Il noto economista Alberto Alesina ha affrontato la questione posta dall' indipendenza Catalana da un punto di vista economico con un articolo sul Corriere della Sera (clicca QUI).
Lo riportiamo evidenziando le riflessioni più originali: in particolare quelle che spiegano come lo sviluppo del commercio internazionale spinga verso entità territoriali di minor dimensione e maggior efficienza rispetto ai grandi stati centralizzati, contrariamente a quello che molti finora pensavano.
CATALOGNA
Nelle crisi territoriali servono istituzioni flessibili
Ci
dobbiamo aspettare crescenti domande per l’indipendenza da parte di popolazioni che non si
sentono rappresentate dai propri governi centrali. La reazione non deve essere
la difesa dello status quo a tutti i costi
Il referendum
catalano sull’indipendenza, proclamato contro la volontà di Madrid per domani,
ha portato la Spagna verso la sua più grave crisi politica e istituzionale
dalla fine del franchismo, con toni che ricordano quasi l’epoca della Guerra
civile. Il resto dell’Europa assiste con crescente preoccupazione a
un conflitto in uno dei suoi maggiori Stati membri: la Spagna è quarta per
popolazione nell’Unione Europea dopo l’uscita inglese e la Catalogna è una
delle più ricche, dinamiche e integrate regioni d’Europa, con una popolazione e
un’economia più grandi di Danimarca, Finlandia o Irlanda.
Al momento, le
posizioni di Madrid e Barcellona non potrebbero essere più lontane. Il
governo regionale sostiene che la Catalogna abbia il diritto a secedere
unilateralmente dallo Stato spagnolo se una maggioranza dei suoi cittadini lo
desidera. Dall’altro lato, il governo centrale spagnolo ritiene che la
posizione catalana sia un «delirio politico e giuridico», come ha detto
recentemente il primo ministro Rajoy. Il referendum indipendentista sarebbe in
aperta violazione della Costituzione, secondo cui la Spagna è uno Stato
indivisibile e la sovranità non appartiene alle diverse regioni, ma ai
cittadini spagnoli nel loro complesso
Il
problema generale di chi possa o non possa formare uno Stato sovrano richiede
un approccio pragmatico, che pesi interessi e obiettivi contrastanti. Da un lato, non si può consentire qualunque secessione unilaterale — e se
qualcuno dichiarasse che casa propria è uno Stato indipendente? Dall’altro
lato, in un mondo democratico, è
politicamente e moralmente problematico costringere milioni di persone a far
parte di uno Stato centralizzato se non lo vogliono. C’è una tensione tra
diversi obiettivi. Da una parte, sarebbe bene mantenere confini stabili ed
evitare eccessiva frammentazione politica ed istituzionale. Dall’altra parte, i
confini dei Paesi dovrebbero riflettere quanto più possibile il consenso e le
preferenze dei propri cittadini, comprese minoranze linguistiche e culturali.
Storicamente,
la realtà dei confini nazionali è stata quasi sempre ben lontana da ideali di
autodeterminazione democratica. Nel passato
monarchi e dittatori potevano ignorare le preferenze delle loro popolazioni e
mantenere ampi Stati centralizzati e vasti imperi coloniali con l’uso della
forza. I catalani si sono spesso lamentati, non senza qualche fondamento, che
il governo di Madrid continui a comportarsi nei loro confronti con gli atteggiamenti
centralistici e autoritari ereditati dalla storia della monarchia borbonica
(che soppresse le libertà catalane nel 1714) e dalla dittatura franchista (che
soppresse l’autonomia catalana di nuovo negli anni trenta). Se è vero che la
Spagna ha una Costituzione democratica adottata con ampio consenso nel 1978, è
anche vero che la struttura
istituzionale spagnola continua ad essere sorprendentemente centralizzata
per un Paese con così tanta diversità storica, economica e culturale. E mentre
è stato relativamente facile, dopo la fine del franchismo, consentire alla
Catalogna ampia autonomia nel campo culturale (per esempio, riguardo l’uso del
catalano), poco si è fatto in termini di decentralizzazione fiscale e altre
riforme istituzionali. La frustrazione di molti catalani per la mancanza di un
serio processo concordato riguardo l’autonomia istituzionale è alla radice del
malcontento attuale e del crescente sostegno per le posizioni
indipendentistiche più estreme. I sondaggi dicono che fino al 2003 solo circa
il 15% dei cittadini catalani erano a favore dell’indipendenza, mentre la
stragrande maggioranza era a favore di maggiore autonomia nell’ambito dello
Stato spagnolo. Nel 2014 il sostegno per l’indipendenza era già salito al 30%,
e sondaggi più recenti lo danno al 45% e oltre. Il braccio di ferro
politico-istituzionale tra Madrid e Barcellona ha generato un significativo
aumento delle forze centrifughe in Catalogna. Da un lato, maggior sostegno
popolare per l’indipendenza ha reso i politici catalani sempre più audaci, al
punto da prendere posizioni unilaterali e potenzialmente molto pericolose. Ma,
dall’altro lato, la rigidità di Madrid ha portato un numero crescente di
cittadini catalani nelle braccia degli indipendentisti.
