L’‘autonomia differenziata di Lombardia, Veneto
ed Emilia-Romagna mina l’unità nazionale. Il principio è che alcuni italiani
lo sono più degli altri. Serve il ricentramento delle funzioni strategiche,
un’Agenzia nazionale per lo sviluppo e un Iri della conoscenza.
di Giuseppe Provenzano attuale ministro per il Sud Pubblicato in Limes UNA STRATEGIA PER L'ITALIA - n°2 – 2019
1. Era trascorsa
meno di una settimana dalla chiusura della 69a edizione
del Festival della canzone italiana e Sanremo, si sa, ha unificato il paese
forse più di Mazzini, Cavour e Garibaldi. Ventate di orgoglio nazionale,
diffuse via social network dagli esponenti del governo, accompagnavano la crisi
diplomatica con la Francia. Eppure, in quegli stessi giorni, in gran segreto,
nel pressoché generale silenzio dell’opinione pubblica e dei mass media, il
Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana stava per sancire la fine
dell’unità nazionale.
Formalmente,
si discuteva di concedere l’«autonomia differenziata» a
Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. In sostanza, la Lega, al tempo in cui si
fa nazionalista e raccoglie largo consenso al grido «Prima gli italiani!», sta
per realizzare il suo sogno antico: una forma di secessione, la «secessione dei ricchi» 1.
La
partita è ancora aperta. Ma le bozze di accordo fra Stato e
Regioni che circolano alimentano l’allarme. Siamo uomini di questo mondo
guasto, sappiamo bene che nascere a Treviso non è la stessa cosa che nascere a Canicattì.
Ma gli italiani potrebbero vedersi certificare che i loro diritti dipendono dal
luogo in cui gli capita di nascere, che lo Stato si rassegna a questa
«cittadinanza diseguale», che la Repubblica lo sancisce per legge, malgrado il
suo compito, come recita l’articolo cardine della costituzione, sia di
«rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana».
La
costituzione va sempre richiamata con cautela, e tanto più in questo caso:
a consentire la possibilità di un regionalismo a geometria variabile è proprio
il suo titolo V, come rinnovato alla vigilia delle elezioni politiche del 2001
dall’allora centro-sinistra, nell’ansia di contendere voti alla Lega già
federalista. Quella riforma costituzionale che, per tacer d’altro, aboliva il
Mezzogiorno e ogni riferimento all’interesse nazionale, assegnava alle Regioni
competenze irragionevoli su energia e grandi reti, all’articolo 116, terzo
comma, prevedeva la facoltà di attribuire alle Regioni «ulteriori forme e
condizioni particolari di autonomia», attraverso una legge approvata a
maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, «sulla base di intesa fra lo
Stato e la Regione interessata» 2.
Malgrado
diversi tentativi, il meccanismo in questione non era mai
stato attivato prima d’ora. Lombardia e Veneto avevano celebrato, il 22 ottobre
2017, un referendum consultivo sull’autonomia che pareva una farsa di fronte
al dramma
secessionista della Catalogna che si consumava in quelle stesse
settimane. All’esito del referendum, che con un diverso grado di partecipazione,
molto alto in Veneto 3 e alquanto basso in Lombardia,
registrava una maggioranza favorevole, le due Regioni hanno attivato la
procedura per chiedere l’autonomia differenziata in tutte le materie previste
dal 116.
Parzialmente
diverso è il caso dell’Emilia-Romagna, che si è attivata senza
svolgere alcuna consultazione referendaria e ha avanzato una richiesta motivata
solo per alcune materie specifiche 4 e
senza riferimenti impropri alle risorse. Su questo punto cruciale, mentre la
Lombardia si è limitata a un generico riferimento «a ottenere l’assegnazione di
idonee risorse per il finanziamento integrale delle funzioni che saranno
attribuite alla Regione», il Veneto ha gettato la maschera che nasconde la
secessione nell’autonomia. Nel progetto di legge trasmesso al parlamento ha
esplicitato infatti la richiesta, peraltro dichiarata dal suo presidente, di
utilizzare il 90% del gettito ricavato dalle imposte erariali (Irpef, Ires e
Iva) nel proprio territorio, per lo svolgimento delle funzioni aggiuntive. Insomma,
il Veneto chiede di trattenere le tasse riscosse all’interno del suo perimetro,
come fosse quello di un nuovo Stato, di una nuova cittadinanza.
In
effetti, proprio a questo potrebbe condurre la riedizione del Lombardo-Veneto.
Definire indirizzi e programmi scolastici, assumere in proprio il personale
docente (sulla base della residenza?), darebbe il colpo decisivo alla mitologia
della scuola di De Amicis e del libro Cuore che faceva gli
italiani. Affermare un proprio modello di sanità segnerebbe il definitivo
smantellamento di quel Servizio sanitario nazionale che è stato il vanto
dell’Italia ma che di nazionale ormai ha davvero poco. O ancora, offrire
servizi per l’impiego differenziati ai propri cittadini (laddove un impiego da
offrire almeno c’è), subentrare allo Stato come concessionario delle reti
ferroviarie e autostradali (dopo mesi di chiacchiere sulle nazionalizzazioni).
Esercitare tutte le competenze su energia e tutela dell’ambiente,
regionalizzare proprietà e gestione dei beni culturali (che, ovviamente,
richiederebbe molte risorse…). Tutte richieste largamente immotivate,
ingiustificate se non con la massima che tutti i cittadini sono uguali, ma
alcuni sono più uguali degli altri.
2.
