La lunga storia del jihadismo nei Balcani
di Matteo Pugliese
Febbraio 2015, parlamento di Priština. Chiedo a Daut Haradinaj, presidente della Commissione per la Sicurezza e Affari Interni, se stanno monitorando la minaccia jihadista in Kosovo.
Il deputato si irrigidisce e dà una risposta cortese ma estremamente elusiva, parlando di tolleranza religiosa e affermando che non c’è alcun rischio nel paese. Tuttavia, senza risalire ai legami tra alcuni settori dell’Uçk e al-Qaida, avvalorati dall’ex capo dell’intelligence di Tirana Fatos Klosi e da documenti dell’Fbi, si può parlare di un’ampia partecipazione di kosovari al terrorismo islamico.
Proprio in Siria si è fatto strada come comandante dell’Is Lavdrim Muhaxheri, un kosovaro responsabile di numerose atrocità, come l’esecuzione di un adolescente con un razzo anticarro Rpg. Una foto precedente lo ritrae mentre decapita un diciannovenne alawita. Desta preoccupazione il fatto che, prima di radicalizzarsi, Muhaxheri lavorò per la Nato in Kosovo, a Camp Bondsteel, e in Afghanistan. Un altro kosovaro che lavorò a Camp Bondsteel, Blerim Heta, nel marzo 2014 si fece saltare in aria a Baghdad, massacrando 52 agenti di polizia.
In questo caso il reclutamento avvenne nell’ambiente di Shefquet Krasniqi, imam della grande moschea di Priština, che infatti il 4 settembre venne arrestato per presunte attività di propaganda insieme ad altri religiosi, tra cui gli imam di Peć e Mitrovica. Nell’agosto dello stesso anno, le forze di sicurezza avevano già arrestato quaranta persone, ma alcuni analisti ritennero che questa operazione fosse più che altro mediatica.
Jabhat Al-Nusra mantiene una forte attrattiva per i balcanici, al pari dello Stato Islamico. Ma quanti sono i kosovari combattenti in Medio Oriente? Le stime più attendibili oscillano tra 200 e 300, cifra notevole per un paese di neanche due milioni di abitanti. Potrebbero costituire un reale pericolo per la missione Kfor della Nato, che dispiega ancora 4 mila uomini, di cui 564 italiani. All’inizio del 2015 il parlamento di Priština ha approvato una nuova legge antiterrorismo, che rafforza la normativa contro il reclutamento con pene dai 5 ai 15 anni.
Nel lungo report di Shpend Kursani per il Kosovar Center for Security Studies, emergono molti dettagli sulla radicalizzazione in Kosovo e Macedonia. In questa ricerca gli integralisti sono definiti takfiri, nella cui dottrina trova spazio la restaurazione del califfato. Il rapporto evidenzia il collegamento di alcuni imam di Skopje, in particolare la moschea Jahja Pasha, con l’Arabia Saudita e l’Egitto.
Uno dei predicatori, Shukri Aliu, per sfuggire a una condanna in Macedonia ha vissuto sette anni in Kosovo, disseminando adepti tra Priština e Gjilan, molti dei quali sono diventati combattenti o reclutatori per la Siria. Come Idriz Bilibani, a capo di una rete italo-kosovara con contatti a Siena, in Bosnia e nel Sangiaccato serbo. Occorre citare anche il caso di Restelica, remoto villaggio nell’estremo sud del Kosovo abitato dai gorani, slavi che parlano il dialetto serbo torlakiano e praticano l’islam sunnita.
I servizi di intelligence italiani e kosovari ritengono questo paese un centro di reclutamento, controllato dall’imam Sead Bajraktar, anche lui ospite del Centro islamico ‘Restelica’ vicino Siena. Si aggiungono i quattro arresti del dicembre 2015 della rete di Samet Imishti, tra il sud-est del Kosovo e Brescia.
Kosovo e Bosnia potrebbero apparire due contesti scollegati, ma fanno parte della stessa trasversale verde, il cui anello di congiunzione è la regione serba del Sangiaccato, storicamente musulmana. Alcuni dei protagonisti del terrorismo in Bosnia vengono proprio da lì. La Serbia ha condannato 16 wahhabiti che progettavano attentati contro l’ambasciata Usa di Belgrado e lo stadio di Novi Pazar.
