La vittoria risicata del Sì consegna al presidente la forma di governo che voleva, ma la geografia del voto evidenzia dati allarmanti: il consenso nelle grandi città è evaporato, persino a Istanbul. Il decisivo astensionismo del Pkk apre nuovi scenari nel paese e in Siria.
Erdoğan ha vinto il referendum. Forse, però, ha perso la Turchia.
Non era così che doveva andare e il presidente turco lo sa. Lo diceva chiaramente il volto corrucciato esibito in pubblico durante le celebrazioni per la vittoria del “Sì”. Non era lo stesso volto del 12 giugno 2011. Stavolta non hanno vinto Sarajevo, Baku, Gaza e il resto del mondo. Perché stavolta non ha vinto neanche lui.
Il 51% gli basta per ottenere i superpoteri presidenziali, che dovrebbero entrare in vigore dopo le elezioni presidenziali del 2019 (usare l’indicativo futuro in Turchia non ha più alcun senso). Ma non è sufficiente per tenere insieme una nazione che il 16 aprile ha mandato un messaggio chiarissimo al suo capo: ti stai allargando troppo.
Il 51% può essere considerato un successo straordinario se si parte dal presupposto che in Turchia il sostegno al sistema presidenziale non è mai andato oltre il 25-30%. E che il 7 giugno 2015 l’Ak Parti perse 10 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni proprio perché Erdoğan trasformò quella consultazione in un referendum sulla forma di governo.
Il 51% è invece un bagno di sangue se si considera che il presidente turco ha approcciato il referendum alla guida di una coalizione che il 1° novembre 2015 aveva ottenuto oltre il 60% dei voti.
Il primo sconfitto è proprio Devlet Bahçeli e ciò che resta del suo partito nazionalista, l’Mhp. Lupi grigi e ülkücü hanno votato “No”. Emblematico il risultato di Keçiören (Ankara), una delle principali tane dei Lupi grigi: qui, dove alle elezioni del novembre 2015 Ak Parti e Mhp avevano ottenuto oltre il 70%, il Sì non ha superato il 55%. Questa dinamica si è verificata in molte altre zone del paese.
Il Sì ha vinto dove l’Ak Parti è forte e ha perso dove Erdoğan pensava di vincere grazie al sostegno dei nazionalisti. La mappa del voto referendario rivela una Turchia attraversata da linee di faglia marcate.
Erdoğan ha vinto il referendum nei villaggi dell’Anatolia profonda, dove i muhtar (capi villaggio) fanno il bello e il cattivo tempo. Da quando è stato eletto presidente, il Sultano ha speso energie e risorse politiche importanti per ingraziarseli, ricevendoli settimanalmente al palazzo presidenziale. Li ha coccolati e fatti sentire importanti e così, verosimilmente, il 16 aprile loro hanno ricambiato il favore. Poco dopo le 18, il sindaco di Ankara Melih Gökçek – incarnazione del perfetto servitore del potere erdoganiano – ha twittato i risultati di tre piccoli villaggi (meno di 500 elettori in tutto) della provincia di Bingöl: Sì 100%, No 0%. Tradotto: i nostri ragazzi hanno fatto quello che dovevano fare, che nessuno si metta strane idee in testa.
Può Erdoğan pensare di comandare la nazione turca senza il consenso delle grandi città? Il No ha trionfato in tutti i maggiori centri urbani, eccezion fatta per Bursa (e Konya). La sconfitta del Sì a İzmir e Diyarbakır era scontata, ma è stata sorprendente ad Ankara, Antalya e Adana.
