Sul legame tra riscaldamento globale, migrazioni e guerre l’Intergovernmental Panel on Climate Change non fa chiarezza. Sul tema della natalità, purtroppo e come al solito, glissa.
di Associazione Neodemos, Massimo Livi Bacci
Al nascere dell’agricoltura, circa 10 mila anni or sono, si calcola che la popolazione del pianeta fosse di qualche milione di abitanti. Supponiamo che si trattasse di 6 milioni di umani (come suggeriscono alcuni autorevoli studiosi) e che questi vivessero in piccole comunità – chiamiamole demoi, plurale di demos – costituite da mille persone l’una.
Qualora le terre emerse fossero state equidistribuite tra i demoi, ciascuno di essi avrebbe avuto in dote una quota di terra pari alla superficie della Sardegna (23 mila km²). Due secoli fa, agli inizi della rivoluzione industriale, con la popolazione giunta a un miliardo, la dotazione di ogni demos sarebbe scesa a 150 km², quanti ne conta l’isola di Milos nel Mar Egeo. E verso la fine di questo secolo la dotazione territoriale sarà scesa a poco più di 10 km² per demos, pari alla superficie dell’isola di Capri. In questa contabilità sono comprese le aree inabitabili, artiche, desertiche o montagnose.
La terra è fissa, la popolazione cresce e ogni abitante in più porta con sé un’accresciuta capacità di consumo di energia, di materie prime rinnovabili e non rinnovabili – oltre a una nuova richiesta di spazio. Secondo l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), reso pubblico ad agosto, su 130 milioni di km² non coperti dai ghiacci la ripartizione della terra sarebbe la seguente (si tratta di stime molto approssimate): infrastrutture 1%; terre coltivate irrigate, 2%; coltivate non irrigate, 10%; pascoli intensivi 2%; altri pascoli 35%; piantagioni forestali 2%; altre foreste sfruttate per legname ed altri usi, 20%; terre con minimo o nessun intervento umano (inclusi i deserti), 28% [1].
Insomma, oltre il 70% delle terre è in qualche grado antropizzato. Una proporzione che tende a crescere in funzione dell’aumento della popolazione, che secondo le ultime valutazioni potrebbe aggiungere altri tre miliardi ai quasi otto attuali entro la fine del secolo.
L’estensione e l’intensificazione dell’antropizzazione pongono a rischio aree vitali per gli equilibri ambientali quali le grandi foreste pluviali e aree fragili come quelle costiere, rivierasche, o umide. La terra è un “pozzo” naturale che assorbe i gas serra – fattore del riscaldamento – mediante vari processi, quali la fotosintesi. Ma è anche produttrice di questi gas, quando la vegetazione brucia o si decompone. Secondo il rapporto citato [2], “circa il 23% delle emissioni di gas serra di origine umana proviene da agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo (Afolu)”.
Le emissioni sono prevalentemente dovute alla deforestazione, parzialmente compensate da imboschimenti e rimboschimenti e da altri usi del suolo.
“L’agricoltura è responsabile di circa la metà delle emissioni di metano indotte dall’uomo ed è la principale fonte di protossido di azoto, due gas ad effetto serra molto potenti. Allo stesso tempo, la biosfera terrestre assorbe quasi il 30% delle emissioni antropogeniche di CO2 grazie ai processi naturali. Tuttavia, questa funzione è vulnerabile agli impatti dei cambiamenti climatici (ad esempio a causa dell’aumento della siccità e degli incendi) e ad altre pressioni ambientali e umane”. I processi di antropizzazione possono alterare gli equilibri tra i vari ecosistemi, con effetti che possono essere negativi (per esempio, la deforestazione per espandere le terre coltivabili, per nuovi pascoli) o positivi (rimboschimenti).
Il rapporto analizza molti aspetti delle relazioni tra terra, clima e società in conseguenza del riscaldamento: la temperatura del globo, rispetto alla media del 1850-1900, è aumentata di quasi grado (Figura 1), che diventerà un grado e mezzo verso la metà del secolo. Il testo illustra i meccanismi del degrado dei suoli (Figura 2); indica le politiche da seguire per frenare o arrestare il degrado (la protezione delle foreste, i rimboschimenti in prima linea); suggerisce alcune modifiche alle dieta, in particolare un minore consumo di carni rosse (l’allevamento è responsabile di forti emissioni di gas serra) e maggiore consumo di vegetali e frutta.
Le ricadute sarebbero molto positive, dato che “una transizione diffusa verso diete più sane potrebbe liberare un’area compresa tra i 4 e i 25 milioni di km² al 2050… e avrebbe un potenziale di riduzione di emissione confrontabile alle emissioni generate dalla deforestazione mondiale”. Insomma i mutamenti delle abitudini alimentari possono rendere meno insostenibile l’aumento dei consumi prodotto dalla crescita demografica. Tuttavia a livello globale la tendenza va in direzione opposta, poiché all’aumento del reddito nei paesi poveri corrisponde un maggior consumo di carne, rendendo assai problematica la “transizione verso diete più sane” invocata dal rapporto in questione.