Un pendolo impazzito sembra regolare, nel nostro paese,
i rapporti tra centro e periferia, che oscilla negli ultimi decenni, alternando
stagioni di forte autonomia (le riforme Bassanini sul decentramento degli anni
Novanta, la riforma costituzionale del 2001, la legge Calderoli sul federalismo
fiscale) a stagioni di ricentralizzazione (essenzialmente i governi degli anni
della crisi, da Berlusconi a Monti, da Letta a Renzi, fino ad alcuni
provvedimenti di Gentiloni, come l’inattuata clausola per il riequilibrio degli
investimenti pubblici tra Nord e Sud).
Quel
pendolo ha colpito, a distanza di pochi mesi, la stessa
maggioranza politica: appena nel dicembre 2016, aveva proposto agli italiani
una riforma costituzionale che, tra i pochi meriti, aveva quello di
ricentralizzare alcune competenze strategiche, essenziali alla riaffermazione
dell’interesse nazionale e alla definizione delle politiche di sviluppo,
correggendo gli eccessi della riforma del titolo V e ripristinando la «clausola
di supremazia» dello Stato; ora cedeva alle spinte più autonomistiche e
potenzialmente disgregatrici dell’unità nazionale, perseverando nell’errore, già
compiuto nel 2001, di pensare di contenere gli avversari inseguendoli sul loro
terreno, al punto non solo di perdere, ma di perdersi. Così, il 28 febbraio
2018, siglava con le tre Regioni un accordo preliminare che già conteneva
diversi elementi preoccupanti: la durata decennale di un’intesa da rivedere
solo con il consenso di entrambe le parti e che per il parlamento sarebbe stata
inemendabile (secondo l’interpretazione proposta, smentita da diversi
costituzionalisti 5), come si trattasse di un patto tra
Stati indipendenti e sovrani; la discussione sull’attribuzione delle risorse –
che, con ogni evidenza, possono avere ricadute su tutti i cittadini italiani –
demandata a una commissione paritetica tra lo Stato e la Regione interessata;
soprattutto, nell’ottica del pur opportuno superamento del criterio della spesa
storica, il riferimento per la definizione di «fabbisogni standard» al
parametro del «gettito dei tributi maturati nel territorio regionale».
Ogni
volta che si mette mano alle istituzioni, in Italia, volano
parole grosse. Ora si parla di «secessione», poco fa s’era parlato di
«deriva autoritaria». Il rischio più grande, mai abbastanza denunciato, è la
«deriva confusionaria». Quale modello di rapporti tra Stato ed enti
territoriali ci restituirebbe l’autonomia differenziata? Vediamo: cinque
Regioni a statuto speciale, tre ad «autonomia differenziata», quasi tutte le
altre che hanno fatto passi formali o informali per chiedere autonomia
rafforzata nelle più disparate materie. È un café para todos,
direbbero gli spagnoli, nei mille modi diversi in cui in Italia si
ordina il caffè. Due Regioni soltanto sono rimaste paghe della loro
ordinarietà, come quei signori distinti tra la folla al bancone che ordinano un
sommesso «caffè normale»: un piccolo elogio di Abruzzo e Molise prima o poi
bisognerà pur scriverlo. Ora, al di là degli aspetti finanziari, cosa resta
dello Stato? 6.
Peggio che lo Stato minimo, lo Stato «residuale». I ministeri a geografia
variabile.
3.
La fine dell’unità nazionale, si diceva. E la notizia può
apparire alquanto esagerata. A pensarci bene, però, è anche un po’ datata. A
158 anni dall’Unità, l’unificazione economica è sempre lontana dal suo
compimento 7.
Oltre ai fattori economici, registriamo il consolidamento di un divario nel
godimento dei diritti di cittadinanza 8.
Nonostante una pressione fiscale superiore al Sud (per effetto delle
addizionali locali), la garanzia di livelli essenziali di prestazioni
concernenti diritti civili e sociali fondamentali: una «cittadinanza limitata
(…) in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati
standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la
persona adulta e per l’infanzia».
I
Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), che secondo costituzione lo Stato
dovrebbe uniformemente garantire su tutto il territorio nazionale, non sono
fissati, e dunque non possiamo con precisione dichiarare di quanto la
Repubblica sia venuta meno ai suoi doveri. Laddove invece sono fissati i
Livelli essenziali di assistenza (Lea), come nel comparto sanitario, con
certezza possiamo affermare che nessuna delle Regioni meridionali, sottoposte a
piano di rientro sanitario (Molise, Puglia, Sicilia, Calabria e Campania)
raggiunge gli obiettivi fissati dai Lea. In questo caso, una «cittadinanza
negata».
Del
resto, lo specchio del generale malessere del Mezzogiorno, ben oltre la
mancanza di lavoro, è dato dalla ripresa dei flussi migratori interni ed
esterni che negli ultimi quindici anni l’hanno svuotato di oltre mezzo milione
di giovani. Si emigra già per godere pressoché di ogni diritto: nel solo 2016
oltre 114 mila meridionali si sono ricoverati nel Centro-Nord, la stragrande
maggioranza proprio in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna (e Toscana);
l’emigrazione universitaria riguarda 175 mila studenti meridionali che nel
2016-17 si sono iscritti al Centro-Nord. Scelta dettata dalle prospettive
lavorative, ma che riflette anche il deterioramento del sistema universitario
meridionale, sistematicamente penalizzato negli ultimi anni dietro parametri di
presunta neutralità nell’attribuzione delle risorse, spesso incapace di
garantire il diritto allo studio, persino l’erogazione delle borse di studio
per coloro che risultano idonei. Non è difficile immaginare, alla fine del
processo di autonomia differenziata, trasferimenti di residenza ancora più
massicci verso quelle regioni: a quel punto, dovranno chiedere anche il
controllo delle frontiere.
