In Occidente è passato inosservato come nel recente vertice in Florida Xi Jinping abbia esteso a Donald Trump l’invito a partecipare al suo faraonico progetto commerciale e infrastrutturale. La spada di Damocle della Corea del Nord.
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I media della Repubblica Popolare hanno definito “fruttuoso e positivo” il primo incontro tra Xi Jinping e Donald Trump e sottolineato l’importanza dell’apertura di un negoziato sulle questioni commerciali sino-statunitensi, che dovrà produrre risultati entro i prossimi cento giorni.
Funzionari cinesi e americani hanno detto al Financial Times che gli argomenti su cui si svilupperà il dialogo saranno: il migliore accesso delle imprese Usa al mercato cinese nel settore finanziario; la rimozione del divieto sull’export di carne americana nella Repubblica Popolare; l’abbassamento dei dazi sull’importazione cinese di automobili dagli Stati Uniti; più protezione per gli investimenti cinesi negli Usa.
Degno di nota in Cina (meno in Occidente) è stato l’invito di Xi agli Usa affinché prendano parte alla Belt and Road Initiative (Bri). Il progetto infrastrutturale ispirato alle antiche vie della seta, in principio doveva abbracciare solo il continente euroasiatico, ma – come sottolineato da Limes – nella sua mappa pubblicata a gennaio la rotta marittima si dirige verso l’Oceano Atlantico, senza una meta precisa, suggerendo l’apertura verso le Americhe.
Washington guarda il progetto con indifferenza, forte del suo indiscusso dominio dei mari, che la Bri dovrebbe solcare. Per Pechino, coinvolgere gli Usa nella progetto significherebbe consolidare il suo soft power e smentire chi considera le nuove vie della seta uno strumento di espansione cinese.
In questi giorni i media cinesi hanno parlato apertamente del lancio dei missili americani in risposta al presunto attacco chimico avvenuto in Siria e del successivo viaggio della portaerei Uss Carl Vinson e del suo gruppo di battaglia verso la penisola coreana. Trump ha mandato un messaggio chiaro: gli Usa sono pronti a intervenire unilateralmente contro la Corea del Nord se la Cina non terrà a bada (sempre che sia in grado di farlo) il regime di Kim Jong-un.
Il Huanqiu Shibao suggerisce a Pyongyang di non “giudicare male la situazione in futuro” perché “la risposta, da Pechino a Washington, potrebbe essere senza precedenti”. Il Global Times, versione inglese del quotidiano sopramenzionato, ha smussato il concetto sostituendo i due governi con “comunità internazionale”. Evidentemente per evitare che l’Occidente sottolinei l’insofferenza cinese verso il regime di Kim.
Per garantire la stabilità regionale, ieri Pechino ha ribadito la soluzione a “doppio binario”: sospensione delle attività missilistiche e nucleari da parte di Pyongyang e fine delle esercitazioni militari Usa-Corea del Sud. L’obiettivo finale è denuclearizzare la penisola.
Non a caso, l’inviato della Repubblica Popolare per il nucleare Wu Dawei è in questo momento a Seoul, per parlare di Pyongyang ma anche del dispiegamento dei sistema missilistico di difesa Thaad in Corea del Sud, considerato dai cinesi una minaccia.
Xi, dopo aver lasciato la Florida e prima di raggiungere la Norvegia, ha fatto scalo in Alaska, lo Stato Usa di cui la Cina è il principale mercato d’esportazione.
Pechino è particolarmente interessata all’Artico per le sue risorse naturali e il possibile sviluppo di nuove rotte commerciali con lo scioglimento dei ghiacci. La Repubblica Popolare si definisce un “paese vicino” a questa regione, malgrado sia distante circa 1.600 chilometri dai suoi confini.
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