Nell’opinione pubblica i contenuti dell’ultimo rapporto sono stati veicolati in modo assai distorto. I dispacci di agenzie, i siti dei giornali e i blog hanno fatto a gara ad annunciare che il riscaldamento globale porterà un aumento delle malattie, della fame, delle migrazioni e dei conflitti nel mondo. Il lancio di un’agenzia nazionale di primaria importanza – ampiamente diffuso dai media – era: “Onu: il cambiamento climatico aumenterà fame e migrazioni”.
Peccato che il rapporto sfiori appena l’argomento delle migrazioni, avanzando solo ipotesi che però lo stesso Ipcc ritiene debolmente suffragate dai fatti. Per esempio: “c’è una corposa evidenza che indica che le decisioni migratorie sono motivate da un insieme complesso di motivazioni, tra le quali la desertificazione e il cambiamento climatico giocano ruoli minori” [3]. Oppure: “il legame tra degrado dei suoli e emigrazione si colloca nel più ampio contesto delle interazioni multilivello tra fattori ambientali e non ambientali” [4]. Che è un modo criptico per dire che essendo tanti i fattori che determinano le migrazioni, ogni ipotesi circa il loro andamento futuro è debole (quando non campata in aria).
Stesso discorso per i conflitti: “c’è scarsa evidenza che il cambiamento climatico e la desertificazione conducano a conflitti violenti. C’è una moderata evidenza, e un basso consenso, circa l’ipotesi che il mutamento climatico e la desertificazione contribuiscano al potenziale conflittuale che già esiste” [5]. In parole semplici: il riscaldamento globale crea desertificazione e condizioni di maggiore stress per le popolazioni che vivono in queste aree (Africa, Asia) e che crescono rapidamente; questo maggiore stress può alimentare i conflitti che sono però generati da innumerevoli fattori.
Le considerazioni precedenti non significano certo che il riscaldamento globale non abbia conseguenze demografiche rilevanti. Sono circa 3 miliardi le persone che vivono in zone aride (il 38% della popolazione mondiale), prevalentemente in Asia e Africa, e si calcola che nel 2050 raggiungeranno i 4 miliardi. Si stima che circa un sesto della popolazione delle zone aride viva in zone nelle quali è in atto un processo di desertificazione (Figura 3). Inoltre tutte le popolazioni delle zone aride sono molto vulnerabili alla desertificazione e al cambiamento climatico perché la loro sussistenza dipende prevalentemente dall’agricoltura.
Il settore forse più colpito è quello della pastorizia e dell’agro-pastorizia. Non ci sono dati precisi sulla consistenza numerica di chi le pratica, ma la maggior parte delle stime si pone tra i 100 e i 200 milioni, e di questi tra 30 e 63 milioni lo farebbero in forma nomadica. Si tratta di serbatoi demografici rilevanti che i cambiamenti climatici possono rendere maggiormente propensi alle migrazioni. In un quadro dimensionale imprecisato.
Le indagini dell’Ipcc toccano anche le conseguenze del cambiamento climatico sulla salute [6]. Un ennesimo campo complicato, perché solo in pochi casi si può trovare una precisa rispondenza tra i due elementi (un fulmine che uccide una persona o un’onda anomala che provoca un annegamento). In sintesi, si segnalano cinque punti: l’aumento dei rischi per la salute dovuto a più intense ondate di calore e incendi; maggiori rischi di denutrizione per una diminuita produzione agricola in alcune regioni povere; minore capacità di lavoro e perdita di produttività in popolazioni vulnerabili; maggiori rischi per malattie causate da microbi diffusi per via aerea, idrica o da altri vettori. Inoltre le conseguenze negative sulla salute nelle aree più calde supereranno quelle positive che il riscaldamento potrà avere nelle regioni più fredde.
Una notazione finale: l’Ipcc, operando sotto l’egida delle Nazioni Unite, non include – tra i suggerimenti circa le vie da seguire per frenare il riscaldamento e mitigare le sue conseguenze – una raccomandazione, peraltro ovvia. Con serie ed efficaci politiche sociali non coercitive sarebbe possibile, nei prossimi decenni, accelerare l’attuale lenta transizione verso una natalità moderata di popolazioni ancora con altissimo tasso d’incremento, come quelle dell’Africa sub-sahariana. Secondo le ultime proiezioni delle Nazioni Unite, se nel 2050 i popoli subsahariani scendessero a 2,6 figli per donna (dagli attuali 4,7, anziché ai 3,1 previsti), conterebbero “solo” 850 milioni di abitanti in più rispetto a oggi, invece dei 1.124 in più previsti.
Ma la natalità è un tema politicamente sensibile che, pur se ben conosciuto da tutti, in sede Onu non può essere invocato.
[1] IPCC, Climate Change and Land, https://www.ipcc.ch/report/srccl/
[2] Più correttamente, secondo sua sintesi, disponibile nel sito italiano dell’IPCC, https://ipccitalia.cmcc.it/i-punti-essenziali-di-climate-change-and-land-il-rapporto-speciale-ipcc/
[3] Climate, cit, chapter 3, p. 39
[4] Ibidem, chapter 3, p. 57
[5] Ibidem, chapter 3, p. 39
[6] Ipcc, Global warming of 1.5 °C, https://www.ipcc.ch/sr15/
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