Parah Khanna è stato ospite del Limes Club Trieste dove ha presentato il suo libro "La Rinascita delle Città Stato"
INTERVISTA A PARAG KHANNA
Il Covid-19 ridisegna il mondo- I leader del mondo, chi vince e chi perde,
secondo il politologo indiano Parag Khanna, dalla sua casa di Singapore. di Orlando Trinchi *pubblicato sull’ ultimo mumero di East-West
‘‘La risposta pandemica ha messo in luce come alcune società quali Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore abbiano saputo esprimere quella valida combinazione di leadership affidabili, competenze indipendenti, consultazione pubblica, preparazione alla crisi e resilienza nazionale che ci aspettiamo dai migliori governi del mondo”.
Le parole del politologo
indiano naturalizzato statunitense Parag Khanna – che attualmente vive a
Singapore e, confida, avrebbe intenzione di continuare a viverci anche nel
prossimo futuro – tratteggiano in maniera decisa e articolata il modello
offerto dalle sofisticate e funzionali società asiatiche, al centro di suoi
recenti lavori come “La rinascita delle
città-stato”. “In che direzione
dovrebbe andare l’Europa?” (2017) e “Il
secolo asiatico?” (2019), editi in Italia da Fazi.
Affabile, misurato nei modi, il 42enne esperto di politiche internazionali nonché fondatore e socio amministratore di FutureMap – società di consulenza strategica basata su dati e scenari – riflette sulle diverse modalità attraverso cui si sta affrontando, e, in alcuni casi, gradualmente arginando, la diffusione del Coronavirus, rimarcando la necessità, al riguardo, di un adeguato impiego della tecnologia, che non sia lesivo della privacy e si inscriva in un orizzonte culturale di equilibrio dei poteri e trasparenza democratica.
Parag Khanna, in base anche a quella multipolarità asiatica da lei analizzata nel suo recente libro The Future is Asian, la Cina – da cui pure il contagio è partito – e la Corea del Sud hanno fornito entrambe risposte differenti ed efficaci all’emergenza. Cosa potremmo imparare dal loro approccio?
I governi di Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, Singapore e Giappone hanno fatto meglio in quanto possiedono sistemi di assistenza sanitaria molto efficienti e sono molto attenti alle fasce più anziane. Non bisogna dimenticare che, circa vent’anni fa, hanno avuto esperienza dell’epidemia di Sars.
I loro cittadini hanno fiducia nel governo, così che, quando i medici professionisti impartiscono istruzioni, abitualmente vengono ascoltati. Ricordiamo che uno ogni dieci o, al massimo, uno ogni venti membri del Parlamento di Singapore è un medico, quindi sa di cosa si sta parlando: la popolazione segue le loro logiche direttive, affidandosi in tal modo a esperti del settore. Mentre l’Occidente guarda all’Asia con una certa superficialità e sufficienza, penso che sia tempo di analizzare in modo adeguato le loro sofisticate società, cosa che ho fatto anche in alcuni miei lavori.
Abbiamo molto da imparare riguardo la gestione di talune problematiche attraverso quella che ho definito la “via tecnocratica”. In un mio libro del 2017, La rinascita delle città-stato (Fazi Editore), ho percorso il mondo alla ricerca delle migliori pratiche di governance inclusiva e reattiva e ho costruito un modello chiamato “tecnocrazia diretta”, che combina insieme un esecutivo a presidenza collettiva e un Parlamento multipartitico di tipo svizzero con un’amministrazione pubblica come quella riscontrabile a Singapore.
In un mondo sempre più interconnesso, anche le risposte a minacce come il Covid-19 dovrebbero essere globali, coerenti e ben strutturate? E, a suo avviso, quando si troverà una cura o un vaccino da impiegare contro il virus, sarà alla portata di tutti o prevarranno i diversi nazionalismi?
