La crisi nell’ex colonia britannica rivela la fragilità geopolitica della Repubblica Popolare Cinese. Un intervento armato di Pechino avrebbe conseguenze in tutto il mondo. Il più debole in questa fase è Xi Jinping.
di Lucio Caracciolo
Il sangue scorre a Hong Kong.
Nel giorno in cui a Pechino si celebravano in pompa magna, con suoni, luci e larga esibizione di armi, i primi settant’anni della Repubblica Popolare Cinese, nella città in rivolta da mesi lo scontro fra polizia e manifestanti anti-regime ha cambiato dimensione.
Per le giovani avanguardie del movimento si trattava di mostrare che le proteste non sono destinate a spegnersi presto, anzi. Per le forze di repressione locali, che obbediscono alle direttive del governo centrale, occorreva segnare una linea rossa. Di sangue. Perché sia chiaro che Pechino non è assolutamente disposta a perdere il controllo indiretto – fra trent’anni previsto diventare totale – della porta principale fra la Cina e il mondo.
Le prossime settimane ci diranno se la possibile scalata della violenza, dai feriti ai morti alla strage, sia destinata a emulare la repressione di Piazza Tienanmen, nel 1989. Certo riportare il clima nell’ex colonia a sei mesi fa è ormai impensabile.
Qualsiasi cosa accada è evidente che Hong Kong non può essere “normalizzata” in tempi rapidi se non con la forza. Ciò che Pechino non ha interesse a fare, per le ovvie quanto incalcolabili conseguenze economiche e geopolitiche. Ma cui potrebbe sentirsi costretta, per impedire che la scintilla di Hong Kong incendi il paese. Ne metta in questione la stabilità.
La crisi di Hong Kong rivela la fragilità geopolitica della Repubblica Popolare. Quell’immenso territorio è attraversato da profonde linee di faglia. Di carattere economico e sociale: c’è ancora un abisso fra la Cina meridionale e orientale, relativamente ricca e affacciata sui mari, e le regioni interne del Nord-Ovest, assai più arretrate.
Soprattutto, le divisioni interne sono geopolitiche, culturali e antropologiche. Riguardano, oltre a Hong Kong, almeno Taiwan, Xinjiang e Tibet. Il “sogno cinese” di Xi Jinping significa anzitutto impedire che l’Impero del Centro si sfaldi, come nel secolo che intercorse fra le guerre dell’oppio e l’avvento di Mao.
La rivolta degli hongkonghesi evidenzia che il dogma «un paese, due sistemi», su cui dal 1997 si reggeva l’ambigua e limitata autonomia di quel territorio, è saltato. Se la protesta degli abitanti dell’ex colonia britannica dovesse davvero spingere Pechino all’intervento armato, tutto il sistema dell’Asia-Pacifico e dunque del pianeta entrerebbe in acuta fibrillazione.
Per esempio, Taiwan, dove l’11 gennaio 2020 si vota per il nuovo presidente, potrebbe prima o poi dichiararsi indipendente. Ne scaturirebbe automaticamente la guerra con la Cina. Gli Stati Uniti sarebbero costretti a rispondere, non fosse che per garantire i propri alleati regionali (Giappone e Corea del Sud su tutti) circa la credibilità del patto di protezione stretto con l’impero a stelle e strisce.
A Hong Kong, insomma, si decide molto più del destino di Hong Kong. Pechino, Washington, Mosca, Tokyo e tutti gli altri attori rilevanti ne sono perfettamente coscienti.
Chi rischia di più, in questa fase, è Xi Jinping. All’apparenza, dittatore assoluto. Nei fatti, è il leader oggi decisivo, ma le fazioni che da sempre lo ostacolano, e che hanno fatto fallire la sua iniziale strategia di riforme mascherata da “lotta alla corruzione”, sono pronte a eliminarlo se gli eventi precipitassero.
Nei palazzi del potere pechinese non si poteva immaginare scenario peggiore nel giorno delle grandi celebrazioni per il compleanno della dinastia rossa.
Articolo originariamente pubblicato su la Repubblica il 2 ottobre 2019.
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