Potremmo
continuare a tratteggiare i contorni di questa disuguaglianza nei diritti, se
non conoscessimo l’obiezione: «Il Sud è inondato di soldi pubblici, vengono
sprecati o ingrassano clientele, i dipendenti pubblici sono fannulloni, manca
la voglia di lavorare». «Non lamentatevi, lavorate di più», dice dunque il
ministro dell’Istruzione ai professori meridionali. «Accettate la sfida
dell’autonomia, cialtroni», rilancia il governatore della Lombardia. Sprechi,
inefficienze e malaffare certo non mancano al Sud, ma nemmeno al Nord: le stime
sulla corruzione parlano di un’omogeneità territoriale. Gli affari delle mafie
hanno unificato l’Italia più delle istituzioni.
Gli
sprechi più gravi sono al Sud, per l’esiguità delle risorse a disposizione.
Perché a dispetto dei luoghi comuni, la spesa pubblica è sensibilmente più
bassa nel Mezzogiorno, e questo incide inevitabilmente sulla qualità dei
servizi. Negli anni, per gli effetti asimmetrici dell’austerità, tale spesa si
è molto ridotta al Sud e il trend decrescente non si è interrotto con la
ripresa, mentre il Centro-Nord invertiva la tendenza. Anche al netto della
spesa previdenziale, in molti settori cruciali dell’azione pubblica, dal lavoro
alla formazione, dalla cultura alla ricerca&sviluppo, in cui le Regioni più
avvantaggiate chiedono maggiore autonomia, il divario della spesa pro capite
nel Mezzogiorno è di oltre 30 punti percentuali (dati Conti pubblici
territoriali 2018).
Quanto
al personale, anni di retorica scandalistica sull’impiego fisso al Sud e sui
forestali siciliani e calabresi – resa solo appena più sopportabile dal genio
di Checco Zalone, Quo vado? – hanno finito per celare il
divario in termini di dotazione di personale della pubblica amministrazione
meridionale. L’Istat registra che il rapporto tra dipendenti pubblici e
popolazione residente è molto diminuito (la flessione si è concentrata sul
Mezzogiorno, che rispetto al 2001 ne ha 214 mila in meno) ed è addirittura
inferiore al Sud (4,7%) rispetto al Nord-Est (4,9%), per non parlare del
Centro.
La
distanza tra la realtà effettuale di questi numeri e quella percepita sulla
base di un pregiudizio storicamente sedimentato non basta certo a rimettere in
discussione il senso comune, ma almeno svela l’insostenibilità, per l’unità
nazionale e per lo stesso bilancio dello Stato, della pretesa di
«regionalizzazione delle imposte» del Lombardo-Veneto. Il paradosso è che una
vera e seria attuazione del «federalismo fiscale», persino quello previsto
dalla legge 42/2009, la cosiddetta legge Calderoli, che prevede il superamento
della spesa storica, con la definizione non solo dei costi standard ma anche
dei fabbisogni standard sulla base dei Lep per tutto il territorio nazionale,
comporterebbe un deciso guadagno per il Mezzogiorno. Seppure ora alla fine del
processo di autonomia differenziata non un solo euro di trasferimento dovesse
venire meno alle altre Regioni e seppure gli attuali livelli di servizio
dovessero essere preservati, avremmo comunque la cristallizzazione di una
cittadinanza «diseguale». Se non la fine dell’unità nazionale, la fine
dell’ambizione a perseguirla.
4.
«Pensavi solo ai soldi soldi/ Come se avessi avuto soldi», canta
la canzone che ha vinto il Sanremo 2019. Anche questa vicenda dell’autonomia
differenziata, checché ne dicano gli imbonitori, ruota tutta intorno ai soldi, a
«mettere le mani sui propri soldi». Ma di chi sono questi soldi? Per capirlo,
il concetto chiave è il «residuo fiscale». Coniato nel 1950 dal premio Nobel
James M. Buchanan, questa definizione indicava la differenza tra il contributo
che il singolo cittadino fornisce sotto forma di prelievo fiscale alle finanze
pubbliche e quanto riceve sotto forma di spesa e servizi, per un’argomentazione
tutta tesa alla redistribuzione e all’equità fiscale 9.
Col
tempo, questo concetto ha subìto una forte torsione territoriale, è stato
piegato a una dimensione regionale che ha finito per snaturarlo e rivoltarne il
senso. Nella discussione pubblica, infatti, il «residuo fiscale» è diventato
misura dei trasferimenti interregionali, della maggiore o minore «capacità
fiscale» dei territori, alimentando egoismi e rivendicazionismi. Si tratta di
un calcolo virtuale, perché virtuali sono i trasferimenti tra territori:
l’azione redistributiva è compiuta dallo Stato verso i cittadini 10.
Al
di là della difficoltà di stima del «residuo fiscale», il suo slittamento dalla
dimensione del cittadino a quella del territorio lo rende un concetto alquanto
discutibile, il più antinazionale e potenzialmente disgregante. Passata la
sbornia regionalista, potrebbe condurre a scoprire che esiste un residuo anche
tra la provincia di Milano e quella di Mantova, e che all’interno della provincia
esiste un «residuo» tra il capoluogo e il paesino, tra l’area C di Milano e
l’hinterland, tra il condominio di un quartiere residenziale e il palazzone di
periferia. Insomma, conduce a scoprire la disuguaglianza sociale tra individui,
che l’ideologia del territorio prova a malcelare.
