THE WEEKLY TRUMP
Questa settimana lo Stato profondo Usa e il presidente Trump sono tornati a dominare il ciclo delle notizie.
Il primo (inteso come assortimento di Pentagono, Dipartimento di Stato, Cia, Nsa e resto della comunità dell’intelligence) si è ripreso la scena dopo esser stato messo in secondo piano dal dialogo olimpico intercoreano e dalle guerre di Siria.
La notizia di un rapporto dell’Onu sulla collaborazione tra il regime di Assad e quello di Kim Jong-un, ancora inedito ma già recapitato da una mano amica alla redazione del New York Times, non serve tanto ad accusare Damasco e Pyongyang quanto a mettere in guardia i loro rispettivi tutori. Russia e Cina sono considerati avversari ed è il caso che loro – e lo stesso Trump, che su Putin aveva idee diverse – non lo dimentichino.
Come in passato, The Donald ha scelto di avere l’ultima parola prima che il circo mediatico andasse in ferie per il fine settimana. Così, dopo giorni turbolenti per la retrocessione del nullaosta di sicurezza al genero Jared Kushner e le dimissioni della direttrice delle comunicazioni della Casa Bianca Hope Hicks, il presidente giovedì si è superato: ha annunciato un annuncio, che dovrebbe esserci la settimana prossima e dovrebbe riguardare l’innalzamento di dazi sull’importazione di acciaio e alluminio. Il condizionale è d’obbligo visto la contrarietà quasi unanime che la mossa ha già suscitato.
Critica la misura protezionista non solo la Cina, che ne è il principale bersaglio simbolico, visto che l’annuncio è arrivato mentre il principale consigliere economico di Xi Jinping era a Washington. Anche i soci del Nafta, il Giappone, il Brasile e l’Unione Europea sono pronti alla rappresaglia. Soprattutto, si oppongono parlamentari e aziende statunitensi.
La settimana prossima vedremo fino a dove è disposto a spingersi Trump pur di poter rivendicare l’ennesima promessa elettorale mantenuta.
Il primo (inteso come assortimento di Pentagono, Dipartimento di Stato, Cia, Nsa e resto della comunità dell’intelligence) si è ripreso la scena dopo esser stato messo in secondo piano dal dialogo olimpico intercoreano e dalle guerre di Siria.
La notizia di un rapporto dell’Onu sulla collaborazione tra il regime di Assad e quello di Kim Jong-un, ancora inedito ma già recapitato da una mano amica alla redazione del New York Times, non serve tanto ad accusare Damasco e Pyongyang quanto a mettere in guardia i loro rispettivi tutori. Russia e Cina sono considerati avversari ed è il caso che loro – e lo stesso Trump, che su Putin aveva idee diverse – non lo dimentichino.
Come in passato, The Donald ha scelto di avere l’ultima parola prima che il circo mediatico andasse in ferie per il fine settimana. Così, dopo giorni turbolenti per la retrocessione del nullaosta di sicurezza al genero Jared Kushner e le dimissioni della direttrice delle comunicazioni della Casa Bianca Hope Hicks, il presidente giovedì si è superato: ha annunciato un annuncio, che dovrebbe esserci la settimana prossima e dovrebbe riguardare l’innalzamento di dazi sull’importazione di acciaio e alluminio. Il condizionale è d’obbligo visto la contrarietà quasi unanime che la mossa ha già suscitato.
Critica la misura protezionista non solo la Cina, che ne è il principale bersaglio simbolico, visto che l’annuncio è arrivato mentre il principale consigliere economico di Xi Jinping era a Washington. Anche i soci del Nafta, il Giappone, il Brasile e l’Unione Europea sono pronti alla rappresaglia. Soprattutto, si oppongono parlamentari e aziende statunitensi.
La settimana prossima vedremo fino a dove è disposto a spingersi Trump pur di poter rivendicare l’ennesima promessa elettorale mantenuta.
IL DISCORSO DI PUTIN [di Orietta Moscatelli]
Monito e sfida agli Usa e alla Nato, il discorso con cui Vladimir Putin si è lanciato nell’ultimo miglio della campagna verso le imminenti presidenziali è ancora di più un messaggio alla ‘sua nazione’. Una chiamata alle armi e alle urne: i russi devono votarlo il 18 marzo come se fosse una vera gara elettorale e non una scontata vittoria a fronte di altri sette candidati irrilevanti.
