La netta vittoria alle legislative del premier uscente dell’Ungheria, Viktor Orbán, approfondirà la faglia fra Budapest e l’Europa occidentale. E conferirà maggior peso al leader magiaro fra i paesi del blocco orientale dell’Ue determinati a brandire il nazionalismo (soprattutto in senso etnico) come leva del consenso.
Conquistati due terzi dei seggi al parlamento (133/199, frutto del 49% circa dei suffragi), il suo partito Fidesz ha ora i numeri per approvare in solitaria modifiche alla Costituzione. E a sentire i temi evocati in campagna elettorale i suoi principali bersagli saranno il magnate americano George Soros, i migranti e l’Unione Europea stessa. Proseguendo in misure come quelle contro le ong o nel muro contro muro con Bruxelles sull’accoglienza dei rifugiati. Filo rosso: offrirsi come scudo nazionalista di fronte alle minacce percepite da un orgoglioso paese ripiegato su stesso dopo l’implosione dell’impero austro-ungarico e il dominio comunista.
Il crescente consenso del primo ministro ricorda che il suo operato non va giudicato – come troppo spesso si tende a fare – come mera iniziativa personale. Orbán ha successo perché è espressione di istanze influenti nella società magiara. In altri termini, non sarebbe una caduta di Orbán a modificare la condotta in Europa dell’Ungheria.
Ne ha scritto su Limes Stefano Bottoni:
Orbán è mosso dalla consapevolezza che il suo e altri paesi della regione siano finalmente (ri)entrati a far parte dell’Occidente e abbiano oggi il diritto di parlare «da occidentali» senza prendere lezioni da nessuno.Comunque si valuti l’offerta ideologica tradizionalista e apertamente «sovranista» del premier ungherese, bisogna accettare di vivere in un’epoca multipolare, sia nel campo della diplomazia globale sia nel campo dei rapporti di forza all’interno dell’Unione Europea. Le élite centro ed est-europee, Orbán in testa, hanno acquisito un bagaglio di esperienza e un patrimonio di conoscenza dei meccanismi europei dall’interno che le rende molto meno docili di un decennio fa.Sbaglia chi crede oggi di poter parlare a Budapest, Varsavia o Praga con la stessa supponenza utilizzata con successo in passato. L’approccio adottato dalle autorità di Bruxelles nei confronti della «rivolta» pacifica di Orbán si è rivelato finora controproducente. Chi minaccia sanzioni in nome dei «valori europei», senza avviare una discussione di fondo sul futuro dell’Europa né trovare il coraggio di punire davvero chi rema contro, legittima involontariamente la critica orbaniana all’establishment europeo.
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