Dalle velleità necon ai tweet di Trump, passando per la linea rossa di Obama: amici e nemici ormai hanno capito che degli Usa in Medio Oriente non ci si può fidare.
Ogni giorno che passa in Siria, la vittoria di Bashar al-Assad diventa più concreta. E palese appare la sconfitta dei ribelli sostenuti dall’Arabia Saudita, insieme agli Stati Uniti e alle principali potenze atlantiche.
L’ennesima strage di civili a Duma, nella Ghuta orientale, che secondo fonti ribelli e occidentali sarebbe da attribuire all’impiego di gas letali da parte del regime, sancisce la resa dei miliziani filosauditi di Jaish al-Islam e rafforza Damasco nella convinzione di poter completare il controllo sulle regioni strategiche del paese, grazie al supporto della strana alleanza Teheran-Mosca-Ankara. Ovvero tra due potenze – Iran e Russia – che Washington bolla nemiche e una – la Turchia – che appartiene alla sua (e nostra) alleanza, la Nato. Ma non per questo si accoda agli Stati Uniti. Anzi.
Questo paradossale triangolo è frutto dell’incredibile sequenza di errori, esitazioni e virate tattiche compiute dagli Stati Uniti in Medio Oriente dopo la fine della guerra fredda. In particolare, con la liquidazione di Saddam che ha consegnato l’Iraq all’influenza iraniana, favorendo così un asse Beirut (Libano)-Herat (Afghanistan occidentale) via Damasco e Bagdad, centrato su Teheran.
Il rapsodico appoggio occidentale ai vari gruppi ribelli – in parte neo- o veteroqaidisti, in altra parte solo velleitari, comunque formidabili nell’annullarsi reciprocamente – ha convinto i nemici ma soprattutto gli amici di Washington che degli Stati Uniti non c’è da fidarsi. Non fosse che per l’incoerenza fra promesse e inazioni, retorica militarista e disimpegno militare. Ne sanno qualcosa i curdi siriani, chissà perché convinti che gli americani potessero scendere in guerra contro i turchi, formalmente loro alleati, per lasciar nascere un Kurdistan siriano a ridosso delle aree anatoliche in cui operano i confratelli del Pkk, nemici giurati di Ankara.
Le oscillazioni della politica americana in Siria e nella regione si debbono ai dissidi fra le fazioni che nell’establishment americano decidono – più spesso non decidono – la geopolitica a stelle e strisce. Vi contribuiscono poi l’erraticità dei presidenti, volti visibili e rappresentativi dell’America nel mondo. Dalle velleità rivoluzionarie di Bush figlio, che nella versione neocon evocava il “Nuovo Medio Oriente” liberale, democratico, quindi filo-americano; al mezzo disimpegno di Obama, frenato dai militari e passato alla storia per il bluff della “linea rossa” che avrebbe indotto la superpotenza a liquidare al-Assad nel caso mettesse mano al gas nervino; fino al tragicomico festival dei tweet trumpiani.
Nel giro di pochi giorni, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha prima fatto sapere che avrebbe riportato a casa al più presto le sue scarse truppe (duemila uomini circa) dato che ormai lo Stato Islamico era defunto, poi ha lasciato filtrare che a malincuore ci aveva ripensato perché avrebbe consegnato la Siria al pur improbabile asse Iran-Russia-Turchia. Infine – ma attendiamoci ulteriori puntate – ieri si è scagliato contro “l’animale” al-Assad assicurando che pagherà un “forte prezzo” per il massacro di Douma. Vedremo. Certo che un nuovo bombardamento punitivo contro installazioni del regime non potrebbe alterare gli equilibri sul terreno.
La guerra non è finita. Si apre una nuova fase, in cui i provvisori vincitori dovranno spartirsi il bottino, demarcare le linee di influenza, valutare la tenuta della loro intesa. Non è scontato che accada. La storia informa che fra Turchia, Russia e Iran, potenze imperiali, le dispute hanno di norma prevalso sulle intese. Allo stesso tempo, non si vede come gli Stati Uniti possano decidere di rientrare a pieno regime in Medio Oriente, dopo averne declassato il valore geostrategico ed economico.
A meno che le ambizioni della Cina, sempre più attiva e influente nella regione, non inducano una revisione strategica a Washington. Quanto a noi europei, coltiviamo una certezza: altre masse di siriani disperati busseranno via Turchia alla nostra porta. Deciderà il sultano se riaprire o meno la rotta balcanica, peraltro mai ermeticamente chiusa. E se no, in cambio di cosa.
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