Venerdì 27 ottobre può ben dirsi il giorno in cui si è chiusa una fase della questione catalana: il Parlamento di Barcellona ha votato l’indipendenza e proclamato la repubblica. Contestualmente, il governo spagnolo ha posto in essere – dopo il voto favorevole del Senato – il controllo diretto sulla Comunità autonoma previsto dall’articolo 155 della Costituzione, sospendendone le prerogative di autogoverno. La protagonista della repressione da parte delle forze di polizia spagnole nel giorno del referendum, la vicepremier Soraya Saenz de Santamaría, è stata incaricata di svolgere le funzioni del deposto presidente della Generalitat Carles Puigdemont e di normalizzare la situazione per arrivare a nuove elezioni nella Comunità, il 21 dicembre prossimo. Ma ora, mentre gli unionisti catalani scendono in piazza (“Essere catalani è un orgoglio, essere spagnoli un onore” e gli indipendentisti proclamano la via nonviolenta all’autonomia, il confronto si sposta nella società, nella vita di tutti i giorni: chi vincerà?
Per 90 minuti, intanto, la sfida si è spostata su un campo di calcio, dove la squadra catalana del Girona – di cui è tifoso Puigdemont – ha battuto il blasonato Real Madrid che porta le effigie della Corona di Spagna: “Un esempio, un riferimento per molte situazioni”, ha twittato il leader indipendentista.
La sfida della mobilitazione
È chiaro che l’appello dei principali leader indipendentisti (politico-istituzionali, come Puigdemont e il suo vice Oriol Junqueras, e della società civile, come i ‘due Jordi’, Cuixart e Sánchez, alla guida delle due più importanti realtà indipendentiste della società civile catalana, Omnium Cultural e Assemblea Nacional Catalana) a reagire pacificamente, con atteggiamenti di resistenza passiva, intende raccogliere la solidarietà dei tanti che, pur non essendo favorevoli alla secessione, non tollerano l’uso della polizia e dell’esercito da parte di Madrid.
È chiaro che l’appello dei principali leader indipendentisti (politico-istituzionali, come Puigdemont e il suo vice Oriol Junqueras, e della società civile, come i ‘due Jordi’, Cuixart e Sánchez, alla guida delle due più importanti realtà indipendentiste della società civile catalana, Omnium Cultural e Assemblea Nacional Catalana) a reagire pacificamente, con atteggiamenti di resistenza passiva, intende raccogliere la solidarietà dei tanti che, pur non essendo favorevoli alla secessione, non tollerano l’uso della polizia e dell’esercito da parte di Madrid.
D’altro lato, c’è una parte importante della società spagnola – e un pezzo non indifferente della società catalana, che si riferisce in generale agli ambienti popolari e di Ciutadans, l’equivalente catalano dei liberaldemocratici di Ciudadanos – che invoca l’intervento anche della forza per ristabilire l’ordine. Queste due opposte fazioni, da qui al 21 dicembre, tenteranno di mobilitare le proprie forze e coinvolgere il più possibile quella zona mediana, centrale del panorama sociale e culturale catalano, che è rimasta nel mezzo, schiacciata dalle ali estreme.
Tuttavia, mentre da Madrid garantiscono che Puigdemont potrà partecipare alle consultazioni (se non sarà in carcere) e da Barcellona che occorre “andare avanti, senza mai rinunciare al voto”, un dato sembra certo: sarà difficile tornare allo status quo, dopo una mobilitazione indipendentista di questo genere. Un ritorno alla normalità non potrà prescindere da una trattativa sullo stato delle autonomie in Spagna, sempre in bilico tra Spagna centralista e Spagna “plurale”.
Alle origini della desconneccio’
Nel 1978, la Spagna post-franchista si diede un assetto di avanzato regionalismo, con riconoscimento delle nazionalità locali e statuti di autonomia negoziati ognuno bilateralmente col governo centrale. È la transizione pattata, che permise alla Spagna di uscire dalla dittatura senza conflitti civili, ma lasciando una porzione importante di memoria non condivisa soprattutto in regioni come la Catalogna, decisamente represse durante il franchismo.
Nel 1978, la Spagna post-franchista si diede un assetto di avanzato regionalismo, con riconoscimento delle nazionalità locali e statuti di autonomia negoziati ognuno bilateralmente col governo centrale. È la transizione pattata, che permise alla Spagna di uscire dalla dittatura senza conflitti civili, ma lasciando una porzione importante di memoria non condivisa soprattutto in regioni come la Catalogna, decisamente represse durante il franchismo.
