Molti media e parte della classe politica attribuiscono in maniera retorica a "guerre e fame" l' impennata del fenomeno migratorio dall' Africa subsahariana.
Tuttavia il numero dei conflitti in quell' area è calato nettamente dal 1995 e cosi pure l' incidenza di carestie e malnutrizione.
La Presidente Boldrini ha dichiarato recentemente al Corriere che la Nigeria nel 2030 avrà più abitanti degli USA e che pertanto non è possibile fermare le migrazioni essendo assurdo usare la forza militare.
Tuttavia nel corso della storia si è sempre osservato che in presenza di guerre e fame la popolazione tende a diminuire, non ad aumentare vertiginosamente come correttamente segnalato dalla Boldrini, e lo stesso avviene in natura per le popolazioni animali in una situazione di carenza di risorse.
Il dato trova indiretta conferma dal fatto che il 70/80% dei migranti che sono arrivati negli ultimi 3 anni sono migranti economici informali e non rifugiati di guerra o politici.
E' pertanto legittima la domanda dell' "uomo della strada": "Se ci sono tante guerre e carestie perchè la popolazione nigeriana e subsahariana aumenta tanto ?".
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Crescita demografica ed emigrazione in Africa Sub-Sahariana
GIOVANNI
ANDREA CORNIA, LUCA
BORTOLOTTI -26/4/2017
Da
alcuni anni, l’emigrazione dall’Africa Sub-Sahariana (ASS) verso Italia e resto
d’Europa è aumentata notevolmente e, date le condizioni geopolitiche prevalenti
in Libia e Vicino Oriente, è probabile che questo trend continui negli anni a
venire. In modo un po’ semplicistico, alcuni media e parte della classe
politica attribuiscono questo fenomeno alle guerre e alla fame che
imperverserebbero nella regione, mentre – per grazia di Dio – il numero dei
conflitti in Africa è calato nettamente a partire dal 1995 (quando
l’emigrazione da tale regione era di assai minori dimensioni), mentre
l’incidenza di carestie, fame e malnutrizione sono diminuite durate lo stesso
periodo, pur se lentamente. Mentre è indubbio che alcuni dei nuovi immigrati
siano ‘rifugiati politici’ provenienti da zone in conflitto, come Sud Sudan e
Somalia, o da paesi con regimi dittatoriali come l’Eritrea, una quota elevata
(pari al 70-80 percento) di coloro che son sbarcati in Italia negli ultimi 2-3
anni sono migranti economici informali che cercano in Europa migliori
condizioni di vita.
A
scanso di equivoci, va sottolineato che gli scriventi auspicano per gli anni a
venire una continuazione dell’immigrazione regolare (dall’ASS e altre regioni
in sviluppo) verso un’Italia, Europa e gran parte del mondo sviluppato (o
emergente, come la Cina) affette da una implosione demografica di cui non si
intravede la fine. Una immigrazione regolata aiuterebbe a tappare alcune delle
falle più evidenti nel mercato del lavoro e porterebbe ad un arricchimento
culturale ed economico della Vecchia Europa, così come è avvenuto in California
ed altre regioni avanzate. Il problema non è se l’immigrazione è auspicabile,
ma il suo volume ed il modo in cui ha luogo.
La
domanda da porsi è, dunque, quali sono i fattori che generano una forte spinta
a emigrare dalla ASS in maniera molto costosa (un viaggio dai paesi d’origine
organizzato dai trafficanti di esseri umani costa oltre 10.000 dollari),
potenzialmente pericolosa (basti pensare alle migliaia di annegati nel Canale
di Sicilia), e con incerte prospettive di inserimento legale e professionale in
una Europa a bassa crescita economica e che si sente ‘invasa’.
Analisi
recenti delle tendenze economiche e demografiche degli ultimi 20 anni in ASS
suggeriscono che il forte aumento di tale emigrazione può essere ascritto al
modello di crescita sub-ottimale seguito da gran parte della regione
nell’ultimo quarto di secolo, a problemi di governance nazionali ed internazionali, e ad una
‘transizione demografica ritardata’. Per quel che riguarda il modello di
crescita seguito dalla ASS notiamo brevemente che – malgrado un aumento annuale
del PIL pari al 5% nel ventennio 1991-2011 – i settori ad alto assorbimento di
forza lavoro semi-qualificata (ad es. agricoltura intensiva, manifattura e
costruzioni) si sono sviluppati relativamente meno che quelli minerario, dei
servizi urbani ad alta intensità di lavoro qualificato, e dei servizi informali
a bassa produttività. La crescita è stata dunque caratterizzata da una domanda
di lavoro debole, sia in termini assoluti che in relazione ad una offerta di
lavoro in rapida crescita.
Problemi
di governance hanno aggravato lo squilibrio di cui sopra tra
domanda e offerta di lavoro. Tra questi, una insufficiente allocazione di
risorse e la bassa priorità politica assegnata a settori chiave. Tra questi
agricoltura e Green
Revolution (malgrado una dipendenza massiccia
da importazioni ed aiuto alimentare), istruzione femminile e regolazione
della fecondità, e
controllo delle massicce fughe di capitali, che fan sì che gli attivi detenuti
all’estero da cittadini africani superino l’intero debito pubblico della regione.