A mio avviso, in ambito internazionale non bisognerebbe perseguire il modello di una struttura centralizzata ma, al contrario, pensare a come sviluppare capacità a livello locale, a implementare la connessione di rete, la condivisione di informazioni attraverso i vari organismi preposti, in modo da permettere la diffusione di conoscenze e risorse e preparare ogni Stato a reagire in maniera efficace. Mi ero già soffermato sull’argomento in un mio libro pubblicato nel 2011, Come si governa il mondo (Fazi Editore). Per quanto concerne la disponibilità per tutti del vaccino quando se ne sia trovato uno, ritengo che essa dipenda dalla regolamentazione che ne normerà la produzione. Allo stato attuale, sono stati messi a punto test farmaceutici che possono fornire una lettura definitiva, positiva o negativa, in cinque minuti. Resta tuttavia da valutare il riscontro effettivo dei test, ovvero se, alla prova dei fatti, essi saranno o meno diffusi rapidamente in tutto il mondo. Credo che le industrie farmaceutiche siano ovviamente interessate a riscontrarne l’impatto all’interno del mercato internazionale, poiché esiste senza dubbio competizione fra i vari laboratori. Storicamente, la fase di ricerca di un vaccino è diventata sempre una questione mondiale: abbiamo assistito a partnership fra produttori nazionali e produttori generici, mentre i governi si mostravano impegnati ad assicurare che esso fosse ampiamente disponibile, come dimostra ad esempio il caso della penicillina. Nonostante il nazionalismo si riveli essere oggi un sentimento molto forte, non credo comunque che, in termini di soluzione del problema, avranno la meglio i diversi nazionalismi: è, infatti, in corso un’intensa condivisione di risorse, apparecchiature di test, ventilatori e mascherine chirurgiche.
Quanto
hanno influito, per quanto concerne la situazione attuale, gli errori di
comunicazione e le iniziali sottovalutazioni circa l’entità del problema?
Gli errori di comunicazioni hanno avuto una forte incidenza. Si è verificata un’attiva soppressione di informazioni da parte della Cina – e ciò è stato ampiamente criticato e continua a essere oggetto di critiche – ma, successivamente, anche nei governi nazionali si sono imposti errori di comunicazione che hanno alimentato la confusione: è quanto, con tutta evidenza, è accaduto negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in tutti quei Paesi in cui si stanno rincorrendo ogni giorno nuove comunicazioni che promuovono la quarantena, il lockdown, invitando i cittadini a stare in isolamento. Possiamo rilevare come, nei Paesi asiatici, il distanziamento sociale sia considerata la medicina migliore, il metodo più valido di prevenzione, che può essere attuato senza alcuna assistenza medica, semplicemente mantenendo le distanze per un paio di settimane e stando da soli: ciò ha depotenziato la rapida trasmissione del virus.
Per far fronte all’emergenza Coronavirus, alcuni Stati europei hanno quasi completamente chiuso le loro frontiere, in deroga agli Accordi di Schengen. Pensa che un tal modello di Stato chiuso basato sull’autosufficienza possa sopravvivere anche alla fine della situazione drammatica che stiamo vivendo?
Un mio libro del 2016, Connectography (Fazi Editore), era dedicato a spiegare come le infrastrutture e le catene di approvvigionamento costituiscano un nuovo livello di geografia funzionale che trascende la nostra geografia politica dei confini. Stiamo assistendo quotidianamente al modo in cui questa connettività consente tanto i flussi di merci quanto la diffusione di malattie, mentre l’attrito delle frontiere si pone a garante della nostra sicurezza. In questo caso, tuttavia, il punto non è bloccare le frontiere quanto comporre fra loro le varie politiche adottate. Se il mondo applica politiche di distanziamento sociale, e intendimenti di questo tipo vengono estesi in ogni Paese, allora non ci sarà bisogno di chiudere i confini perché la gente non avrà alcun bisogno di attraversarli. Credo che stiamo aderendo a una visuale dall’alto in basso, invece di adottare una prospettiva orizzontale. I governi avrebbero dovuto concordare nello stesso tempo di applicare questo genere di politiche, in modo da non dover sbarrare i confini, mentre, ora che alcuni focolai epidemici si sono dimostrati peggiori delle aspettative, alcuni leader, come quello spagnolo, hanno avanzato richieste di chiusura delle frontiere.