Se
esiste un «residuo fiscale» positivo in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e
negativo in quasi tutte le altre regioni a statuto ordinario (per quelle a
statuto speciale il discorso sarebbe diverso), è semplicemente per il fatto che
nelle prime si concentra una maggiore quota di cittadini con redditi elevati,
mentre nelle altre, specialmente nel Mezzogiorno, i redditi medi sono più
bassi. Peraltro, l’ammontare del residuo fiscale, che si aggirerebbe
complessivamente intorno ai 50 miliardi per il Nord, non solo è in costante
riduzione dai primi anni Duemila ma è pressoché interamente destinato alla
redistribuzione interna 11.
La
contabilità di quanto ci guadagnano le tre Regioni e di quanto ci perdono
(quasi tutte) le altre, compresa Roma capitale 12,
risulta comunque falsata e parziale. Ai fini di una contabilità più equa, si
dovrebbe considerare la prima voce di spesa pubblica, quasi sempre omessa dal
calcolo, e cioè la spesa per interessi sul debito pubblico, che è sostenuta da
tutto il paese mentre la sua titolarità si concentra per l’80% (secondo stime
prudenziali) tra le famiglie e tra le banche del Nord 13.
In
questa contabilità, poi, ma anche nella discussione, sono totalmente rimossi i
consistenti flussi redistributivi interregionali «alla rovescia», da Sud a
Nord, che si realizzano in molti modi, a cominciare da alcune politiche
pubbliche 14.
Mancano i flussi di capitali privati. Il credito nel Mezzogiorno registra
costantemente un differenziale negativo tra impieghi e depositi. Ciò significa
che il risparmio meridionale è impiegato dal sistema delle grandi banche (ormai
tutte del Nord) per finanziare investimenti meno rischiosi e più redditizi nel
Centro-Nord 15.
E mancano i flussi di capitale umano: la migrazione dei laureati verso il Nord,
che negli ultimi quindici anni ha svuotato il Mezzogiorno di circa 200 mila
giovani qualificati, determina una perdita secca in termini di spesa pubblica
investita in istruzione e non recuperata stimata in circa 30 miliardi (che equivale
a più di un intero ciclo di programma di fondi europei) 16.
Secondo
le stime Svimez, infine, dei 50 miliardi circa di residuo fiscale, 20 tornano
direttamente al Centro-Nord sotto forma di attivazione di domanda di beni e
servizi. Complessivamente, nel 2017 la domanda interna meridionale per beni di
consumo e d’investimento ha dato luogo a una produzione realizzata nel
Centro-Nord di 186 miliardi di euro, circa il 14% del pil. Tuttavia, la
complessa rete di rapporti commerciali, produttivi, e finanziari non può
ridursi a questa contabilità un po’ misera, di reciproca recriminazione. È la
conseguenza del secolare processo di unificazione nazionale, delle correlazioni
e dei condizionamenti tra le due aree, per cui i risultati economici e il
progresso sociale di ciascuna dipendono dal destino dell’altra. Si parla di
dipendenza del Sud mentre si dovrebbe più propriamente parlare di
interdipendenza, dei reciproci vantaggi che si stabiliscono tra due aree
strutturalmente differenti per molte ragioni ma strettamente integrate, che non
sono sistemi a parte e storicamente tendono a crescere (e arretrare) insieme.
5.
Tutto questo sfugge al «gioco delle secessioni», che è stato un formidabile diversivo
in questi anni per un paese spesso privo di coscienza di sé. La teoria
che il Sud dreni risorse dal Nord, frenando lo slancio della «locomotiva
d’Italia», ha rappresentato un comodo alibi, con il quale la parte più ricca
tendeva sostanzialmente ad autoassolversi dalle proprie responsabilità,
nell’illusione che, liberandosi della «zavorra» meridionale, sarebbe tornata a
crescere. Invece, se il Sud è come la Grecia, il Nord non è più da tempo come
la Baviera.
Nella
classifica europea delle regioni in base al reddito pro capite, quelle del
Centro-Nord indietreggiano relativamente di più di quelle del Sud: tra il 2007
e il 2016 Lombardia ed Emilia Romagna perdono 11 posizioni, il Veneto 16, il
Piemonte addirittura 36; mentre la Campania appena 9, comunque scivolando con
il resto del Sud a fondo classifica. La Liguria crolla col suo ponte, il Lazio
retrocede e, senza Roma Capitale, di cui pure è evidente la deriva, avrebbe un
pil pro capite in linea con il resto del Sud, l’Umbria è entrata ormai a tutti
gli effetti, secondo il lessico comunitario, tra le «regioni meno sviluppate».
Tutta l’Italia si va facendo Mezzogiorno, nella prospettiva europea.
È
stato questo declino del Nord 17 a
riesumare, fuori tempo massimo, la questione settentrionale, trascinandosi
tutto l’armamentario propagandistico che credevamo archiviato, a partire dal
«sacco del Nord»? 18. Non ci resta che registrare il grande
paradosso. Mentre la linea della Lega dilaga verso il Sud, ed è già molto oltre
l’Abruzzo (dov’è primo partito), «la linea della palma» risale verso nord,
avverando la previsione di Leonardo Sciascia, ed è già molto oltre Roma; mentre
si ciancia di «interesse nazionale» i semi della discordia civile maturano
all’improvviso nel più amaro dei frutti.