Addirittura sconcertante il risultato di Istanbul, la capitale dell’impero di Erdoğan, la perla neo-ottomana, la gemma della “Grande Turchia”. La città dove ha mosso i primi passi, dove tutto è cominciato. Negli ultimi quindici anni il presidente turco ha rivoltato Istanbul come un calzino: il Marmaray, il terzo ponte sul Bosforo e le altre centinaia di progetti infrastrutturali e di ristrutturazione urbana completati o in corso d’opera. Alcuni giorni prima del referendum il sindaco di Istanbul ha annunciato che presto verrà realizzata una statua equestre di Mehmet II in mezzo al Corno d’Oro. Così che il Conquistatore possa rendersi conto che se lui ha fatto passare le navi sulla terra, Erdoğan sta facendo passare i treni sott’acqua.
Queste manie di grandezza si sono però infrante nelle urne referendarie. Istanbul ha votato No. Ha votato No Üsküdar, dove si trova la residenza istanbulita del presidente turco. A Beyoğlu, dove si trova il quartiere nel quale Erdoğan è cresciuto, Kasımpaşa, il Sì ha vinto di 300 voti. I contadini dell’Anatolia sono la vera spina dorsale del paese, ma i giovani (e meno giovani) istruiti delle grandi città sono l’avanguardia, il futuro della nazione. Il loro comportamento elettorale deve far scattare tutti i campanelli d’allarme possibili nei centri di comando del palazzo presidenziale.
Il risultato delle grandi città conferma che anche nell’Ak Parti si è verificata una discreta emorragia di voti a favore del No.
Sotto il profilo geopolitico, il voto di domenica dà alcune indicazioni importanti.
Nel Sud-Est anatolico ha vinto il Sì. Anche nelle province a maggioranza curda dove a trionfare è stato il No, Erdoğan ha conquistato più voti di quanti ne avesse ottenuti il suo partito nelle elezioni del 1° novembre 2015. Questo fenomeno è dovuto soprattutto all’affluenza minore registratasi nelle province dell’Anatolia sud-orientale rispetto al resto del paese. Ciò, a sua volta, significa che il patto segreto Erdoğan-Pkk del quale si era parlato nelle settimane precedenti il 16 aprile è stato verosimilmente stretto. E, almeno in parte, ha funzionato.
Da una prima analisi dei dati, sembra che il presidente turco debba all’astensionismo del Pkk piuttosto che al sostegno di Bahçeli il successo nel referendum. Una dinamica dalla quale potrebbero originare importanti conseguenze, tanto sul piano interno (riapertura del processo di soluzione? Slittamento verso un sistema al contempo presidenziale e federale, come ha proposto pochi giorni prima del voto un consigliere di Erdoğan?) quanto sul fronte siracheno.
Il Pyd e le Ypg fanno quello che Kandil dice di fare. Kandil, apparentemente, ha lanciato un salvagente a Erdoğan proprio quando il presidente turco rischiava di affondare. A metà febbraio avevano fatto molto rumore le parole di uno dei principali consiglieri di Erdoğan, İlnur Çevik, che si era chiesto retoricamente perché mai il Pyd non potrebbe diventare “un altro Barzani”.
Le peculiarità antropologiche e geopolitiche di Erdoğan avevano inoltre trasformato il referendum del 16 aprile in una questione di rilevanza globale. La posta in gioco non era solo lo slittamento dal sistema parlamentare a quello presidenziale.
Erdoğan intendeva flettere i muscoli. Dare uno schiaffo a Germania e Stati Uniti. Non c’è riuscito. Il margine risicato con il quale ha vinto – a rischio di essere persino più esiguo, in considerazione della decisione dell’organo di supervisione delle elezioni in merito ai pacchi di schede non sigillati – lascia pressoché immutato il suo potere negoziale nei confronti di Berlino (nonostante i turchi di Germania abbiano votato in larga parte Sì) e Washington. Peraltro già discretamente basso.
Infine, il 16 luglio Erdoğan era stato incoronato leader dell’intera nazione turca. Nelle settimane successive al golpe il suo consenso sfiorava l’80%. Il presidente era diventato il comandante in capo.
Il 17 aprile è tornato capobanda. Con il 51% preso il giorno prima può, forse, governare il paese. Di sicuro, non comanda la nazione.
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