Che cos’altro deve accadere perché noi europei ci si renda conto che non viviamo fuori dalla storia, in un giardino dell’Eden dove armoniosamente coltiviamo i nostri valori (quali?), retto dal diritto internazionale e dalle regole del buon vicinato?
A ricordarcelo dovrebbe bastare il clima di scontro permanente e astioso che si è creato fra i principali paesi europei, Italia compresa, e la Turchia del presidente/sultano Recep Tayyip Erdoğan. Dal controllo dei media alle vessazioni nei confronti di chi nel suo paese non consente con lui, dalle avventure militari in Siria ai rapporti speciali quanto ambigui con la Russia, dall’uso delle diaspore turche in Europa fino alla crisi in corso intorno ai giacimenti di gas ciprioti, che coinvolge direttamente l’Eni e quindi il nostro paese: l’elenco delle partite in corso è impressionante.
Ridurre tutto alla peculiare personalità di Erdoğan sarebbe fuorviante. Alla radice c’è un nostro errore di percezione, che ci ha spinto per decenni a considerare la Turchia come avamposto dell’Occidente, nostro alleato atlantico, da integrare prima o poi nell’Unione Europea. Ciò proprio mentre Ankara recuperava già negli anni Novanta del secolo scorso, e poi in maniera esplicita con Erdoğan, la sua vocazione imperiale. Neo-ottomana, panturca e panislamica.
Per il presidente turco il riferimento non è Bruxelles – “capitale” dell’Unione Europea in fase di graduale disgregazione secondo agende nazionali o addirittura subnazionali. Semmai lo sono Maometto il Conquistatore o Solimano il Magnifico. Naturalmente il paragone, stabilito dallo stesso Erdoğan, con i suoi Grandi del passato è sproporzionato. E infatti la Turchia, imbarcata contemporaneamente in dispute e conflitti da cui non riesce a uscire e che ne stanno logorando le legature sociali, l’economia e lo stesso strumento militare, appare destinata a pagare un prezzo molto salato per voler apparire ciò che non è: una grandiosa potenza in ascesa.
Erdoğan ama il teatro, la provocazione. Fino a ribattezzare la via dove si trova l’ambasciata americana ad Ankara con il nome dell’operazione militare in corso contro i curdi nel Nord della Siria – Ramoscello d’Olivo – in occasione della visita del segretario di Stato Usa, Rex Tillerson.
Ora però la questione ci riguarda da molto vicino. Il blocco della nave Eni destinata all’esplorazione di giacimenti di idrocarburi in acque cipriote da parte di unità militari turche, impegnate in esercitazioni di cui l’Italia non era a quanto pare informata, incide nei già logorati rapporti fra Roma e Ankara. Forse esiste un collegamento fra il pessimo clima in cui si sono svolti i recenti colloqui fra Mattarella, Gentiloni e il presidente turco, e il trattamento riservato alla piattaforma “ Saipem 12000”.
Siamo finiti dentro all’infinita, forse infinibile disputa fra Grecia, Turchia e le due Cipro di fatto (di cui quella Nord riconosciuta solo dalla Turchia), in cui Ankara difende i presunti diritti propri e del suo satellite cipriota sui più che promettenti giacimenti in acque che Nicosia, appoggiata dagli europei e non solo, considera proprie. Una nave turca ha speronato un guardacoste greco, mentre Erdoğan ha tuonato contro le “spacconerie” di Atene e delle diplomazie europee che vogliono estromettere i turchi dal “loro” Mediterraneo orientale.
Le manovre della flotta turca dovrebbero concludersi il 22 febbraio. Illudersi che questo termine coincida con la soluzione del caso sarebbe pericoloso. Dall’epicentro siriano la crisi si sta diffondendo in tutto il Levante, fino all’Egeo. Riguarda ormai tutte o quasi le principali potenze regionali e mondiali. Ciascuna impegnata a difendere i propri interessi, in ordine sparso.
Il caso “Saipem 12000” non è solo questione di gas e di soldi. Investe il nostro rango e le priorità geopolitiche nazionali. Sarà confortante constatare come, malgrado le baruffe elettorali, le nostre autorità politiche e istituzionali si sveleranno all’altezza della sfida. O no?
Lucio Caracciolo
Direttore di Limes
Direttore di Limes
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