La
narrazione ostile al Mezzogiorno, che ribalta tutte le ragioni fino al
parossismo («è ora di smetterla con queste aree deboli che sfruttano quelle
forti»!), ha contribuito a diffondere nei meridionali sentimenti di speculare
ostilità. È un risentimento maturato dall’evidenza del Sud abbandonato al suo
destino, per cui diventa insopportabile anche la predica moralistica di chi
vorrebbe «affamare la bestia» per «responsabilizzarla». È condito di miti
deteriori, come il neoborbonismo, e destinato nel migliore dei casi a un
ripiegamento nel «rivendicazionismo», che rende inservibile un intero patrimonio
culturale e politico maturato in un secolo e mezzo e rinnovato nel dopoguerra
dai grandi partiti nazionali: il meridionalismo.
La
quasi totalità del ceto professionale meridionale, vasti settori della sua
intellettualità, specie giovanile, si nutre quotidianamente di un discorso
antirisorgimentale, che mescola la storia di ieri con la politica d’oggi. Ora,
di fronte a ciò che a tutti gli effetti potrà apparire come una «vendetta
consumata sul Risorgimento, nella sua intenzione unitaria e democratica» 19,
perpetrata da parte di chi ne ha avuto i maggiori vantaggi, e «senza nemmeno
l’eroismo del brigantaggio», il rischio è che alla fine la secessione la invochi una parte del Sud. Un Sud che, dopo
le file per il reddito di cittadinanza e i baciamano di Afragola, si ritroverà
con il resto di niente, tra la collera e il disincanto.
La
preoccupazione per la secessione «minacciata» al crollo della Prima Repubblica,
che ha attraversato «strisciante» tutta la Seconda e «mascherata» ha inaugurato
la Terza, ci ha fatto perdere di vista quella già avvenuta: la secessione
«passiva», in cui si parlano lingue diverse, al Nord e al Sud, anche all’interno
delle stesse parti politiche. Non a caso, le posizioni sull’autonomia
differenziata oggi dividono tutti gli schieramenti. Così si smette di essere
nazione 20,
si consuma la rottura di una comunità politica. È la «territorializzazione
della ragione», direbbe Franco Cassano, per cui è difficile tornare a
ragionare.
Ragionare
ad esempio sul fatto che, tra le cause del declino del Nord, vi è proprio il
disinvestimento al Sud, l’affievolimento del motore interno dello sviluppo. È
la lezione che avremmo dovuto apprendere dalla nostra storia migliore, quando
nel dopoguerra l’intervento straordinario nel Mezzogiorno divenne funzionale
allo sviluppo industriale dell’intero paese. O, ancor più, da un presente in
cui le regioni del Nord, ex locomotive ora al rimorchio dell’Unione Europea a
trazione germanica, al primo rallentamento del commercio internazionale e
dunque delle esportazioni tedesche frena bruscamente, inchiodando il pil
italiano a una stagnazione che già annuncia recessione.
6.
La critica sull’«autonomia differenziata» si è concentrata sui diritti di
cittadinanza e i servizi pubblici, ma cosa ne sarebbe delle strategie di
sviluppo del paese? A quasi cinquant’anni dall’avvio del regionalismo,
è su questo aspetto cruciale che il bilancio appare del tutto fallimentare.
Agli storici il compito di individuare i nessi di causa-effetto, che sono molti
e assai intricati. Ma è un’evidenza che questo paese sia cresciuto e abbia
compiuto il suo salto di sviluppo in una stagione di forte centralizzazione 21,
nell’èra della «prefettocrazia» vituperata da Salvemini, affermandosi nel mondo
come una grande potenza industriale, mentre con il regionalismo e il
decentramento si sia fermato e, privo di una strategia nazionale di sviluppo,
sia arretrato 22.
L’illusione,
coltivata soprattutto a sinistra, che l’ente regionale avrebbe consentito
l’avvio di una «programmazione democratica», più attenta ai bisogni collettivi
che non a contrattare al centro il mantenimento dei privilegi in periferia,
almeno al Sud si è rivelata drammatica e si è capovolta nel suo contrario. La
«regionalizzazione» dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, con
l’ingresso delle Regioni nella Cassa del Mezzogiorno, ha contribuito alla sua
degenerazione, moltiplicando gli spazi di intermediazione impropria,
burocratica e clientelare.
Negli
anni Novanta, il processo di decentramento che ha interessato tutte le
democrazie europee ha assunto in Italia una dimensione fortemente regionale.
Non mancano esperienze virtuose di decentramento, a livello europeo. Quasi
ovunque si è affermato un nuovo centralismo regionale. Non è un caso che a
pagare le conseguenze dell’austerità, del taglio agli investimenti, in questi
anni, siano stati soprattutto gli enti locali.
Oggi
dovremmo chiederci: tutto questo processo ha davvero avvicinato i pubblici
poteri ai cittadini e al loro controllo democratico? È stato funzionale allo
sviluppo? L’evidenza generale è di una proliferazione dei livelli di governo,
una sovrapposizione di funzioni e competenze (su cui la Corte costituzionale
non smette di fare chiarezza) che ha drasticamente ridotto l’efficienza e
l’efficacia dell’intervento pubblico, in particolare per lo sviluppo, e in
qualche caso ha condotto alla paralisi. Il progressivo slittamento della Regione,
da ente di programmazione strategica a ente di gestione, ha determinato un
aumento dei costi della macchina pubblica, al di là di sprechi e malversazioni
(con gli scandali che hanno unito il paese, da Sud a Nord). Insomma,
esattamente l’opposto di ciò di cui l’Italia aveva bisogno e che la richiesta
di federalismo del Nord esprimeva.
L’«autonomia
differenziata» segnerebbe il compimento di questo processo degenerativo. Cosa
significherebbe attribuire alle Regioni la competenza sulle opere
infrastrutturali, o sull’energia, o sulle politiche industriali? Sono tutte
materie in cui avremmo bisogno di quella strategia europea che purtroppo manca.
