Nel sisma geopolitico in corso, il divorzio inglese (non necessariamente scozzese e nord-irlandese) innalza automaticamente rango e responsabilità dell’Italia.
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Il lungo addio del Regno Unito alla casa comunitaria, nella quale non era mai davvero entrato, obbliga l’Italia a definire e perseguire la sua idea d’Europa.
Se non lo facessimo, come pare probabile, avremmo non solo sciupato un’occasione irripetibile, ma messo a rischio la nostra stessa unità nazionale.
Il recesso di Londra dall’Unione europea va letto infatti nel contesto di una dinamica multivettoriale che sta repentinamente alterando lo scenario geopolitico intorno a noi. Segnato dal (relativo) disimpegno degli Stati Uniti dal Vecchio Continente, dal ritorno della potenza russa e della questione turca, dalla pressione migratoria che interroga la nostra identità, dagli afflati secessionisti in vari Stati nazionali e dalla disgregazione dell’Unione europea, avviata con Brexit.
Troppi e troppo violenti mutamenti per illuderci che ci lascino come siamo. La tentazione di rimuoverli, per dedicarci alle esauste schermaglie del domestico politichese, ci esporrebbe indifesi alla tempesta. Se non sapremo dove andare, saranno altri a mandarci dove interessa loro. O ad abbandonarci alla deriva.
Nel sisma geopolitico in corso, il divorzio inglese (non necessariamente scozzese e nord-irlandese) innalza automaticamente rango e responsabilità dell’Italia. Perché sposta verso sud il baricentro delle istituzioni comunitarie. Si consideri solo che nel sistema decisionale europeo, centrato sul voto ponderato in base alla demografia di ciascun Stato membro, i nordici devono rinunciare alla minoranza di blocco di cui hanno finora goduto.
Il quadrilatero composto da Germania, Olanda, Austria e Finlandia – perno dell’area d’influenza del fu marco tedesco, che si rappresenta come dominio delle “formiche” minacciato dalle “cicale mediterranee”, campione del libero scambio contro i riflessi protezionistici francesi e meridionali – perde, con il Regno Unito, il pedale del freno. Senza i 62 milioni di britannici, gli Stati dell’Europa mediterranea toccano il 42% della popolazione comunitaria, più di quanto basta per mettersi di traverso.
Sarebbe peraltro miope cullarsi in questa potenziale facoltà di veto, piuttosto relativa considerando il grado di litigiosità che divide gli euromeridionali. E non parrebbe considerato puntare sul fantomatico “asse latino”, di tanto in tanto evocato da Parigi per bilanciare il peso preponderante di Berlino.
L’Italia tornerà a contare in Europa solo quando troverà un compromesso con la Germania. E quindi, inevitabilmente, con la Francia, che da sempre considera l’Europa una necessità per limitare la potenza tedesca e frenarne le velleità di fare da sola. Con l’addio di Londra, Berlino e i suoi satelliti nordici e mitteleuropei hanno perso un alibi per non approfondire l’integrazione e una copertura per imporre i propri interessi.
A questo si aggiunga che guerre e turbolenze tra Libia e Siria, unite ai sintomi di fragilizzazione della lunga tregua che ha finora sedato le risse balcaniche, obbligano la Germania e i paesi che le fanno corona a occuparsi di Mediterraneo. Perché di qui provengono i flussi migratori che li investono.
Sicché l’Italia resta, malgrado tutto, l’ultima barriera fra l’Europa centro-settentrionale e il caos alle sue frontiere meridionali. Sotto questo profilo, siamo per la Germania quel che la Libia di Gheddafi era per noi. Non ultimo, è evidente – e i tedeschi ne sono più che consapevoli – che il futuro dell’euro si decide da noi, perché fra gli Stati critici nell’Eurozona l’Italia è l’unico davvero sistemico, non fosse che per volume economico e peso demografico.
Sommando alla Brexit tali fattori si ricava che, senza aver mosso un dito, Roma si trova a decidere molto del futuro europeo. Berlino e gli altri partner ne tengono conto. Un nuovo processo di integrazione in ambito europeo, che coinvolgerebbe solo una quota minoritaria dei Ventisette, non può prescindere dal triangolo Berlino-Parigi-Roma.
In questa geometria noi siamo certo i meno robusti. Tuttavia proprio la nostra debolezza, unita alle nostre dimensioni, ci rende potenzialmente decisivi. Solo però se sapremo proporre una definita idea italiana di Europa, al di fuori e al di là degli ormai sterili trattati internazionali che la fondarono, trasformeremo una risorsa virtuale in contributo inestimabile al futuro del Vecchio Continente.
Possiamo non farlo. Nel quale caso, l’Europa rischierà il definitivo collasso. O si rifarà altrove, senza di noi. Costituendosi in costellazioni affini, tra loro separate.
Nascerà così una sub-Europa germanica. Forse con un pezzo d’Italia, quella settentrionale, già largamente integrata nella catena del valore tedesca. Perciò tentata dall’abbandonare il resto della penisola alla deriva mediterranea pur di restare periferia dell’eurofamiglia nordica.
Se ci siamo, è ora di battere un colpo.
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