari basati sulla logistica marittima in modo da migliorare i collegamenti marittimi esistenti o stabilirne di nuovi, che siano redditizi, regolari e frequenti, per il trasporto di merci tra Stati membri onde ridurre la congestione stradale e/o migliorare l’accessibilità delle regioni e degli Stati insulari e periferici».
Le autostrade del mare rappresentano da anni il fiore all’occhiello del cabotaggio italiano. Grazie a esse si attua il trasferimento modale delle merci dal tutto-strada al combinato marittimo, con benefici per la collettività anche in termini di riduzione dei costi esterni. Il cabotaggio nazionale è operato da industrie armatoriali diversissime tra loro, dallo short sea shipping al bunkeraggio, dal cisterniero ai carichi generali e alla rinfusa, solo per fare qualche esempio. I servizi di cabotaggio (considerati latu sensu), oltre a creare valore aggiunto sul territorio nazionale, rappresentano anche un’importante occasione di lavoro, generando nell’indotto quasi 50 mila occupati e un giro d’affari diretto di quasi 5 miliardi di euro, con ricadute sull’indotto per circa 15 miliardi. Un settore che in molte realtà, come le isole minori con 20 milioni di passeggeri trasportati all’anno, rappresenta un elemento ineludibile della quotidianità sociale.
Alcuni dati sono indicativi in tal senso: Campania e Sicilia movimentano da sole metà dei passeggeri in navigazione nazionale; insieme a Toscana, Sardegna e Calabria, ne movimentano l’86%. Secondo un recente studio pubblicato da Confitarma, a parità di merci e passeggeri trasportati, il maggior costo derivante dall’utilizzo della strada rispetto alla modalità marittima è risultato essere compreso tra il 70 e il 220%. La ferrovia ha costi maggiori della nave, con valori compresi tra il 7% e il 57%. La modalità marittima risulta pertanto la soluzione di trasporto migliore in termini di benefici per la collettività.
Il comparto marittimo è altresì fondamentale nell’assicurare la mobilità di milioni di persone, lavoratori, studenti, turisti e la continuità territoriale delle isole. Quasi 80 milioni sono i passeggeri che si spostano via nave tra i porti italiani, gran parte dei quali (circa 74 milioni) in navigazione nazionale. Per la metà dei passeggeri, soprattutto da e per le isole minori, la nave rappresenta l’unica possibilità di collegamento con il resto del paese.
Anche nell’ambito delle merci le autostrade del mare registrano un grande dinamismo: negli ultimi 10 anni sono passate da circa 650 mila metri lineari di offerta di stiva settimanale a quasi un milione. Si stima che giornalmente circa 80 mila metri lineari di stiva siano occupati da mezzi commerciali che si imbarcano su navi ro/ro (traghetti) sui collegamenti internazionali e nazionali, riducendo il traffico autostradale e contribuendo notevolmente a ridurre l’impatto ambientale e sociale del trasporto merci.
Infine, parlando di turismo che «viene dal mare» per quanto attiene il settore crocieristico il Mediterraneo rappresenta il secondo mercato mondiale dopo quello caraibico. In tale contesto, l’Italia è leader con oltre 11 milioni di crocieristi transitati nei nostri porti, 4,5 miliardi di spese dirette effettuate nel territorio e 103 mila addetti. Civitavecchia con oltre 2,3 milioni di passeggeri si conferma al primo posto in Italia e al secondo nel Mediterraneo dopo Barcellona.
5. La rinnovata centralità del Mediterraneo nelle strategie delle grandi potenze mondiali è anche il risultato del notevole sforzo profuso per la messa in sicurezza della sua porta d’ingresso-uscita orientale. Nei primi anni del nuovo secolo, ha infatti ripreso vigore un fenomeno che fino a quel momento in Occidente era stato relegato alla letteratura e al cinema: la pirateria marittima. La pirateria è sempre esistita e a volte venne utilizzata dagli Stati per combattere le nazioni avversarie: basti pensare che tra il XVI e il XVII secolo la Gran Bretagna veniva definita una nazione di pirati. Questa moderna riproposizione del fenomeno si è manifestata al largo della Somalia, all’imbocco del Mar Rosso, il canale d’ingresso-uscita dal Mediterraneo. Esso rappresenta un grave rischio per l’incolumità degli equipaggi a bordo delle navi che attraversano il Golfo di Aden, l’Oceano Indiano e da qualche tempo anche le acque al largo dell’Africa occidentale. Ma la pirateria rappresenta una grave minaccia anche per l’economia italiana, europea e internazionale, visto che per il Golfo di Aden passa una delle rotte commerciali più importanti tra Estremo Oriente, Europa e Stati Uniti.
L’Italia, consapevole del rischio, ha affiancato le Marine militari internazionali nel contrasto del fenomeno e nel 2011, attraverso una serie di provvedimenti normativi (a partire dalla legge 130 del 2011), ha introdotto la difesa attiva a bordo delle navi italiane. Tale situazione ha obbligato l’Europa, e noi in primis, a ripensare l’idea di Mediterraneo quale mare chiuso, ridefinendo un’area geostrategica denominata Mediterraneo allargato che include Golfo Persico, Mar Nero, Oceano Indiano e coste occidentali africane che insistono sul Golfo di Guinea. Un’area geostrategicamente unitaria sotto il profilo della sicurezza marittima.