E invece rinunciamo ad averla a livello nazionale?
Oggi
questa «secessione dei ricchi» sembra in realtà l’ennesimo capitolo di una
guerra di cortile tra ultimi e penultimi. Non una prova di forza del Nord, ma
di debolezza. È una parte dell’Italia che in Europa si concepisce residuale, e
avverando la profezia di Marcello De Cecco si mostra «rassegnata a sacrificare
i propri residui centri organizzativi della produzione, integrando la propria
industria con quella tedesca, come fornitrice efficiente di parti e
componenti», in uno schema che taglia fuori il Sud, nel migliore dei casi
destinato a diventare «un enorme parco turistico per le vacanze dei cittadini
della Mitteleuropa» 23.
7.
Difficile prevedere dove porterà questa autonomia differenziata, forse
da nessuna parte. Ma comunque ci allontana da ciò di cui avremmo bisogno, la
ricostruzione dello Stato.
Il
14 agosto 2018, a Genova, con il crollo del viadotto Morandi che ha spezzato la
vita di 43 persone, è caduto l’onore dello Stato italiano. Si dice spesso che
questo paese si riscopre nelle grandi tragedie. Sempre più spesso, invece,
scopre lo spappolamento delle sue istituzioni. Dopo decenni di sovranità
autolimitata dall’ennesimo vincolo esterno, dopo lo smantellamento delle leve
di intervento pubblico nell’economia, l’abiura dell’economia mista e la sua
liquidazione che buttò via il bambino con l’acqua sporca, la minorità culturale
e politica con cui le nostre classi dirigenti hanno interpretato il processo di
integrazione europea, bisogna averne consapevolezza: preservare il ruolo di
seconda manifattura d’Europa è impossibile senza uno Stato forte, né minimo né
residuale.
Il
nostro Stato è debole, per ragioni storiche e attuali, e in primo luogo per la
mancata tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. Dunque, la
fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, è prioritaria
rispetto a ogni discorso regionalista. La tutela dei Lep, peraltro, equivale a
un interesse nazionale: è un presupposto per l’attivazione del «potere
sostitutivo» dello Stato sugli altri enti (art. 120 della costituzione). Fin
qui, questo non è mai stato realmente attivato, se non con la sanzione «facile»
del definanziamento degli interventi, che finisce per far pagare due volte ai
cittadini i costi delle inefficienze o delle malversazioni della periferia. Ben
oltre il commissariamento, serve uno Stato che agisca, ove necessario,
attraverso i suoi bracci operativi, con gli standard di efficienza e di
efficacia che pretende siano garantiti da tutti gli organi di governo.
Bisognerà
rimettere ordine in tutti questi organi di governo. Il processo di autonomie
differenziate, oltre a non dir nulla su un ripensamento complessivo delle
Regioni (e delle autonomie speciali, di cui si dovrebbe trarre uno specifico
bilancio), aumenta la «deriva confusionaria» perché tace, ad esempio, sul
destino delle città metropolitane e sull’incerta sorte delle province.
L’abolizione fallita (e un po’ improvvida) di questo ente, oltre a creare un
buco nero sul governo di materie fondamentali come la viabilità secondaria e le
strutture scolastiche, per cui crollano i viadotti e cadono i cornicioni, ha
favorito la proliferazione di una teoria di enti intermedi (Ato idrici e
rifiuti, consorzi, autorità di bacino, unioni di Comuni) di cui non si viene a
capo, e dunque di stazioni appaltanti, committenze pubbliche, senza nemmeno il
personale capace di applicare il nuovo codice degli appalti o di stilare un
bando. Abbiamo bisogno di ricentralizzare gli acquisti di beni e servizi da
parte delle amministrazioni, per evitare sprechi e corruzione: non per
preparare maxigare, che pregiudicherebbero un tessuto produttivo diffuso che
vive ancora di committenza pubblica, ma per offrire standard di prezzo, di
predisposizione di bandi pubblici, onde avviare un public procurementper
orientare verso l’innovazione tecnologica, ambientale e sociale la produzione e
i servizi.
Altro
che assumere docenti e medici in proprio, come vorrebbe il Lombardo-Veneto.
Avremmo bisogno di un investimento nazionale, per immettere risorse umane nella
pubblica amministrazione, la più piccola, vecchia e povera di competenze della
media Ocse, bistrattata dalle forze politiche di turno, anche per il
depauperamento dei suoi corpi tecnici. Non è nostalgia di passato, ma di
futuro. Chi si occupa della digitalizzazione, poche decine di persone di
ufficio a Palazzo Chigi? Con chi lo costruisci uno Stato strategico,
intelligente, innovatore (imprenditore, anche)?
Tutti
parlano ormai di investimenti pubblici, e tutti continuano a tagliarli: il
centro-sinistra nell’ultima legislatura li ha portati al livello più basso di
sempre, i gialloverdi sono riusciti nel miracolo di far peggio, passando dalla
follia europea dell’austerità espansiva a quella italica dell’indebitamento
recessivo. Ma se persino dopo la stagione più fredda dell’austerità non
riusciamo a realizzarli, è per la strutturale perdita di capacità realizzativa,
progettuale e dirigenziale, a ogni livello di governo. C’è un problema diffuso
di qualità della programmazione e di capacità di progettazione. L’aver
«esternalizzato» la maggior parte di queste funzioni, soprattutto a livello
regionale, attraverso un sistema di assistenze tecniche in cui si annidano non
di rado commistioni improprie, non ha dato grandi risultati. Il governo,
nell’ultima legge di bilancio, ha opportunamente recepito la proposta di una
struttura nazionale di progettazione. Bisogna realizzarla. Abbiamo molti esempi
di strutture, penso all’Agenzia per la coesione territoriale, mai davvero nate
per mancanza di risorse (anche umane) adeguate.
