Conversazione con Shen Dingli, professore all’Istituto di studi internazionali presso l’Università Fudan di Shanghai.
a cura di Giorgio Cuscito
Giorgio Cuscito, che sarà nostro ospite a Trieste all' incontro del 21 maggio, ha avuto l’occasione di intervistare il professor Shen Dingli.
Si è parlato delle priorità di politica estera della Cina, in particolare dei rapporti con gli Usa, la Corea del Nord, Taiwan e il Vaticano.
Si è parlato delle priorità di politica estera della Cina, in particolare dei rapporti con gli Usa, la Corea del Nord, Taiwan e il Vaticano.
LIMES Quale è secondo lei la questione di politica estera più pressante per la Cina in questo momento?
SHEN La più importante riguarda senza dubbio le relazioni con gli Stati Uniti. Non solo per l’ovvia rilevanza dei rapporti bilaterali, ma poiché il loro stato si riflette su altri tre dossier fondamentali per la geopolitica cinese: la denuclearizzazione della penisola coreana, le relazioni tra Repubblica Popolare e Giappone e quelle tra Cina continentale e Taiwan.
Se i rapporti tra Pechino e Washington si stabilizzeranno, i due governi potranno cooperare nel dialogo con P’yongyang, Formosa non cercherà l’indipendenza e il Giappone eviterà di alimentare le tensioni con la Cina.
Qualora invece le relazioni sinostatunitensi peggiorino, Taiwan potrebbe prendere coraggio e sfruttare il malumore di Washington contro Pechino. Tokyo potrebbe alimentare il nazionalismo nipponico e rivendicare in maniera più audace la sovranità nel Mar Cinese Orientale. Infine, la Corea del Nord potrebbe usare la scarsa fiducia tra Cina e Stati Uniti a proprio vantaggio, rimandando la questione della denuclearizzazione.
LIMES Gli incontri di Kim Jong-un con Moon Jae-in, Donald Trump e Xi Jinping porteranno alla denuclearizzazione della penisola coreana?
SHEN Secondo me, P’yongyang non smantellerà mai completamente l’arsenale atomico. La Corea del Nord ha speso troppo tempo e denaro nel programma nucleare per rinunciarvi ora. Farà finta di abbandonarlo totalmente solo per ottenere gli aiuti economici.
Se potesse, P’yongyang diventerebbe una potenza nucleare, sviluppando allo stesso tempo la propria economia. Le sanzioni economiche adottate dagli Usa e dalla Repubblica Popolare l’hanno obbligata a scegliere tra i due obiettivi.
Kim ha dato la priorità al primo per evitare che in Corea del Nord si verifichi quanto è già accaduto in Libia e in Iraq, entrambi attaccati in parte perché privi della bomba. Al contrario, dopo la crisi in Ucraina e la riconquista della Crimea da parte di Mosca, gli Usa non hanno colpito direttamente la Russia anche perché si tratta di una potenza nucleare.
Se dovesse fare una scelta, P’yongyang preferirebbe avere un’economia debole ma vivere al sicuro dagli attacchi esterni piuttosto che prosperare ed essere esposta alle minacce dei paesi stranieri. Ad ogni modo, una volta diventata potenza nucleare, la Corea del Nord cercherà di sviluppare la propria economia.
Gli Usa non interromperanno le sanzioni a meno che non avverrà il completo, verificabile e irreversibile smantellamento dell’apparato nucleare. Ma la Corea del Nord non permetterà ispezioni approfondite.
Piuttosto sottolineerà che è la minaccia statunitense ad averla spinta a sviluppare il programma nucleare. Soprattutto, Kim chiederà a Washington di rimuovere le sanzioni, ritirare almeno una parte delle sue truppe dalla Corea del Sud e interrompere parzialmente le esercitazioni militari con Seoul, per dimostrare che gli Usa non vogliono mettere a repentaglio la sicurezza della Corea del Nord. Se quest’ultima intraprendesse la strada della denuclearizzazione, la Cina potrebbe chiedere agli Usa di rimuovere il sistema antimissile Thaad.
Per gli Stati Uniti sarebbe difficile accettare tutte queste precondizioni. P’yongyang e Washington dovranno raggiungere un compromesso per ottenere dei risultati.
LIMES Il ritiro delle truppe Usa dalla Corea del Sud converrebbe anche alla Cina, visto che sono lì principalmente per contenere la Repubblica Popolare.
SHEN I soldati statunitensi sono a Sud del 38° parallelo per contenere la Corea del Nord, la Cina, la Russia e l’emergere di qualsiasi forza antagonista, inclusi eventualmente Corea del Sud e Giappone. In una certa misura, la presenza militare degli Usa stabilizza la regione. Se Washington optasse per il ritiro, Seoul potrebbe essere spinta a dotarsi della bomba contro P’yongyang. Lo stesso accadrebbe se le truppe Usa lasciassero il Giappone. In quel caso, Pechino sarebbe maggiormente interessata a prendere il controllo delle isole contese nel Mar Cinese Orientale. Tokyo potrebbe utilizzare questa pressione come scusa per dotarsi della bomba. Ciò sarebbe potenzialmente pericoloso anche per gli Usa.