La parola chiave dell’intervento davanti alle camere parlamentari riunite è “invincibile”. Vale per i nuovi missili balistici e i vari nuovi prodotti dell’arsenale nucleare russo presentati come la garanzia che “ora ci ascolteranno” in Occidente. E vale per lo stesso Putin, imbattibile leader dopo quasi un ventennio al potere, deciso a restare per almeno altri sei anni – poi si vedrà.
Oltre alla dose di patriottico orgoglio che resta il piatto forte dell’offerta elettorale putiniana, il capo del Cremlino ha promesso di dimezzare la povertà nei prossimi sei anni, di raddoppiare i fondi per le strade regionali, aumentare le risorse per le infrastrutture, costruire nuovi aeroporti e molto altro. Un carrello elettorale per tutte le esigenze, che solo lui può offrire.
Lui, presidente che entra nel suo quarto mandato da “invincibile”, ma cosciente che dal 19 marzo la vera sfida sarà tenere assieme una macchina del potere inevitabilmente proiettata nel “dopo-Putin”. Con il concreto pericolo che le lotte per la successione (già ampiamente in corso) e la voglia di cambiamento che serpeggia nella sconfinata Federazione russa sfocino in turbolenze dall’esito imprevedibile.
La parola chiave dell’intervento davanti alle camere parlamentari riunite è “invincibile”. Vale per i nuovi missili balistici e i vari nuovi prodotti dell’arsenale nucleare russo presentati come la garanzia che “ora ci ascolteranno” in Occidente. E vale per lo stesso Putin, imbattibile leader dopo quasi un ventennio al potere, deciso a restare per almeno altri sei anni – poi si vedrà.
Oltre alla dose di patriottico orgoglio che resta il piatto forte dell’offerta elettorale putiniana, il capo del Cremlino ha promesso di dimezzare la povertà nei prossimi sei anni, di raddoppiare i fondi per le strade regionali, aumentare le risorse per le infrastrutture, costruire nuovi aeroporti e molto altro. Un carrello elettorale per tutte le esigenze, che solo lui può offrire.
Lui, presidente che entra nel suo quarto mandato da “invincibile”, ma cosciente che dal 19 marzo la vera sfida sarà tenere assieme una macchina del potere inevitabilmente proiettata nel “dopo-Putin”. Con il concreto pericolo che le lotte per la successione (già ampiamente in corso) e la voglia di cambiamento che serpeggia nella sconfinata Federazione russa sfocino in turbolenze dall’esito imprevedibile.
XI PER SEMPRE [dal Bollettino Imperiale di fine febbraio]
È quasi certo che Xi Jinping sarà presidente della Repubblica Popolare anche dopo il 2022. Uno degli emendamenti proposti dal comitato centrale del Partito comunista cinese (Pcc) prevede infatti l’eliminazione del limite di due mandati. Questo cambiamento sarà probabilmente ratificato al Congresso nazionale del popolo, che inizierà il prossimo 5 marzo.
Da tempo si ipotizzava che Xi avrebbe guidato la Cina anche dopo il suo secondo mandato, preservando magari il ruolo di segretario di Partito o di capo delle Forze armate. Del resto, queste due cariche implicano maggiori poteri decisionali rispetto a quella di presidente. Quest’ultima potrebbe subire un rafforzamento in futuro.
Xi potrebbe aver scelto di svolgere almeno un terzo mandato per due ragioni. In primo luogo, preservare i tre ruoli complicherebbe ulteriormente eventuali tentativi di estromissione da parte degli avversari interni al Pcc. In secondo luogo, il cambiamento potrebbe essere dipeso dalla convinzione interna al Partito che solo una leadership solida e guidata da Xi sia in grado di gestire le sfide economiche, sociali e geopolitiche che la Cina deve affrontare per perseguire il cosiddetto “risorgimento della nazione” entro il 2050.
Da tempo si ipotizzava che Xi avrebbe guidato la Cina anche dopo il suo secondo mandato, preservando magari il ruolo di segretario di Partito o di capo delle Forze armate. Del resto, queste due cariche implicano maggiori poteri decisionali rispetto a quella di presidente. Quest’ultima potrebbe subire un rafforzamento in futuro.
Xi potrebbe aver scelto di svolgere almeno un terzo mandato per due ragioni. In primo luogo, preservare i tre ruoli complicherebbe ulteriormente eventuali tentativi di estromissione da parte degli avversari interni al Pcc. In secondo luogo, il cambiamento potrebbe essere dipeso dalla convinzione interna al Partito che solo una leadership solida e guidata da Xi sia in grado di gestire le sfide economiche, sociali e geopolitiche che la Cina deve affrontare per perseguire il cosiddetto “risorgimento della nazione” entro il 2050.
