DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

sabato 21 gennaio 2017

Le alleanze possibili dell’America First di Trump

 Nel discorso inaugurale, il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti conferma il nuovo paradigma: l’interesse nazionale non coincide necessariamente con quello degli alleati storici. Il mutamento strategico lascia aperta la porta a intese tattiche su cui si possono costruire eccellenti fortune politiche.
La cifra cromatica della cerimonia che ha posto Donald J. Trump nel pieno delle sue funzioni presidenziali è il bianco.

Bianchi gli abiti delle sue figlie, ma soprattutto bianca la stragrande maggioranza della platea accorsa a Washington per assistere all'”incoronazione”.

Il contrasto con il caleidoscopico pubblico che il 20 gennaio 2009, e ancora il 20 gennaio 2013, osannava Obama è stridente. E ricorda forse più delle parole quale sia il segmento sociale ed elettorale di riferimento del 45° presidente degli Stati Uniti.

A questa America, al di là della retorica presidenziale, Trump si è esplicitamente rivolto, ricordando le “fabbriche arrugginite” di quella Rust Belt che gli ha consegnato voti e speranze di rinascita.

L’orizzonte di grandi programmi infrastrutturali, l’impegno a “riportare il governo al popolo” giacché da ora “Washington non vi ignorerà più”, la promessa di “farla finita con le parole e tornare a fare” perché “se l’America è unita è praticamente inarrestabile”, erano rivolte soprattutto all’America post-industriale e sfiduciata. Che a questa crasi di New Deal roosveltiano, conservatorismo compassionevole neocon e “Yes we can” obamiano ha risposto con cori da stadio.

Molto più teso il clima in tribuna. Al disprezzo reciproco e malamente dissimulato tra il nuovo presidente e i suoi tre predecessori (Obama, Bush e Clinton), facevano riscontro i ripetuti appelli all’unità nazionale degli interventi istituzionali che hanno preceduto il discorso d’insediamento, abbondanti di richiami ai mali di una “politica divisa”, al “miracolo” del passaggio indolore di potere che l’America rinnova da oltre due secoli, ai grandi precedenti storici di presidenti che, pur su sponde politicamente opposte, hanno saputo agire nel supremo interesse della nazione. Un mantra motivante, più che un’autocelebrazione.

Il discorso di Trump è stato generico nei contenuti (come quasi tutti i discorsi d’insediamento), ma preciso nei destinatari ultimi (la “sua” America) e collaudato nel messaggio.

Il martellante richiamo alla “dottrina” dell’America First e alla necessità di tornare a “governare nell’interesse primario del popolo americano” ha fatto da premessa e contorno al cuore programmatico: protezionismo commerciale, revisione delle alleanze internazionali (qualora il rapporto costi/benefici sia reputato svantaggioso) e ricostruzione materiale delle “decrepite infrastrutture nazionali”.

Si conferma il nuovo paradigma profilatosi all’indomani dal verdetto elettorale.

Non già il perseguimento dell’interesse nazionale, connaturato a ogni amministrazione. Bensì l’idea che oggi tale interesse non coincida più necessariamente con quello degli alleati storici (Europa in testa). Nulla vieta, dunque, che le rispettive priorità collidano.

Il mutamento strategico è radicale, ma non offusca la tattica. Nella lista dei pericoli esterni da cui proteggere l’America, Trump non dimentica di inserire “il terrorismo islamico, che dev’essere cancellato dalla faccia della Terra”. La War on terror, che per la sua vaghezza strategico-concettuale ha dimostrato di prestarsi a interpretazioni assai estensive, non è dunque archiviata.

Anche perché, in un mondo di nazionalismi risorgenti e interessi confliggenti, può essere un utile terreno d’incontro.

Dalla Cina alla Russia, dalla Turchia al Golfo, dall’Africa a un’Europa impaurita e smarrita, sul male assoluto si possono costruire alleanze decenti, per quanto transitorie.

Nonché eccellenti fortune politiche.

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