Il caso
scozzese ha mostrato i vantaggi di un approccio più flessibile, radicato nella
cultura pragmatica e democratica della Gran Bretagna. Certo l’allora primo ministro inglese Cameron si prese un grosso rischio
quando consentì agli scozzesi di votare per la propria indipendenza tre anni
fa. Ma una maggioranza decise di restare parte del Regno Unito. Questo è
accaduto altre volte quando si è consentito agli elettori di decidere sui
confini nazionali. Per esempio, nel 1995 in Quebec vinse il no
all’indipendenza, anche se di poco. Sarebbe stato meglio se Madrid e Barcellona
avessero seguito una strada analoga, costruita sulla cooperazione, la
negoziazione e il rispetto del consenso democratico.
Naturalmente
non sempre, quando si consente ai cittadini di votare su confini e istituzioni,
si ottengono i risultati preferiti dal governo centrale. Se Cameron riuscì a evitare la secessione della Scozia, non fu
altrettanto fortunato con il referendum sulla Brexit due anni dopo.
Naturalmente il caso dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è
diverso da quelli del Quebec, della Scozia e della Catalogna. L’Unione Europea
non è uno Stato o una federazione sovrana, come gli Stati Uniti, ma
un’organizzazione sopranazionale che garantisce ai propri membri la possibilità
di uscire, anche se tramite procedure e negoziazioni complesse e potenzialmente
costose, come sta accadendo ora con la Gran Bretagna. Il fatto che dall’Unione
si possa non solo entrare ma, se si vuole, anche uscire, ne rappresenta un
elemento di forza e stabilità nel lungo periodo. Al contrario, un’Unione che,
come gli imperi autocratici del passato, volesse «intrappolare» i vari Paesi
che la compongono contro la loro volontà sarebbe politicamente molto meno
stabile.
Il
punto cruciale è che i confini nazionali e le unioni politiche non sono entità
naturali permanenti ed eterne ma istituzioni umane, che possono essere
modificate quando mutano le esigenze politiche ed economiche e le preferenze
dei propri cittadini.
Negli ultimi decenni varie forze hanno contribuito a rafforzare le tendenze verso separatismo e autonomia. Una ragione è appunto l’espansione della democrazia. In un mondo più democratico diventa sempre più difficile reprimere le preferenze di minoranze etniche, linguistiche e religiose e i governi centrali si vedono costretti a concedere maggiore autonomia, se non l’indipendenza. La seconda ragione riguarda le relazioni internazionali.
Nonostante i tanti conflitti del nostro tempo, viviamo in uno tra i periodi più pacifici, prosperi e liberi della nostra storia recente. Se le cose sono migliorate dopo la Seconda guerra mondiale, è in buona parte grazie a trattati ed istituzioni internazionali che hanno facilitato la pace e il libero commercio. Questo è specialmente vero in Europa, dove la Nato ha ridotto i costi nazionali di difesa, mentre l’Unione Europea ha eliminato tante barriere agli scambi economici tra i suoi membri. Ma questo ha anche eroso l’importanza dei mercati nazionali.