Gli investigatori serbi hanno identificato il principale centro integralista del Sangiaccato nell’associazione ‘Furqan’ di Novi Pazar, dell’imam Adem Demirovic, una comunità che secondo i servizi conta cinquecento radicali.
Per capire l’odierno jihadismo bosniaco, occorre partire dal contesto storico dalla guerra civile tra il ’92 e il ’95. Pochi sanno che il primo attentato islamista in Europa avvenne proprio nei Balcani, a Rijeka (Fiume). Nel 1995 un’autobomba esplose davanti alla stazione di polizia della città croata, uccidendo l’attentatore e ferendo 29 persone. Si trattò di una rappresaglia – organizzata da Hassan El Sherif, attivo nella moschea milanese di Viale Jenner, e rivendicata dal gruppo egiziano Jamaat Islamiya – per la extraordinary rendition di Abu Talal, leader del gruppo, catturato dai servizi di Zagabria e imbarcato dalla Cia per l’Egitto dal porto di Rijeka. Un’altra autobomba, nel ’97 a Mostar, ferì 50 persone davanti a una caserma di polizia, l’attentato fu organizzato da Ali Hamad, del Bahrain, e dal saudita Salim Zuhair.
È utile comprendere in quale contesto si sviluppò il radicalismo degli anni Novanta. La Dichiarazione Islamica, opera giovanile del presidente bosniaco Alija Izetbegović, offre un quadro. Sebbene il leader bosgnacco abbia sempre evitato derive estremiste [1], alcuni passaggi di quel manifesto dimostrano una profonda adesione ai valori della cultura islamica, con toni talvolta intolleranti e radicali. Come nel giustificare la lotta armata e il jihad in nome dell’unità dei musulmani, in quel caso contro Israele.
Nel dibattito del partito sul nome della loro componente etnica, sostenne l’opzione musulmani anziché bosgnacchi. Nel 1992 i paesi islamici erano divisi sull’intervento armato a sostegno di Sarajevo. Tra i favorevoli vi erano Turchia e Iran, mentre l’Arabia Saudita suggeriva prudenza. Questi tre paesi furono gli attori principali dell’ingerenza islamica nei Balcani. Prova ne è la pletora di fondazioni ed enti islamici che si installarono a Sarajevo allo scoppio del conflitto.
Si contano più di 50 organizzazioni non governative, tra le quali spiccano le saudite International Islamic Relief Organization, la Saudi High Commission for Relief of Bosnia e la sudanese Third World Relief Agency. Questi enti, oltre a costruire moschee e diffondere l’ideologia salafita, fungevano da vere e proprie filiali di Al-Qaeda. Nel 2001, una perquisizione nella sede della Shc trovò materiale di propaganda jihadista e istruzioni per attentati contro gli Usa.
Questa non era che la punta dell’iceberg. Dal 1992 i musulmani di Bosnia iniziarono a organizzare un proprio esercito, i cosiddetti Berretti Verdi; affluirono i volontari arabi, desiderosi di difendere i loro fratelli bosniaci della Umma, la comunità dei credenti. Questi fanatici, talvolta veterani dell’Afghanistan, provenivano da Algeria, Egitto, Arabia Saudita, Turchia, Siria, Kuwait, Sudan, Yemen, Giordania, Marocco, Libano e Iran.
In principio fu loro assegnato un campo di addestramento a Poljanice, presso Mehurići, poi si insediarono nel villaggio di Orašac e dall’aprile 1993 fissarono il quartier generale nella città di Zenica. Non vi sono dati ufficiali, ma le stime più attendibili variano tra mille e 5 mila uomini. I servizi segreti algerini hanno parlato di almeno 60 combattenti del loro paese ancora residenti in Bosnia.