Gli errori di comunicazioni hanno avuto una forte incidenza. Si è verificata un’attiva soppressione di informazioni da parte della Cina – e ciò è stato ampiamente criticato e continua a essere oggetto di critiche – ma, successivamente, anche nei governi nazionali si sono imposti errori di comunicazione che hanno alimentato la confusione: è quanto, con tutta evidenza, è accaduto negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in tutti quei Paesi in cui si stanno rincorrendo ogni giorno nuove comunicazioni che promuovono la quarantena, il lockdown, invitando i cittadini a stare in isolamento. Possiamo rilevare come, nei Paesi asiatici, il distanziamento sociale sia considerata la medicina migliore, il metodo più valido di prevenzione, che può essere attuato senza alcuna assistenza medica, semplicemente mantenendo le distanze per un paio di settimane e stando da soli: ciò ha depotenziato la rapida trasmissione del virus.
Per far fronte all’emergenza Coronavirus, alcuni Stati europei hanno quasi completamente chiuso le loro frontiere, in deroga agli Accordi di Schengen. Pensa che un tal modello di Stato chiuso basato sull’autosufficienza possa sopravvivere anche alla fine della situazione drammatica che stiamo vivendo?
Un mio libro del 2016, Connectography (Fazi Editore), era dedicato a spiegare come le infrastrutture e le catene di approvvigionamento costituiscano un nuovo livello di geografia funzionale che trascende la nostra geografia politica dei confini. Stiamo assistendo quotidianamente al modo in cui questa connettività consente tanto i flussi di merci quanto la diffusione di malattie, mentre l’attrito delle frontiere si pone a garante della nostra sicurezza. In questo caso, tuttavia, il punto non è bloccare le frontiere quanto comporre fra loro le varie politiche adottate. Se il mondo applica politiche di distanziamento sociale, e intendimenti di questo tipo vengono estesi in ogni Paese, allora non ci sarà bisogno di chiudere i confini perché la gente non avrà alcun bisogno di attraversarli. Credo che stiamo aderendo a una visuale dall’alto in basso, invece di adottare una prospettiva orizzontale. I governi avrebbero dovuto concordare nello stesso tempo di applicare questo genere di politiche, in modo da non dover sbarrare i confini, mentre, ora che alcuni focolai epidemici si sono dimostrati peggiori delle aspettative, alcuni leader, come quello spagnolo, hanno avanzato richieste di chiusura delle frontiere.
Potrebbe
l’utilizzo della tecnologia delle reti mobili essere utile a fermare il
progredire del contagio? Come potrebbe accordarsi con il diritto alla privacy?
Sì, assolutamente. Ciò che alcuni Paesi hanno fatto è stato identificare le persone basandosi sul riconoscimento di pattern, tracciare i loro spostamenti, per accertarsi che stiano seguendo i provvedimenti di quarantena e altre misure analoghe. Ritengo siano misure estremamente importanti per avere successo nella lotta al virus. Possiamo rilevare diversi modi in cui la tecnologia è stata usata in tal senso. A Singapore utilizziamo un’app chiamata Trace Together; è anonima e gli unici dati che vengono utilizzati, qualora una persona risulti positiva al test, permettono di determinare, attraverso l’uso della registrazione dei segnali Bluetooth, se tale persona si sia trovata nelle tue vicinanze nelle ultime due settimane: solo in questo caso verresti contattato, in quanto potresti essere stato esposto a un possibile contagio. Penso che sia un’applicazione molto utile e sensata: la tecnologia non dev’essere intesa, ovviamente, come un’infrazione nei confronti della privacy della gente quanto invece nell’ottica di protezione del bene comune. Tutti i dati ottenuti, infatti, verranno immediatamente distrutti nel momento in cui non saranno più necessari. Credo che, per quanto attiene all’uso delle tecnologie mobili, ciò crei il giusto equilibrio fra il bene pubblico e la privacy.