Ecco quindi la terza ragione che permette a Paesi piccoli di prosperare. Il commercio internazionale riduce l’importanza di un grande mercato nazionale interno. Paesi anche piccoli possono commerciare liberamente con il resto del mondo. Di conseguenza, ampie aree di libero scambio e integrazione economica quali l’Unione Europea rendono le secessioni regionali più attraenti.
Negli ultimi decenni varie forze hanno contribuito a rafforzare le tendenze verso separatismo e autonomia. Una ragione è appunto l’espansione della democrazia. In un mondo più democratico diventa sempre più difficile reprimere le preferenze di minoranze etniche, linguistiche e religiose e i governi centrali si vedono costretti a concedere maggiore autonomia, se non l’indipendenza. La seconda ragione riguarda le relazioni internazionali.
Nonostante i tanti conflitti del nostro tempo, viviamo in uno tra i periodi più pacifici, prosperi e liberi della nostra storia recente. Se le cose sono migliorate dopo la Seconda guerra mondiale, è in buona parte grazie a trattati ed istituzioni internazionali che hanno facilitato la pace e il libero commercio. Questo è specialmente vero in Europa, dove la Nato ha ridotto i costi nazionali di difesa, mentre l’Unione Europea ha eliminato tante barriere agli scambi economici tra i suoi membri. Ma questo ha anche eroso l’importanza dei mercati nazionali.
Ecco quindi la terza ragione che permette a Paesi piccoli di prosperare. Il commercio internazionale riduce l’importanza di un grande mercato nazionale interno. Paesi anche piccoli possono commerciare liberamente con il resto del mondo. Di conseguenza, ampie aree di libero scambio e integrazione economica quali l’Unione Europea rendono le secessioni regionali più attraenti.
Per questo
motivo un tema importante nell’attuale scontro tra Madrid e Barcellona è il
futuro status di una eventuale Catalogna indipendente all’interno dell’Unione
Europea, con i secessionisti catalani desiderosi di rimanere nell’Unione e il
governo centrale di Madrid pronto a bloccarne l’ingresso.
In un
mondo in cui esistono spinte crescenti ad autonomia e indipendenza, la comunità
internazionale si trova spesso impreparata e priva di strumenti giuridici e
politici flessibili ed efficaci. In
teoria, la retorica dei trattati
internazionali è a favore dell’autodeterminazione dei popoli, ma in pratica non esiste un diritto generale per gruppi subnazionali a
formare Paesi nuovi, salvo in circostanze straordinarie — decolonizzazione,
gruppi di minoranze etniche che vivono sotto l’oppressione di una dittatura
straniera. E anche in tali casi è raro che si chieda direttamente agli
interessati di votare e decidere sul proprio assetto istituzionale. Gli Stati e
governi nazionali quasi sempre vogliono preservare lo status quo. Si rischia
che, per evitare la formazione di nuovi Stati o anche solo per scoraggiare
richieste di maggiore autonomia, si mettano a repentaglio i benefici scaturiti
dalla cooperazione e integrazione economica internazionale.
Quindi
democrazia, integrazione economica e cooperazione internazionale hanno
aumentato gli incentivi per autonomie e formazioni di Paesi più piccoli.
Di conseguenza, ci dobbiamo aspettare
crescenti domande per indipendenza da parte di popolazioni che non si sentono
rappresentate dai propri governi centrali. La reazione non deve essere la
difesa dello status quo a tutti i costi, ma un uso flessibile e pragmatico
delle istituzioni democratiche. Come è spesso accaduto nella storia recente, è
proprio quando gli Stati nazionali sono più tolleranti e aperti al cambiamento
che è più facile che popolazioni diverse decidano di stare insieme, come è
successo finora in Quebec e Scozia. Al contrario, atteggiamenti di chiusura e
rifiuto nei confronti di domande di autonomia spesso risultano in un aumento
del sostegno per le spinte centrifughe più estreme, come la crisi in Catalogna
sta ora dimostrando.
29 settembre Corriere della Sera
Nessun commento:
Posta un commento