Se dunque il Mediterraneo non è più definibile solo nostrum, certamente resta di nostro primario interesse, quindi da tutelare. Da qui l’esigenza di assicurare la libertà e la sicurezza dei traffici marittimi, di preservare l’approvvigionamento energetico nazionale (fondamentali da questo punto di vista la rotta del petrolio dal Golfo via Suez, quella dal Sudafrica e il Golfo di Guinea per il gas) e di non marginalizzare il Mediterraneo.
Ma la minaccia di un Mediterraneo economicamente marginalizzato non è del tutto sventata. Nuovi e rilevanti pericoli derivano dalla crisi migratoria, che obbliga all’allungamento delle rotte, al dispiego di capacità navali nell’area Sud del nostro mare, al fenomeno ormai «sistemico» e non più accidentale dell’organizzazione, anche in capo alla nostra flotta mercantile, del search and rescue. Ne derivano sovraccosti assicurativi, la necessità di impiegare ingenti capitali pubblici e privati per aumentarne i livelli di sicurezza, nonché pesanti ripercussioni sulla libertà dei traffici dovute all’instabilità regionale (dalla Crimea alla Libia). Mare insicuro uguale mare costoso: occorre pertanto evitare che s’inneschi una catena di inefficienze tali da rendere diseconomico il nostro mare.
In questo Mediterraneo allargato, l’Italia è chiamata a superare la classica visione di se stessa come molo d’Europa, in favore di una nuova coscienza delle potenzialità che l’industria marittima nazionale (armamento, cantieristica, portualità, diporto e pesca in primis) può esprimere in termini di forza economica, benessere e occupazione. Se è vero, come qualcuno sostiene, che la storia accelera sempre quando prende la via del mare, la nostra presenza mediterranea dovrà lasciare il porto e riaffrontare con coraggio un nuovo viaggio via mare, necessariamente condiviso. Da qui l’importanza di evitare approcci solipsistici – che in un mondo globalizzato finiscono per ledere competitività e sviluppo nazionali – e di continuare a mettere in sicurezza le rotte dentro e fuori il Mediterraneo, sottolineando la comune appartenenza europea per non marginalizzare l’area.
Viviamo un momento storico che mette in evidenza paradossi e contraddizioni, a cominciare dal fatto di essere i primi armatori mediterranei ma di non avere un ministero della Marina mercantile. La nostra centralità mediterranea ci vedrà protagonisti solo se favoriti e accompagnati dalle amministrazioni coinvolte attraverso un patto del mare, un comune sentimento marittimo che ci consenta di sviluppare le potenzialità e la capacità di chi al nostro mare guarda non solo come meta delle prossime vacanze estive.
Opportunità per la Portualità Italiana offerte dalle nuove Vie della Seta.
RispondiEliminaPenso che il futuro della Portualità Italiana sarà problematico ed incerto se non sarà in grado di rendere più competitivi per costi/servizi i suoi Scali cercando anche di eliminare il notevole gap tecnologico/infrastrutturale che da parecchi decenni scontiamo nei confronti della super attrezzata Portualità Nord Europea "costantemente ed invidiabilmente sempre impegnata nel potenziamento dei loro Scali". Per guardare serenamente al futuro dobbiamo al più presto potenziare ed automatizzare l'operatività dei nostri strategicamente più importanti sbocchi al mare, pianificando e realizzando un'insieme di significative nuove opere che si caratterizzino sia per dimensioni che per potenzialità, per consentirci di ammodernare le attuali modeste ed in buona parte alquanto vetuste infrastrutture ed attrezzamenti di banchine e piazzali, nuovi consistenti ed indispensabili investimenti che dovrebbero chiaramente interessare non solo i Porti ma anche i collegamenti gomma/rotaia, il tutto per poter significatamente migliorare e velocizzare la Logistica di Porto e Retroporto ed ottimizzare quindi il servizio reso alle merci in transito.
Soltanto se saremo in grado di mettere in campo ingenti finanziamenti Pubblici e Privati "per ammodernare le nostre infrastrutture" saremo in grado di scalfire almeno in parte l'attuale strapotere della Portualità Nord Europea e quindi coronare quello che è stato sempre un nostro sogno "spostare un po' più a Sud il baricentro del Sistema Trasportistico Comunitario" ed assumere quindi un ruolo rilevante nella gestione dell'Interscambio Merceologico Euro Asiatico e creare le condizioni ideali per poter sfruttare a dovere sia i nostri profondi fondali che le enormi potenzialità del Corridoio Baltico sia per gli sbocchi al mare dell'Adriatico che per quelli del Tirreno.
Per concludere penso che se in tema di nuove Infrastrutture noi rimarremmo ancora fermi al palo, o sfruttando la Rotta Artica oppure il Canale di Suez la parte del leone nella gestione dei flussi merceologici relativi all'interscambio merceologico Euro Asiatico la faranno sempre e comunque sia Rotterdam che tutta la Portualità del Nord Europea, poiché soltanto nella mitologia il piccolo Davide sconfigge il gigante Golia ma quella è ribadisco mitologia e non certamente la realtà.
BRUNELLO ZANITTI Giuliano
Riflessioni tratte dal mio Sito >>> http://sceltemancate.trieste.it