Questa notevole massa di stranieri divenne presto ingovernabile; il 13 agosto 1993 si decise di integrarli nell’esercito regolare, formando un battaglione conosciuto come Kateebat al-Mujahideen o El Mujahid. Tale unità, formalmente sotto il comando di un Corpo d’armata, si rifiutava di prendere ordini dalle autorità bosniache e godeva di ampia autonomia operativa. Era comandata da un Emiro, assistito dal Consiglio della Shura; combattè principalmente nel maggio 1995 a Zavidovici e a settembre presso Maglaj.
Il 14 dicembre, proprio mentre veniva firmato l’accordo di Dayton, reparti speciali croati vicino Žepče, sulla strada tra Zenica e Maglaj, uccisero cinque ufficiali di El Mujahid, tra cui l’egiziano Anwar Shaban, già imam a Viale Jenner.
Sebbene Richard Holbrooke avesse dichiarato che l’esercito musulmano, senza i mujaheddin stranieri, non avrebbe retto alle truppe serbe, pare che l’impegno militare di tale unità fosse alquanto limitato. Il Centro analisi e sicurezza dell’Esercito bosgnacco annotava che “soldati e comandanti di El Mujahid sono interessati a convertire i bosniaci all’Islam radicale piuttosto che a combattere”. Tra il 1994 e il 1995 i mujaheddin gestirono due campi di concentramento e tortura per prigionieri serbi nella municipalità di Zavidovici, a Kamenica e Gostovici.
Sono state raccolte testimonianze di sopravvissuti che descrivono un clima di autentico terrore, in cui la tortura era sistematica, fino all’arrivo della polizia militare bosgnacca. Alcuni prigionieri furono catturati dopo la cosiddetta ‘operazione Miracolo‘, così chiamata per l’inaspettato successo contro i carri armati serbi. Molti venivano picchiati a morte, torturati con l’elettroshock o decapitati.
La decapitazione è una pratica comune nella prassi jihadista di ieri e di oggi. Dopo il genocidio di Srebrenica, si diffuse una concezione manichea del conflitto e le responsabilità dei bosgnacchi non furono indagate a fondo. Tuttavia, nel 1993 il governo della Jugoslavia dispose la creazione di un Comitato per la raccolta di dati sui crimini contro l’umanità e il diritto internazionale. Le indagini del comitato jugoslavo non vanno screditate per la loro origine e occorre riconoscerle.
Nel 1995 il comitato di Belgrado pubblicò un inquietante rapporto sulle decapitazioni dei prigionieri serbi. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha accertato casi di decapitazione solamente in due recenti sentenze. In un caso i mujaheddin decapitarono tre soldati serbi e costrinsero altri prigionieri a baciare una testa. Il rapporto del Comitato espone altri 81 casi, circostanziati con testimonianze, date e autopsie.
Dopo Dayton, il governo bosniaco ricevette pressioni occidentali affinché i mujaheddin fossero allontanati. Ma nella proliferazione di passaporti concessi dalle autorità musulmane, oltre 1300 jihadisti ottennero la cittadinanza. Costoro si insediarono principalmente nelle aree di Zenica, Zavidovici e occuparono le case dei serbi nel villaggio di Donja Bočinja. Qui si verificarono alcuni episodi di tensione che coinvolsero generali dei caschi blu ed ex mujaheddin.
Nel 2000 cominciò lo sgombero degli occupanti abusivi (131 famiglie), permettendo il ritorno dei profughi serbi. Nel 2007 il governo bosniaco revisionò la lista delle cittadinanze concesse a fine anni Novanta e ne revocò circa 420. Si stima che attualmente duecento ex mujaheddin vivano in Bosnia. Un terreno fertile per il reclutamento di terroristi.
Alcuni degli sgomberati di Bočinja si stabilirono proprio nel villaggio di Gornja Maoča. Non è un caso che la comunità locale, circa trenta famiglie, viva sotto stretta osservanza della sharia.