Non
abbiamo bisogno di politiche industriali e di innovazione diverse per Regione,
ma al contrario la necessità di rafforzare il coordinamento strategico delle
politiche di sviluppo. Non bastano le cabine di regia, a cui si ricorre ogni
volta in cui non si sa bene che fare. Serve una grande agenzia nazionale per lo
Sviluppo, che eviti le sovrapposizioni che non ci possiamo più permettere
(Investitalia proposta dal governo, Invitalia che ha svolto in questi anni
ampie funzioni e che diventa proprietaria della Banca del Mezzogiorno, Ice
eccetera). E serve un «Iri della conoscenza» 24,
sul modello della Fraunhofer-Gesellschaft tedesca, mettendo in rete le tante
realtà pubbliche e private, che consentirebbe di centralizzare le spese
per ricerca&sviluppo, presidiare vasti campi di ricerca applicata e
trasferimento tecnologico, generare diritti di proprietà intellettuale
(condivisi, diffusi e tutelati da un unico soggetto, con costi unitari più bassi).
Infine,
un intero armamentario di strumenti di intervento pubblico sull’economia è
stato ammassato in un grande magazzino chiamato Cassa depositi e prestiti. Ogni
governo ha usato Cdp come una bacchetta magica senza libretto d’istruzioni,
senza tracciare mai un percorso trasparente e coerente verso la trasformazione
in una vera e propria banca pubblica degli investimenti. L’idea che circola è
di una holding, sul modello francese. E servirebbe anche a capire come le
grandi aziende partecipate, che peraltro ormai coincidono con le poche grandi
imprese rimaste nel nostro paese, concorrano alle strategie di sviluppo
nazionale, alla crescita della produttività e del lavoro qualificato. Anche
perché l’Italia non può diventare un grande discount d’impresa, per di più
gestito dagli altri.
Tutte
le emergenze nazionali, dalle infrastrutture al riassetto del territorio,
all’istruzione, alla formazione, alla ricerca del modello di specializzazione
produttiva, devono essere affrontare con un ripensamento strategico dello
Stato, facendo i conti con le diversità dei territori in una prospettiva
unitaria e razionale. E solo in questo quadro potrà trovare la sua collocazione
il Mezzogiorno utile allo sviluppo nazionale. Anche del Nord che, arrancando,
con l’autonomia s’illude di aver trovato una scorciatoia. E può ritrovare un
ruolo e uno status Roma Capitale, la cui deriva è il segno più eloquente della
disintegrazione dello Stato.
Ricostruire
lo Stato è la priorità, nel paese in cui si ciancia di «interesse nazionale» ma
rischiano di venire meno le istituzioni che lo sappiano riaffermare in Europa e
promuovere nel mondo. E non in chiave di chiusura razzistica e
autolesionistica, come ci propone il sedicente sovranismo, ma di apertura, in
primo luogo al Mediterraneo, per ridare una
collocazione geopolitica ed economica all’Italia, all’altezza di
quella che avrebbe per storia e geografia.
Note:
1.
G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità
nazionale, ebook gratuito, Roma-Bari 2019, Laterza. Per la Svimez, Adriano
Giannola e Gaetano Stornaiuolo hanno prodotto uno studio sui gravi rischi e le
incongruenze dell’«autonomia differenziata» a partire da un’analisi critica dei
«residui fiscali»: A. Giannola, G. Stornaiuolo, «Un’analisi delle proposte
avanzate sul “federalismo differenziato”», Rivista Economica del
Mezzogiorno, n. 1-2, 2018.
2.
L’autonomia differenziata può essere concessa in venti materie di potestà
legislativa concorrente (art. 117, terzo comma: tra cui sanità, energia,
infrastrutture, rapporti internazionali, credito, politiche industriali
eccetera), e in tre materie di potestà legislativa statale (art. 117, secondo
comma) tra cui l’organizzazione della giustizia di pace (lett. l),
la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (lett. s) e
le norme generali sull’istruzione (lett. n).
3.
La Regione Veneto aveva presentato cinque quesiti referendari: il primo
intendeva chiedere ai cittadini se volevano che il Veneto diventasse Regione a
statuto speciale, gli altri tre quesiti avevano l’obiettivo di fare permanere
all’interno della Regione una quota rilevante (80%) delle entrate fiscali
riscosse nel territorio, solo l’ultimo faceva riferimento vago alla formula
dell’articolo 116 terzo comma. La Corte costituzionale ha convalidando soltanto
l’ultimo, bocciando i primi quattro.
4.
Tutela e sicurezza del lavoro, istruzione tecnica e professionale;
internazionalizzazione delle imprese, ricerca scientifica e tecnologica,
sostegno all’innovazione; territorio e rigenerazione urbana, ambiente e
infrastrutture; tutela della salute; competenze complementari e accessorie
riferite alla gestione delle istituzioni e al coordinamento della finanza pubblica.
5.
Riconduce alle modalità di approvazione delle intese con le confessioni
religiose non cattoliche il Servizio studi del Senato della Repubblica, Il
regionalismo differenziato e gli accordi preliminari con le Regioni
Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, Dossier n. 16, maggio 2018. La tesi
sull’emendabilità della legge è invece sostenuta, tra gli altri, da M. Villone,
«Autonomia, perché non si può blindare la legge», il manifesto,
12/2/2019.
