La coincidenza degli interessi (elettorali) di Trump con quelli dei suoi alleati mediorientali punta a decretare la fine della questione palestinese, ma rischia per paradosso di riaprirla. Così svelando che le strategie di Usa, Stato ebraico e Arabia Saudita non sono così convergenti come pretende chi oggi le orienta.
Nell’atto di riconoscere Gerusalemme quale capitale d’Israele, Donald Trump ha messo i suoi interessi politico-elettorali al di sopra di quelli del paese che rappresenta.
Il presidente è concentrato più sulle elezioni parlamentari di mezzo termine, che fra meno di un anno potrebbero decidere del suo futuro politico, facendone un’”anatra zoppa” a metà del suo primo e forse unico mandato, che sull’interesse nazionale.
Nulla di straordinario, nella storia degli inquilini della Casa Bianca. Il cui primo obiettivo, una volta insediati nello Studio Ovale per quattro anni, è di assicurarsi il secondo mandato. Fatto è che pur di mantenere (caso raro) una promessa fatta allo zoccolo duro del suo elettorato – schierato sempre e comunque con lo Stato ebraico in quanto paese più che alleato, gemello – “The Donald” ha rotto il tabù diplomatico che aveva permesso agli Usa di sceneggiare l’esistenza in vita di una mediazione fra palestinesi e israeliani morta e sepolta da quasi vent’anni.
Settori rilevanti dell’establishment americano, a cominciare dall’alta burocrazia militare e diplomatica, da alcuni laboratori strategici e d’intelligence, condannano la mossa come avventata. Inutilmente il pur influente ministro della Difesa, Jim “Cane Matto” Mattis, e il del tutto ininfluente ex (?) petroliere Rex Tillerson, capo del fatiscente Dipartimento di Stato, hanno cercato di dissuadere Trump da questa “opzione nucleare”. Convinti che avrebbe eccitato l’antiamericanismo non solo in Medio Oriente, minacciato la vita di civili e militari a stelle e strisce, alimentato la propaganda e il terrore jihadista.
Il rischio per gli Stati Uniti – che da tempo considerano il Medio Oriente scacchiere secondario ma non riescono a emanciparsene, continuando a sprecarvi risorse militari, finanziarie e d’immagine – è di finire strumento dei loro due Stati di riferimento nella regione: Israele e Arabia Saudita. Il primo sentito consanguineo. Il secondo, alleato non sempre affidabile ma capace di dotarsi a pagamento di una tale rete di protezione nei meandri del potere a stelle e strisce da oscurare il fatto che ad abbattere le Torri Gemelle furono suoi sudditi.
Il triangolo Washington-Gerusalemme-Riyad è concorde nel valutare Teheran unico nemico strategicotra Levante, Golfo e Asia centromeridionale. La questione palestinese è capitolo chiuso anche per gli altri leader arabi e musulmani, che pur fingono di interessarsene e protestano contro la sacrilega scelta di Trump. Sicché per Usa, Israele e Arabia Saudita è inutile investirvi tempo, soldi e soldati, da destinare invece al contrasto dell’imperialismo iraniano.
Risultato: la Palestina non sarà mai vero Stato né Gerusalemme Est la sua capitale. Al massimo, ciò che resta dell’Autorità palestinese, tenuta artificialmente in vita dai suoi nemici israeliani, in collaborazione con americani, sauditi, petromonarchie minori del Golfo ed europei (solo nei panni di ufficiali pagatori), potrà fregiarsi di una statualità puramente decorativa, simbolica.
La retorica dei due Stati non punta ai due Stati. Serve a coprire l’espansione territoriale di Israele in Cisgiordania e nella Grande Gerusalemme. Dato di fatto irreversibile se non per improbabile inversione geopolitica o suicidio israeliano. Da ornare, al massimo, con qualche foglia di fico. Basta uno sguardo alla carta dei Territori occupati (contestati, dal punto di vista israeliano), segmentati in mille frammenti, per rendersi conto che fondarvi un qualsivoglia Stato è vano. Figuriamoci centrarlo su Gerusalemme.
Lo strano triangolo che lega la massima potenza mondiale allo Stato ebraico e al feudo wahhabita in cerca d’identità non solo petrolifera sembra aver deciso che è tempo di troncare anche formalmente l’equivoco palestinese. Stabilendo che Gerusalemme, tutta Gerusalemme, è capitale di Israele. Punto. Esattamente settant’anni dopo che David Ben-Gurion, accettato il piano di bipartizione della Palestina in uno Stato arabo e uno ebraico, aveva sacrificato la città santa in cambio dell’esistenza di Israele, accedendo all’idea di farne un “corpo separato” a gestione internazionale. Piano stracciato dagli arabi, a spese anzitutto dei palestinesi, convinti di rigettare a mare gli ebrei.
Un mese fa, il giovane e avventuroso leader saudita Mohammad bin Salman (noto come MbS) aveva fatto capire senza troppe cerimonie al figurativo presidente palestinese Mahmud Abbas (alias Abu Mazen), convocato a Riyad, che il tempo era scaduto. Comunicazione secca: i palestinesi si adattino a uno staterello di facciata, collazione dei coriandoli di spazio cisgiordano su cui Israele non esercita un controllo diretto, privo di continuità territoriale. Con Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme Est, eretta a “capitale” della Palestina fantasma. Prendere o lasciare. Nel secondo caso, la casa saudita, d’intesa con israeliani e americani, avrebbe provveduto a installare Mohammed Dahlan (Abu Fadi), avversario del vecchio Abu Mazen, a capo della pseudo-Palestina. Il colloquio, a quanto pare, si era interrotto bruscamente.
Resta da vedere se la peculiare costellazione formata dalla coincidenza degli interessi personali di Trump con le attuali strategie israeliana e saudita raggiungerà l’obiettivo di decretare la fine della questione palestinese.
O se invece, per paradosso, rianimerà almeno per qualche tempo quella partita sapientemente sopita dalle diplomazie di tutto il mondo per evitare la definitiva umiliazione dei palestinesi. Così svelando che le strategie di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita non sono così convergenti come pretende chi oggi le orienta.
E che quindi la demonizzazione dell’impero persiano, oggi reincarnato dall’Iran, non conviene a nessuno.
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