Riguardo l’uso di metodi di sorveglianza digitale annunciato dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, lo storico e scrittore Yuval Noah Harari ha dichiarato in un’intervista alla CNN: “Uno dei rischi di questa epidemia è che giustifichi misure di sorveglianza biometrica, che dopo la crisi rimangano con noi”. È d’accordo?
In termini di sorveglianza, dobbiamo evidenziare come dagli attentati dell’11 settembre 2001 la tecnologia abbia fatto molti passi in avanti: nel corso dei vent’anni successivi agli attacchi terroristici si sono diffuse in ogni dove telecamere di sorveglianza che permettono l’identificazione facciale e altri strumenti analoghi sono stati adottati nell’ambito della sicurezza. Contestualmente, si è manifestato il rovescio della questione, attraverso riflessioni sui privilegi e i poteri che i governi hanno o dovrebbero avere. Ciò riguarda anche quanto potrebbe avvenire in questo momento. Penso che la questione interessi la regolamentazione della tecnologia piuttosto che problematiche inerenti la salute, la sicurezza o l’economia. Chiaramente, tutto ciò chiama in causa la fiducia riposta nella tecnologia, e la fiducia nella tecnologia è costantemente aumentata perchè la tecnologia si è costantemente evoluta. Vi sono Paesi in cui è presente uno spiccato desiderio di autorità che altrove sconfina nell’abuso, ed è perciò necessario un dialogo molto determinato a livello nazionale che riguardi la cultura della democrazia, della trasparenza e dei meccanismi di equilibrio dei poteri, in modo da evitare possibili scorrettezze da parte dei governi. Molti Paesi ci stanno dimostrando proprio ora di non essere quel genere di posto.
I ricercatori del Global Preparedness Monitoring Board rilevano l’arretratezza delle tecnologie impiegate per la produzione di vaccini anti-influenzali, in quanto “sono costose e richiedono molto tempo”. Si deve fare di più al riguardo?
L’uso della tecnologia in campo medico segna un deciso discrimine fra il passato e il futuro. In passato, con tutta evidenza, non abbiamo fatto abbastanza sforzi nel produrre rapidamente vaccini, a causa del ritardo della tecnologia e delle relative conoscenze. Oggi, invece, la tecnologia conosce un maggiore utilizzo: vi è un rilevante ed esteso impiego dell’intelligenza artificiale nel campo della genomica mentre, all’interno dei laboratori, il lavoro è computerizzato e interessa la simulazione e la produzione di vaccini. Ciò ci è di grande aiuto in questa circostanza e potrà ovviamente continuare a esserlo in futuro. Si riscontra un diffuso apprezzamento circa il ruolo che le tecnologie mediche rivestono nell’alveo delle scienze biologiche e bisognerebbe senz’altro indirizzare ad esse maggiori investimenti.
Sì, assolutamente. Ciò che alcuni Paesi hanno fatto è stato identificare le persone basandosi sul riconoscimento di pattern, tracciare i loro spostamenti, per accertarsi che stiano seguendo i provvedimenti di quarantena e altre misure analoghe. Ritengo siano misure estremamente importanti per avere successo nella lotta al virus. Possiamo rilevare diversi modi in cui la tecnologia è stata usata in tal senso. A Singapore utilizziamo un’app chiamata Trace Together; è anonima e gli unici dati che vengono utilizzati, qualora una persona risulti positiva al test, permettono di determinare, attraverso l’uso della registrazione dei segnali Bluetooth, se tale persona si sia trovata nelle tue vicinanze nelle ultime due settimane: solo in questo caso verresti contattato, in quanto potresti essere stato esposto a un possibile contagio. Penso che sia un’applicazione molto utile e sensata: la tecnologia non dev’essere intesa, ovviamente, come un’infrazione nei confronti della privacy della gente quanto invece nell’ottica di protezione del bene comune. Tutti i dati ottenuti, infatti, verranno immediatamente distrutti nel momento in cui non saranno più necessari. Credo che, per quanto attiene all’uso delle tecnologie mobili, ciò crei il giusto equilibrio fra il bene pubblico e la privacy.