6.
Si interroga su questo criticamente E. Galli della Loggia, «Qualche dubbio
sulla riforma. Gli errori del regionalismo», Corriere della Sera,
14/2/2019; vedi anche M. Ainis, «La fiera degli egoismi», la Repubblica,
15/2/2019.
7.
Per usare una formula cara a P. Saraceno, L’unificazione economica
italiana è ancora lontana, Bologna 1988, il Mulino.
8.
Le informazioni e le citazioni contenute in questo paragrafo sono tratte
dal Rapporto Svimez sull’economia e la società del Mezzogiorno, il
Mulino 2018, a cui si rimanda per riferimenti e approfondimenti specifici.
9.
Il saggio aveva un titolo eloquente: J.M. Buchanan, «Federalism and Fiscal
Equity», American Economic Review, settembre 1950. Lo
ricordano A. Giannola, G. Stornaiuolo, op. cit. Su questo vedi
anche A. Lepore, «Il federalismo di Lilliput», la Repubblica, ed.
Napoli, 9/2/2019.
10.
Per un’esaustiva analisi critica delle questioni relative al «residuo fiscale»
e alla ripartizione regionale della spesa pubblica, si veda G. Pisauro, Audizione
del presidente dell’Ufficio parlamentare di Bilancio in merito alla
distribuzione territoriale delle risorse pubbliche, V Commissione della
Camera dei deputati, 22/11/2017. Anche il concetto altrettanto ambiguo di
maggiore o minore «capacità fiscale» dei territori, introdotto all’articolo 119
della costituzione dall’infausta riforma del 2001, è mitigato dal riferimento
«per abitante» ed è inserito nella norma che prevede la costituzione di un
fondo perequativo. Di certo, come ha recentemente chiarito la Corte
costituzionale con la sentenza n. 69/2016, non può essere la base per fissare
precetti di giustizia fiscale e per riorganizzare le politiche pubbliche.
11.
A. Giannola, C. Petraglia, D. Scalera, «Residui fiscali, bilancio pubblico e
politiche regionali», Economia Pubblica – The Italian Journal of Public
Economics, 2017. Vedi anche A. Giannola, C. Petraglia, D. Scalera, «Net
fiscal flows and interregional redistribution in Italy: a long run perspective
(1951-2010)», in Structural Change and Economic Dynamics, 39,
dicembre 2016.
12.
Una ricognizione delle stime e delle analisi sulle conseguenze negative per
Roma Capitale dell’autonomia differenziata, A. Bassi, «Autonomia, lo
Spacca-Italia che svuota Roma», il Messaggero, 2/2/2019.
13.
Per A. Giannola, G. Stornaiuolo, op. cit., la spesa per interessi
destinata alle famiglie residenti vale al Centro-Nord circa 15 miliardi di
euro.
14.
Come il saccheggio delle risorse per investimenti destinate al Sud, utilizzati
in questi anni come un bancomat per le evenienze più disparate (è il caso, si
ricorderà, dei famigerati fondi Fas con cui si pagavano le multe sulle quote
latte degli allevatori del Nord, o persino la Scuola Europea di Varese).
15.
Senza contare che le banche del Nord in crisi, in questi anni, sono state
salvate con i proventi della Società per la gestione degli attivi (Sga),
la bad bank del Banco di Napoli, la cui liquidazione
meriterebbe storia a sé: una ricostruzione delle vicende della Sga si legga
nel Rapporto Svimez 2017 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna
2017, il Mulino.
16.
Secondo la Svimez, a questo si sommano i vantaggi indiretti, in termini
prospettici di aumento della produttività dell’area, e nell’immediato per
consumi pubblici e privati annui attivati dall’emigrazione studentesca nelle
regioni del Centro-Nord, il cui valore è stimato in circa 3 miliardi di euro
l’anno (causando una perdita di pari importo per le regioni meridionali).
17.
Sulle vere cause del declino del Nord, è fondamentale la lettura di G.
Berta, La via del Nord. Dal miracolo economico alla stagnazione,
Bologna 2015, il Mulino.
18.
Il riferimento è al saggio, che vorrebbe rendere «giustizia territoriale» ai
territori «ricchi» del Nord e «sfruttati» dal Sud, di L. Ricolfi, Il
sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Milano 2010, Guerini e
Associati.
19.
La definizione è di Adriano Sofri, «Piccola posta», Il Foglio,
9/2/2019.
20.
Di «post-nazione» ha parlato I. Sales, «Se il Sud rischia di diventare una
post-nazione», Il Mattino, 13/2/2019.
21.
Lo ricorda Guido Pescosolido, di cui si suggerisce da ultimo G.
Pescosolido, La questione meridionale in breve. Centocinquant’anni di
storia, Roma 2017, Donzelli.
22.
Per inciso, proprio nel momento di maggiore investimento al Sud, che aveva
innescato una dinamica di convergenza con benefici effetti per tutto il paese,
i flussi redistributivi interni erano molto bassi: il «residuo fiscale» è
esploso proprio dopo l’istituzione delle Regioni. Vedi A. Giannola, C.
Petraglia, D. Scalera, Net fiscal flows and interregional
redistribution in Italy: a long run perspective (1951-2010), cit.
23.
M. De Cecco, L’oro di Europa. Monete, economia e politica nei nuovi
scenari mondiali, Roma 1998, Donzelli, p. 23.
24.
A. Aresu, G. Provenzano, «La politica industriale è tornata, ora serve un nuovo
“IRI della conoscenza”», Rivista Giuridica del Mezzogiorno, 3,
2017, pp. 659 ss.
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