Dopo l’elezione del nuovo presidente francese, l’asse Parigi-Berlino può rinsaldarsi. Sulla carta, le premesse per un matrimonio d’interesse ci sarebbero tutte. Ma il leader transalpino non può sacrificare l’idea che la Francia ha di sé.
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Il profilo politico del nuovo presidente della Francia non consente avventurismi speculativi: se con il predecessore Hollande i cittadini transalpini avevano optato per un auto-definito “uomo normale”, con Macron hanno scelto un’incognita. I punti certi sono pochi.
Primo: il sistema partitico francese esce praticamente liquidato da un voto che ha visto sfidarsi due candidati agli antipodi su molte cose, tranne che sul sostanziale rifiuto dei grandi partiti tradizionali. La Quinta repubblica, tagliata su misura del generale De Gaulle, richiede il monocolore politico – Eliseo più parlamento – per dispiegare appieno il potenziale del semi-presidenzialismo.
Non è detto che alle politiche di giugno, scongiurato (per la seconda volta in 15 anni) il pericolo Le Pen, gli elettori si pongano altrettanto compattamente en marche dietro il neopresidente. Il rischio della “coabitazione” è ben presente. Eppure, sembra trascorso un secolo da quando la sconfitta del padre di Marine, Jean-Marie, premiava un candidato irrefutabilmente mainstream come Jaques Chirac.
Secondo: Macron sarà pure “europeista”, ma è soprattutto francese. O meglio: è filo-europeo in quanto francese. Nella migliore tradizione neogollista, l’Europa per lui conta se al servizio della Francia. Su questo è bene non farsi illusioni e non confondere il magma post-partitico da cui scaturiscono le meteore politiche nostrane con quella fucina di classe dirigente che, nel bene e nel male, restano le grandes écoles transalpine, da cui appunto Macron proviene. Un ambiente in cui il senso dell’istituzione e dell’interesse nazionale è ancora vivo e vegeto.
Ciò contribuisce a spiegare perché, negli anni in cui l’Italia si applicava con zelo a smantellare il welfare e il proprio apparato industriale – giungendo seminuda all’appuntamento con la grande recessione – la Francia restava aggrappata a un modello che pratica il capitalismo aggressivo, ma tenta di mitigarne le ricadute interne con uno Stato sociale ancora molto generoso. Ci sarà pure una ragione per cui quando oltreoceano gli americani pensano l’Europa, vedono essenzialmente tre modelli caratterizzanti: quello tedesco, quello scandinavo e, appunto, quello francese.
Proprio nel rapporto con la Germania iniziano i dolori del giovane Macron. Su tale relazione si gioca in parte il futuro francese e in gran parte quello europeo.
Il maggior problema dell’economia francese, checché ne dicano gli zelanti nipotini di Milton Friedman, non sta nel caparbio tentativo di perseguire un’economia sociale di mercato in cui convivano capitalismo e individui, evitando che i secondi siano sacrificati sull’altare del primo e che si realizzi così la profezia marxiana del capitalismo che si autodistrugge. Né, come noi italiani spesso lamentiamo, nell’apparente incongruenza di un paese che si mostra spietato con i concorrenti esterni e fin troppo premuroso con i suoi citoyens. In attesa che si realizzi l’utopia kantiana dell’armonia universale e della pace perpetua, questo è ciò che fa uno Stato che abbia a cuore se stesso.
Il problema sta nell’anacronismo di un sistema che offre protezioni sociali da miracolo post-bellico in presenza di una demografia pressoché stagnante e di un mercato del lavoro ingessato da rigidità ormai difficilmente giustificabili anche in un’ottica di capitalismo umano. Anzi, soprattutto in quest’ottica.
Qui il paragone con la Germania si fa stridente.
All’inizio degli anni Duemila la sgradita palma di “grande malato d’Europa” spettava a Berlino. Che da quelle secche si è estricata anche grazie alle coraggiose e controverse riforme dell’allora cancelliere Gerhard Schröder. La sua Agenda 2010, in sostanza, è consistita nell’inoculare massicce dosi di flessibilità nel mercato del lavoro (oggi un quarto circa dell’occupazione tedesca è a tempo determinato) compensandole con il mantenimento delle reti di protezione sociale. Cioè di un welfare che, malgrado il parziale ridimensionamento, resta tra i più generosi d’Europa, dunque del mondo.
Tra il burro e i cannoni, insomma, i tedeschi hanno scelto un po’ dell’uno e un po’ degli altri. A spingerli in questa direzione non sono stati modelli astratti, ma le stringenti necessità di un paese mercantilista che basa forza economica e benessere sull’industria manifatturiera votata all’esportazione. Questa richiede competitività (da cui l’appiattimento della dinamica salariale degli ultimi anni) e flessibilità (molti dei cosiddetti mini-jobs tedeschi hanno la loro ragion d’essere nei periodici alti e bassi della produzione, affrontati modulando la forza lavoro impiegata).
Non è un sistema perfetto, ma è il migliore che il paese abbia saputo darsi in accordo al suo obiettivo principale: mantenere il primato mondiale del made in Germany preservando al contempo la pace sociale e il tenore di vita interni. Un sistema intrinsecamente tedesco, che ha nella cogestione aziendale dirigenza-sindacati (elemento caratterizzante del “capitalismo renano”) una delle sue condizioni basilari. Il patto aziende-lavoratori, del resto, regge fintanto che l’economia tira (esporta) abbastanza da garantire sufficiente ricchezza da redistribuire a quanti, volenti o meno, rinunciano a stabilità e stipendi alti in nome della competitività nazionale.
Parafrasando il marchese Vincenzo Salvo, i tedeschi preferiscono ancora essere poveri in un paese ricco.