Riguardo l’uso di metodi di sorveglianza digitale annunciato dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, lo storico e scrittore Yuval Noah Harari ha dichiarato in un’intervista alla CNN: “Uno dei rischi di questa epidemia è che giustifichi misure di sorveglianza biometrica, che dopo la crisi rimangano con noi”. È d’accordo?
In termini di sorveglianza, dobbiamo evidenziare come dagli attentati dell’11 settembre 2001 la tecnologia abbia fatto molti passi in avanti: nel corso dei vent’anni successivi agli attacchi terroristici si sono diffuse in ogni dove telecamere di sorveglianza che permettono l’identificazione facciale e altri strumenti analoghi sono stati adottati nell’ambito della sicurezza. Contestualmente, si è manifestato il rovescio della questione, attraverso riflessioni sui privilegi e i poteri che i governi hanno o dovrebbero avere. Ciò riguarda anche quanto potrebbe avvenire in questo momento. Penso che la questione interessi la regolamentazione della tecnologia piuttosto che problematiche inerenti la salute, la sicurezza o l’economia. Chiaramente, tutto ciò chiama in causa la fiducia riposta nella tecnologia, e la fiducia nella tecnologia è costantemente aumentata perchè la tecnologia si è costantemente evoluta. Vi sono Paesi in cui è presente uno spiccato desiderio di autorità che altrove sconfina nell’abuso, ed è perciò necessario un dialogo molto determinato a livello nazionale che riguardi la cultura della democrazia, della trasparenza e dei meccanismi di equilibrio dei poteri, in modo da evitare possibili scorrettezze da parte dei governi. Molti Paesi ci stanno dimostrando proprio ora di non essere quel genere di posto.
I ricercatori del Global Preparedness Monitoring Board rilevano l’arretratezza delle tecnologie impiegate per la produzione di vaccini anti-influenzali, in quanto “sono costose e richiedono molto tempo”. Si deve fare di più al riguardo?
L’uso della tecnologia in campo medico segna un deciso discrimine fra il passato e il futuro. In passato, con tutta evidenza, non abbiamo fatto abbastanza sforzi nel produrre rapidamente vaccini, a causa del ritardo della tecnologia e delle relative conoscenze. Oggi, invece, la tecnologia conosce un maggiore utilizzo: vi è un rilevante ed esteso impiego dell’intelligenza artificiale nel campo della genomica mentre, all’interno dei laboratori, il lavoro è computerizzato e interessa la simulazione e la produzione di vaccini. Ciò ci è di grande aiuto in questa circostanza e potrà ovviamente continuare a esserlo in futuro. Si riscontra un diffuso apprezzamento circa il ruolo che le tecnologie mediche rivestono nell’alveo delle scienze biologiche e bisognerebbe senz’altro indirizzare ad esse maggiori investimenti.
L’ intervistatore Orlando
Trinchi [ROMA] giornalista e illustratore, collabora con diverse testate
nazionali, fra cui Eastwest.eu, Left e Il Dubbio. Fra i suoi libri, i saggi: La
spettralità delle cose (Maremmi Editori, 2011) e Giorgio Manganelli e il mondo
infero (Edilet, 2016).
Il politologo indiano
naturalizzato statunitense Parag Khanna vive e lavora a Singapore. Specialista
in relazioni internazionali, Khanna ha fondato FutureMap, una società di
consulenza strategica basata su dati e scenari.
Tutti i video del nostro convegno con Parag Khanna cliccando QUI o sulla foto
PARAG KHANNA e il Presidente ZENO D' AGOSTINO al nostro convegno del 28 novembre 2017
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