Pressioni del FMI, Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale del Commercio hanno
poi spinto anche i paesi africani a ridurre drasticamente i dazi sui prodotti
manifatturieri, con conseguente forte aumento delle importazioni dall’Asia ed
un netto declino di quel po’ di industria domestica sviluppatasi con fatica nei
primi decenni post-indipendenza.
Il ritardo della transizione demografica
Ma,
forse, il fattore che spiega più degli altri la spinta attuale ad emigrare è
una ‘transizione demografica ritardata’ – e cioè il ritardo nel calo
della fecondità femminile
che avrebbe dovuto seguire, dopo una decina d’anni, la notevole diminuzione
della mortalità registrata negli ultimi 20 anni grazie all’aumento delle
vaccinazioni, all’intensificazione della lotta contro malaria, tubercolosi e
HIV/AIDS, e al miglioramento delle condizioni di vita. L’effetto immediato
della ritardata transizione demografica è stato un forte aumento della
disoccupazione tra le coorti di giovani che son entrati in tempi recenti sul
mercato del lavoro grazie al calo della mortalità registrato nei 20 anni
precedenti. Tale tendenza si acuirà nei prossimi tre decenni. Ad esempio, nel
2050 la popolazione di
15-24 anni di età sarà maggiore di 200 milioni di quella del 2015 (Grafico 1)
con risultati ovvi in termini di offerta di lavoro.
La soluzione di questo enorme problema occupazionale – che è alla base della spinta migratoria dei paesi della ASS verso Europa, Africa del Sud e – in misura minore – altre regioni, richiederà interventi in tutte le aree menzionate sopra. La probabilità che – senza mutamento nelle politiche economiche, demografiche e di governance – gran parte di questa nuova forza lavoro trovi una occupazione adeguata sono minime. Se questo sarà il caso, per molti l’emigrazione resterà – malgrado i suoi costi elevati – una delle poche opzioni praticabili.
Questo
fortissimo aumento di forza lavoro è dovuto alla menzionata ‘ritardata
transizione demografica’. I dati della Divisione della Popolazione delle Nazioni Unite indicano
infatti che mentre tra 1980-85 e 2010-15 il tasso di fecondità in Africa del Sud è sceso da
4.7 a 2.5 figli per donna in età fertile, quello dell’Africa Centrale ed
Occidentale è calato solo da 6.7 a 5.8 e da 6.8 a 5.5. Nel frattempo tutte le
altre regioni in via sviluppo hanno raggiunto tassi di fecondità tra 1.5 e 2.5.
I casi
contrapposti di Niger e Nigeria e di Etiopia e Ruanda
Tali
differenze appaiono ancor più marcate se si confrontano alcuni paesi africani
archetipici. E’ sintomatico ad esempio che negli ultimi 30 anni Nigeria e Niger
abbiano registrato solo un lievissimo declino o addirittura un aumento
della fecondità femminile,
mentre Etiopia e Ruanda han registrato un netto calo (Grafico 2).
Dal confronto delle politiche demografiche seguite in
queste coppie di paesi si possono trarre utili lezioni circa gli approcci che
permettono di controllare il problema della sovra-popolazione in gran parte della regione
anche a bassi livelli di reddito pro capite.
In
conclusione, il miglioramento delle condizioni di vita in ASS e la regolazione
del forte flusso migratorio verso l’Europa e le regioni più ricche dell’Africa
richiede interventi sia sul fronte economico, che dell’aiuto internazionale,
della governance e delle politiche demografiche. Vista
l’inerzialità dei fenomeni demografici, nel breve periodo gli interventi
economici, di governance e sostegno internazionale saranno i soli che potranno
ridurre la pressione ad emigrare. Nel medio e lungo periodo, invece, la
soluzione del problema dipenderà dalla diffusione di politiche di controllo
della crescita demografica ben concepite e con un forte supporto politico di
governi locali, opinion
makers, autorità religiose e comunità
internazionale. L’esempio di paesi poveri come Ruanda ed Etiopia mostra che
risultati incoraggianti possono essere ottenuti già in una quindicina d’anni
(Grafico 2). Il problema ora è quello di generare la volontà politica per agire
rapidamente nel resto della regione, dove il tasso di fecondità rimane elevato e contribuisce a
causare disoccupazione, impoverimento ed una forte emigrazione informale.
Riferimenti bibliografici
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David, Sangeeta Raja, and Abdo S. Yazbeck (eds).
“Africa’s
Demographic Transition: Dividend or Disaster?” Africa Development Forum.
Washington, DC. The World Bank License: CC BY 3.0 IGO
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Giovanni Andrea, Ayodele Odusola, Haroon Bhorat and Pedro Conceicao (2017),
“Income Inequality Trends in Sub-Saharan Africa: Trends, Divergence,
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Assefa, Solomon Alayu, and Charles Teller (2010), “The National Population
Policy (NPP) of Ethiopia: Achievements, Challenges and Lessons Learned,
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Charles F. “The recent fertility transition in Rwanda.” Population and Development Review 38.s1 (2013): 169-178.
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