Maoča, celebre per le bandiere dell’Is esposte dagli abitanti, è un remoto villaggio nel Distretto di Brčko. I primi tre arresti per terrorismo avvennero tra il 2005 e il 2007, mentre Maoča comparve nelle cronache dal febbraio 2010, quando una colossale operazione di polizia accerchiò il paese ed arrestò otto persone, tra cui Nusret Imamović, leader wahhabita legato ad Al-Nusra. Altre note località di reclutamento in Bosnia sono i villaggi di Ošve, Dubnica, Bosanska Bojna e Velika Kladuša. Mevlid Jašarević, il serbo del Sangiaccato che nel 2011 attaccò armato di kalashnikov l’ambasciata Usa di Sarajevo, prima dell’attentato fu ospitato proprio a Maoča. Un bosniaco che aiutò a pianificare l’attacco, Emrah Fojnica, nell’agosto 2014 si fece saltare in aria in un mercato di Baghdad. A settembre le autorità di Sarajevo arrestarono altri 17 wahabiti (operazione Damasco), tra cui il noto predicatore salafita Bilal Bosnić. Bosnić è un importante esponente dello Stato Islamico che fece parte del battaglione El Mujahid; a novembre è stato condannato a sette anni per reclutamento.
Ad aprile 2014 è stata approvata una nuova legge bosniaca antiterrorismo che punisce foreign fighters e reclutatori con pene fino a dieci anni. Si stima vi siano 400 bosniaci con l’Is e Al-Nusra. Qualche decina è morta in combattimento in Siria, molti sono tornati in Bosnia, dove si registrano episodi di intimidazione e violenza. Nel febbraio 2015 l’imam di Trnovi, che si era più volte espresso contro le derive salafite, è stato aggredito per la quarta volta e ferito a coltellate da ignoti.
Il 27 aprile 2015, Nerdin Ibrić ha fatto irruzione nella stazione di polizia di Zvornik gridando Allahu Akbar e ha sparato contro gli agenti, uccidendone uno e ferendone due. Il movente sarebbe la vendetta per la morte del padre, tra i 750 bosgnacchi massacrati a Zvornik da militari e poliziotti serbi nel 1992. Ma l’arresto di due complici tornati dalla Siria ha messo in evidenza una rete salafita, che in questo caso ha istigato l’attentatore, con presunti campi di addestramento presso Cerska, Osmaci e Potočari.
A giugno, il network di propaganda del califfato ha diffuso un video dal titolo “Honor is in Jihad: a message to the people of the Balkans“. Il filmato con sottotitoli in inglese è finalizzato al reclutamento e mostra numerosi jihadisti bosniaci, kosovari, macedoni e albanesi che invitano i connazionali a partire per la Siria.
La Croazia occupa una posizione marginale nel fenomeno del jihad balcanico, ma è stata sconvolta ad agosto dal caso di Tomislav Salopek, geofisico rapito in Egitto dallo Stato Islamico nel Sinai e decapitato. Inoltre la Croazia è interessata da due casi di donne convertite e radicalizzate.
Dora Bilić, 27enne di Zagabria, dopo il matrimonio a Londra con un salafita si è trasferita a Raqqa, risulta ferita in un bombardamento della coalizione. Irena Hodak Aminah, di Bjelovar, sposò Anwar Al Awlaki, leader di Al Qaeda nella Penisola Arabica, poi ucciso da un missile Usa nel 2011, lei scrive sulla rivista qaedista Inspire e potrebbe trovarsi in Yemen.
Sarà interessante monitorare in questo e in altri paesi balcanici le conseguenze del transito di profughi e le possibili interazioni con le comunità islamiche locali.
Proprio a dicembre l’ex generale Sakib Mahmuljin, che comandava il 3° Corpo d’armata bosgnacco e almeno formalmente il battaglione el-Mujahid, è stato incriminato per non aver impedito l’uccisione di cinquanta prigionieri serbi da parte degli jihadisti.
I fatti di ieri e quelli odierni sono dunque legati nell’attualità balcanica. Croazia, Serbia e Macedonia iniziano a collaborare nello scambio di intelligence, ma in Bosnia la procura generale ha dichiarato di non avere risorse adeguate per le indagini antiterrorismo, problema che si somma all’attrito nello scambio di informazioni tra Republika Srpska e autorità di Sarajevo.
In nome della sicurezza, i Balcani occidentali dovranno mettere da parte i vecchi rancori e lavorare insieme.
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