Ha origine in questo passaggio, sebbene rimasto sotto traccia per molti anni, la mobilitazione repubblicana riesplosa in questo periodo in Catalogna. Un leader, Jordi Pujol, e una formazione, la coalizione Convergència i Unio’, per un quarto di secolo sono stati in grado di proporre la Catalogna come il migliore esempio dell’autonomia in Spagna: orgogliosi autonomisti, ma dentro il sistema, capaci di confermarsi la regione più ricca del Paese e tra le più sviluppate d’Europa. Poi si è tornati a parlare di riforma degli statuti regionali, con l’inedito compromesso tra il blocco moderato catalano (guidato da Artur Mas, successore di Pujol) e il governo socialista guidato da José Luis Rodrigues Zapatero che spianò la strada per il riconoscimento di una serie di tradizionali elementi di rivendicazione autonomistica. Fra questi, il riconoscimento che la Catalogna è una “nazione” (nel rispetto di un sentimento diffuso, riferimento inserito nel preambolo del nuovo statuto) e di “diritti storici” della Catalogna (fino a quel momento riconosciuti implicitamente solo alle regioni di tradizione foralista, la Navarra e i Paesi baschi), ancor maggiore autonomia di gestione finanziaria, fiscale e tributaria.
Il piano del nuovo Estatut fu approvato dal Parlament della Catalogna nel settembre 2005, emendato e ratificato dall’assemblea di Madrid nel maggio 2006 e posto al voto per referendum regionale il mese successivo, quando i 2/3 dei votanti (presenti alle urne solo con un avente diritto su due) votarono sì al nuovo testo. L’opposizione dichiarata a questo impianto da parte degli ambienti più legati all’idea di una Spagna centralista (in particolare del Partito popolare, che raccolse milioni di firme contro il nuovo statuto) lasciò sul tavolo la questione politica, mentre con la crisi del debito pubblico e il cambio al governo si riaprì la partita anche e soprattutto a livello di Tribunale costituzionale.
Qui, la decisione di incostituzionalità pronunciata nel 2010 sugli articoli più importanti – dal punto di vista simbolico e amministrativo – fu il punto di svolta: in un contesto di crescente difficoltà e crisi, sia economica che politica (per l’esplodere di scandali di corruzione anche in Catalogna), cominciarono in quell’anno le manifestazioni di massa catalane per il “diritto a decidere”, che si ripetono periodicamente, in particolare nel giorno della Diada, l’11 settembre (che nel martirologo nazionale ricordo la caduta di Barcellona nel 1714 sotto l’attacco delle truppe borboniche, e la perdita dell’autonomia catalana).
Sostanziale parità in vista delle elezioni
Iniziò così la mobilitazione delle organizzazioni della società civile catalana, mentre la formazione politica Convergència di Mas assumeva posizioni di crescente indipendentismo, avvicinandosi alla formazione da sempre repubblicana e indipendentista Erc (Esquerra Repubblicana de Catalunya), e di fronte al diniego del governo di Madrid di una maggiore autonomia finanziaria sul modello basco. Fu così convocato un primo referendum regionale per trasformare la Catalogna in Stato indipendente, il 9 novembre 2014, bloccato ufficialmente dal Tribunale costituzionale per iniziativa del governo, ma trasformato dalla Generalitat in una consultazione “partecipativa”. Oltre due milioni di votanti – su un totale di circa quattro milioni e mezzo di aventi diritto – parteciparono al voto, e di questi l’80% votò sì.
Iniziò così la mobilitazione delle organizzazioni della società civile catalana, mentre la formazione politica Convergència di Mas assumeva posizioni di crescente indipendentismo, avvicinandosi alla formazione da sempre repubblicana e indipendentista Erc (Esquerra Repubblicana de Catalunya), e di fronte al diniego del governo di Madrid di una maggiore autonomia finanziaria sul modello basco. Fu così convocato un primo referendum regionale per trasformare la Catalogna in Stato indipendente, il 9 novembre 2014, bloccato ufficialmente dal Tribunale costituzionale per iniziativa del governo, ma trasformato dalla Generalitat in una consultazione “partecipativa”. Oltre due milioni di votanti – su un totale di circa quattro milioni e mezzo di aventi diritto – parteciparono al voto, e di questi l’80% votò sì.
Ecco, dunque, le premesse dell’ultima fase: le successive elezioni, nel 2015, videro cambiare radicalmente il panorama politico, trainato dalla mobilitazione delle organizzazioni civiche indipendentiste. La formazione Junts pel Sì, che raccoglie gli ex Convergència, Erc e personalità del mondo dello sport e della cultura, ricevette circa il 48% dei consensi e, con l’appoggio della formazione di estrema sinistra Cup, si propose come maggioranza per portare il Paese al referendum sull’indipendenza.
Oggi, secondo i sondaggi, quella percentuale potrebbe calare del 5%, facendo perdere agli autonomisti la maggioranza nel Parlement, in sostanziale parità con i partiti unionisti.
Il resto è storia di questi giorni, ma sarà una storia ancora lunga.
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