Per queste ragioni, è improbabile che le truppe statunitensi lascino la Corea del Sud.
La presenza di Washington stabilizza anche i rapporti a cavallo dello Stretto di Taiwan. Se oggi la Cina continentale tentasse di integrare l’isola con la forza, gli Stati Uniti interverrebbero per impedirglielo in base al Taiwan Relations Act. La Repubblica Popolare lo sa e quindi impiega più tempo per evitare ciò, prevenendo oggi il conflitto con Taipei e quello con Washington.
Gli Stati Uniti ridurrebbero parzialmente la loro presenza militare solo se la Corea del Nord abbandonasse il nucleare. In ogni caso, le truppe non se ne andrebbero completamente. Del resto, durante la Guerra Fredda la Nato doveva contenere l’espansione dell’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia; oggi fa lo stesso nei riguardi della Federazione Russa e punta a “mantenere” la stabilità in Eurasia.
LIMES La Corea del Nord è amica o nemica della Cina?
SHEN Dipende dai punti di vista. Sul piano economico, questo paese dipende dalla Repubblica Popolare e non ha nulla da offrire in cambio, per esempio capitali da investire, tecnologia, un mercato di destinazione appetibile. Tuttavia, la Corea del Nord svolge un ruolo strategico, anche per quanto riguarda la questione di Taiwan.
Se Taipei si avventurasse lungo la strada dell’indipendenza, Pechino dovrebbe attuare la legge anti-secessione e impiegare mezzi non pacifici. In questo modo, Taiwan sarebbe obbligata ad arrendersi o a ripristinare lo status quo sulla base del principio “una Sola Cina”. In tal caso, gli Usa però potrebbero intervenire in difesa dell’isola, in base al Taiwan Relations Act.
A quel punto, Seoul si guarderebbe bene dal permettere a Washington di utilizzare le risorse militari attive in Corea del Sud per il bene della contingenza di Taiwan, nel timore che tale situazione la esponga alla minaccia nordcoreana. Ciò spingerebbe gli Usa a usare truppe provenienti da altre basi (per esempio Giappone, Guam e Hawaii), mossa che potrebbe richiedere più tempo.
Questa condizione giova indirettamente alla Cina, la quale tuttavia non vuole che P’yongyang diventi una potenza nucleare perché minaccerebbe sia la sicurezza periferica della Cina nordorientale sia quella dell’Asia Pacifico. Per questa combinazione di fattori la Repubbica Popolare non vuole che la Corea del Nord collassi.
LIMES Che implicazioni hanno le relazioni tra Vaticano e Taiwan per la Cina?
SHEN Il Vaticano non vuole creare i presupposti di un conflitto a cavallo dello Stretto. Riconosce i progressi compiuti da Pechino nell’assicurare un maggiore benessere alla Cina continentale. Se fosse costretta a scegliere, la Santa Sede preserverebbe i rapporti con quest’ultima in quanto più popolosa e importante a livello internazionale rispetto all’isola. Per Taipei esiste legalmente una sola Cina, la “Repubblica di Cina”, che comprende anche quella continentale. Come tutti i paesi che hanno relazioni diplomatiche con la Santa Sede, Taiwan ha pagato un costo di “sovranità”: accettare che il Vaticano nomini i vescovi.
La Repubblica Popolare invece non ammette interferenze nella propria sovranità e ciò rappresenta il principale ostacolo alla normalizzazione delle relazioni sino-vaticane.
Ci sono voci secondo cui Pechino e la Santa Sede stanno negoziando per trovare un compromesso, tramite uno sforzo collaborativo. Se raggiungessero questo traguardo, credo che il Vaticano aprirebbe ufficialmente le relazioni con Pechino e lascerebbe un ufficio di rappresentanza economico o culturale a Taipei, come hanno fatto molti altri paesi in questi anni. Taiwan perderebbe la faccia, ma probabilmente manterrebbe rapporti non ufficiali con la Santa Sede.
La normalizzazione dei rapporti tra Cina e Vaticano avrebbe un forte impatto per il soft power di Pechino. Primo, un altro Stato smetterebbe di riconoscere la “sovranità” di Taiwan, riducendone lo spazio di manovra diplomatica.
Secondo, il Vaticano – in quanto punto di riferimento dei cattolici nel mondo – ha un forte ascendente culturale. Se la Santa Sede riconoscesse formalmente la Repubblica Popolare, ridurrebbe la distanza tra quest’ultima e l’Occidente.
Del resto la diffusione della cultura cinese nel mondo globalizzato è più armoniosa se in Cina si praticano allo stesso tempo sia le religioni tradizionali sia quelle straniere. Infine, la normalizzazione delle relazioni sino-vaticane inciderebbe positivamente sull’umore e sulla fiducia della popolazione cinese.
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