GEOPOLITICA DEL BREXIT [di Federico Petroni]
La settimana del Brexit ha riportato la geopolitica (finalmente) al centro dei negoziati sull’uscita del Regno Unito dall’Ue.
Bruxelles ha pubblicato la propria versione della bozza di accordo sul Brexit per costringere il primo ministro britannico Theresa May ad articolare proposte concrete nel suo discorso di venerdì.
La premier ha risposto sostenendo che Londra non riconoscerà più la giurisdizione della Corte di giustizia europea; vuole un trattato di libero scambio selettivo come quello fra Ue Corea del Sud, non soluzioni onnicomprensive come quelle con Canada e Norvegia; è aperta a discutere, una volta cessata la libera circolazione delle persone, nuove facilitazioni a specifici flussi migratori; vuole restare nelle agenzie continentali per l’aviazione, i medicinali e i prodotti chimici.
Il discorso più spinoso riguarda l’Irlanda del Nord. Nella bozza unilaterale, Bruxelles era giunta alla conclusione che se Londra vuole mantenere poroso il confine fra Eire e Ulster, quest’ultimo resterà nell’unione doganale europea. Di fatto completando, almeno dal punto di vista commerciale, il processo d’unificazione dell’isola d’Irlanda.
May si è barcamenata. Non poteva sottoscrivere la sottrazione di parte del territorio nazionale. Ma non poteva nemmeno ventilare la permanenza del Regno Unito nell’unione doganale, perché ciò tradirebbe uno degli slogan preferiti dei sostenitori del Brexit (“riprendiamo il controllo dei nostri confini”). Invece, sostenendo che l’80% degli scambi fra le due Irlande coinvolgono piccole-medie imprese, ha di fatto suggerito di lasciare il confine così com’è, solo potenziando soluzioni tecnologiche e introducendo procedure semplificate per attori commerciali registrati.
Per capire se la questione nordirlandese si surriscalderà ulteriormente, occorre monitorare la reazione dell’Ue e di Dublino. Qualora la burocrazia brussellese insista sulla lettera dell’unione doganale vorrebbe dire che esiste in alcune cancellerie europee l’intenzione strategica di indebolire il Regno Unito, sottraendo l’Ulster alla sua sfera d’influenza.
Bruxelles ha pubblicato la propria versione della bozza di accordo sul Brexit per costringere il primo ministro britannico Theresa May ad articolare proposte concrete nel suo discorso di venerdì.
La premier ha risposto sostenendo che Londra non riconoscerà più la giurisdizione della Corte di giustizia europea; vuole un trattato di libero scambio selettivo come quello fra Ue Corea del Sud, non soluzioni onnicomprensive come quelle con Canada e Norvegia; è aperta a discutere, una volta cessata la libera circolazione delle persone, nuove facilitazioni a specifici flussi migratori; vuole restare nelle agenzie continentali per l’aviazione, i medicinali e i prodotti chimici.
Il discorso più spinoso riguarda l’Irlanda del Nord. Nella bozza unilaterale, Bruxelles era giunta alla conclusione che se Londra vuole mantenere poroso il confine fra Eire e Ulster, quest’ultimo resterà nell’unione doganale europea. Di fatto completando, almeno dal punto di vista commerciale, il processo d’unificazione dell’isola d’Irlanda.
May si è barcamenata. Non poteva sottoscrivere la sottrazione di parte del territorio nazionale. Ma non poteva nemmeno ventilare la permanenza del Regno Unito nell’unione doganale, perché ciò tradirebbe uno degli slogan preferiti dei sostenitori del Brexit (“riprendiamo il controllo dei nostri confini”). Invece, sostenendo che l’80% degli scambi fra le due Irlande coinvolgono piccole-medie imprese, ha di fatto suggerito di lasciare il confine così com’è, solo potenziando soluzioni tecnologiche e introducendo procedure semplificate per attori commerciali registrati.
Per capire se la questione nordirlandese si surriscalderà ulteriormente, occorre monitorare la reazione dell’Ue e di Dublino. Qualora la burocrazia brussellese insista sulla lettera dell’unione doganale vorrebbe dire che esiste in alcune cancellerie europee l’intenzione strategica di indebolire il Regno Unito, sottraendo l’Ulster alla sua sfera d’influenza.
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