Parafrasando il marchese Vincenzo Salvo, i tedeschi preferiscono ancora essere poveri in un paese ricco.
L’efficacia di questo modello, giovatosi peraltro dell’euro – che ha impedito ai maggiori concorrenti europei di svalutare e ha regalato potere d’acquisto alla “periferia”, calmierando i tassi d’interesse e rendendo così meno oneroso il servizio del debito – ha prodotto stabilità politica. Il lungo cancellierato di Angela Merkel e la tenuta della Große Koalition stanno lì ad attestare che il sistema, nel suo insieme, ha funzionato.
Eppure, forza politica ed economica non producono necessariamente leadership. La Germania resta un paese restio a farsi carico dei problemi europei e avverso all’onere che un simile ruolo impone. Lo attesta la recente polemica Washington-Berlino sull’eccessivo surplus commerciale tedesco (240 miliardi l’anno scorso) e sulla debolezza dell’euro, che favorisce l’export europeo. La replica tedesca alle critiche statunitensi è che la Germania non è più padrona della sua moneta, che questa è ormai gestita dalla Banca centrale europea e che quindi non può farci niente.
Il fatto che la Bce sia fatta a immagine e somiglianza della Bundesbank e che Berlino si guardi bene dall’incentivare i consumi interni, continuando a perseguire ampi attivi commerciali usati per ridurre un debito pubblico già relativamente esiguo (71% del pil, il più basso tra le grandi economie europee), è opportunamente taciuto. Di contro, si sottolinea come export e disciplina fiscale abbiano giovato al paese. Senza dubbio; il punto è se quel che giova alla Germania giovi anche al resto d’Europa, Francia compresa.
Sulla carta, le premesse di un vantaggioso matrimonio d’interesse ci sono tutte. Da un lato la Germania, politicamente stabile ed economicamente forte, ma afflitta da un deficit di progettualità europea, dunque bisognosa di una stampella geopolitica che traduca in strategia il suo primato e lo renda accettabile al resto dell’Ue. Dall’altro la Francia, in pieno marasma politico e con problemi di sostenibilità economica, ma saldamente ancorata a un’idea di grandeur che ha in Berlino un utile moltiplicatore di forze altrimenti troppo esigue rispetto alle ambizioni. Insomma: le classiche ragioni di scambio del decantato “duo franco-tedesco“, di cui ora si invoca la resurrezione nel bene dell’Europa.
Ma chi detta i termini della rinnovata intesa? Il baratto forza economica-visione geopolitica, come tutte le transazioni, necessita di un certo equilibrio tra i contraenti. Altrimenti diventa elemosina (per la parte più debole) o imposizione (per quella più forte). Il “motore” franco-tedesco ha dato il meglio di sé quando la Francia era sospinta dal boom post-bellico, la Germania era divisa e l’America vigilava sulla resurrezione tedesca. E le rispettive sovranità, a partire da quella monetaria, erano sostanzialmente intatte.
L’odierna sfida per Macron consiste nel rimettere in carreggiata Parigi secondo i termini francesi, per poter meglio negoziare con i tedeschi. Non c’è paese europeo sui cui sforamenti di Maastricht Berlino abbia chiuso di più gli occhi, specie dal 2008 in poi.
Se la Germania passasse automaticamente all’incasso, la Francia sarebbe costretta a ingaggiare fin da subito uno scontro aperto con sindacati e associazioni di categoria, nonché a perseguire una disciplina fiscale aliena alla sua cultura economica. Dovrebbe tagliare con la mannaia il settore pubblico, ridimensionare il bilancio della difesa, ridisegnare lo Stato sociale per farne il garante di ultima istanza di una forza lavoro resa un po’ più povera e precaria per il bene dell’industria nazionale. Dovrebbe, in sintesi, rinunciare all’idea di Francia.
Macron, o chiunque altro per lui, non lo farà. Il suo vago programma elettorale (che tale resterà almeno fino alle parlamentari di giugno) proietta un altro film: taglio di 10 miliardi di tasse ai ceti meno abbienti, abolizione della taxe d’habitation per l’80% delle famiglie, assunzione di migliaia di giovani nelle banlieue, ritocco della spesa pubblica dal 55 al (udite udite) 52% del pil. La ricetta del rilancio francese che traspare da questi pochi numeri ha più a che fare con il moltiplicatore keynesiano che con l’ascesi luterana.
Chi, specie al di qua delle Alpi, paventa l’inconciliabilità delle due filosofie nazionali, auspica un grande accordo tra disciplina e flessibilità che getti il cuore oltre l’ostacolo. In base a questo schema, Parigi introietta un po’ di mercantilismo e di rigore fiscale in cambio dell’ammorbidimento tedesco sull’austerità. In termini prettamente binari l’operazione ha forse una sua logica, posto che richiederebbe comunque un notevole investimento politico da parte di entrambe le leadership, chiamate a spiegare questo incrocio genetico ai rispettivi elettorati.
Non bisogna però dimenticare che la dinamica franco-tedesca si svolge in un contesto europeo dove tutto (rigore, flessibilità) ha ricadute più ampie dell’ambito bilaterale. L’idea che Parigi negozi per noi (o per greci, spagnoli e portoghesi) non sta in piedi, al pari di quella che Berlino conceda alla Francia ciò che serve anche e soprattutto a Roma. Specie all’indomani del Brexit, sommo sfregio alle regole europee mal digerito sulla Sprea.
In attesa di conoscere i risultati del voto francese di giugno, e tenendo a mente le incombenti (24 settembre) elezioni tedesche, una cosa possiamo dire con certezza: nel duro confronto che Francia e Germania si apprestano a condurre in nome dell’Europa, ognuna terrà innanzi tutto per se stessa.
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