L' articolo e' pubblicato sull' ultimo numero di Limes uscito il 5 marzo, prima dello scoppio delle note polemiche.
Stiamo organizzando un incontro con Giorgio Cuscito dopo la visita di Xi Jinping per commentarla. Presumibilmente sarà i primi di aprile.
L’adesione alla Belt and Road Initiative rilancerebbe il ruolo della Penisola sulle due sponde del Mediterraneo, se non valicassimo le linee rosse fissate da Washington per i suoi clienti. Un paese europeo tramite con l’Impero del Centro potrebbe far comodo agli Usa.
di Giorgio Cuscito
L’Italia è diventata un tassello rilevante nella competizione tra Stati Uniti e Cina in Europa. A fine marzo, il presidente della Repubblica Popolare Xi Jinping visiterà la Penisola e Roma firmerà il memorandum di adesione alla Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta). La sottoscrizione del documento, non vincolante sul piano legale, favorirà gli investimenti cinesi nelle infrastrutture italiane, a cominciare da quelle portuali del Settentrione. Soprattutto, l’Italia diventerebbe il primo paese del G7 a sposare ufficialmente il progetto geopolitico lanciato da Xi nel 2013 per accrescere l’influenza dell’Impero del Centro nel mondo.
La Repubblica Popolare vede da tempo nella Penisola un rilevante partner economico, dotato di una posizione strategica nel cuore del Mar Mediterraneo e a pochi chilometri dal ricco Nord Europa. Dopo un anno di contatti intensi con Pechino, Roma aveva deciso di siglare il memorandum già lo scorso novembre a Shanghai, a margine della prima esposizione internazionale per le importazioni della Cina.
All’ultimo momento, il governo italiano ha fatto un passo indietro, probabilmente su pressione degli Usa. Washington non gradisce gli investimenti cinesi nella Penisola, sua area di influenza. Ed è preoccupata perché l’Italia collabora con la Repubblica Popolare nello sviluppo del 5G, la connessione mobile ultraveloce da cui a breve dipenderà la comunicazione tra utenti e la gestione dell’«Internet delle cose», che permette di monitorare e utilizzare qualunque oggetto collegato al Web.
Ciò rende critiche infrastrutture che prima non erano tali, ampliando notevolmente il concetto di sicurezza nazionale 1. Gli Usa vogliono impedire ai colossi cinesi Huawei e Zte di esportare le proprie infrastrutture nel mondo, convinti che Pechino se ne serva per attività di spionaggio. Più in generale, Washington non vuole permettere a queste compagnie di alimentare l’influenza cinese all’estero.
Gli Usa non hanno fornito pubblicamente prove concrete delle loro accuse, ma le loro pressioni verso gli altri paesi occidentali hanno cominciato a produrre risultati. Canada, Australia, Nuova Zelanda, Polonia, Repubblica Ceca hanno di fatto chiuso la porta alla tecnologia made in China. L’intelligence del Regno Unito ha definito invece le attività di Huawei «gestibili» 2. L’opinione di Londra, anello fondamentale dell’alleanza dei Five Eyes a guida statunitense, influenzerà il dibattito in Europa.
Al momento, Roma non intende seguire i moniti di Washington. A febbraio il ministero dello Sviluppo economico (Mise) ha smentito la notizia diffusa dalla Stampa secondo cui il governo italiano avrebbe intenzione di bandire Huawei e Zte.
Per il Mise non sono ancora emerse criticità per la sicurezza nazionale 3, anche se da tempo le attività del colosso tecnologico sono oggetto d’interesse dell’intelligence nostrana. Non a caso il vicepresidente del Consiglio italiano Luigi Di Maio ha detto che il ministero istituirà una struttura per monitorare la sicurezza dei dati trasferiti attraverso la rete di quinta generazione.
Washington non rinuncerà all’influenza esercitata sull’Italia e cercherà di ostacolare qui le attività cinesi. Magari facendo leva sul fatto che Roma punta sui finanziamenti americani per sostenere il debito pubblico una volta che la Bce porrà fine al quantitative easing. Allo stesso tempo il governo italiano non vuole restare indietro nello sviluppo del 5G e intende accogliere più investimenti della Repubblica Popolare, dopo che per trent’anni non è stata in grado di sfruttare a proprio vantaggio il dialogo con Pechino.
Se l’Italia riuscisse ad approfondire la collaborazione economica con la Cina senza intaccare il legame strategico con gli Usa, potrebbe rilanciarsi quale soggetto geopolitico sulle due sponde del Mar Mediterraneo e non subire passivamente il confronto tra le due prime potenze al mondo.
Il 5G della Cina in Italia
Nella Penisola, Huawei ha lanciato diverse iniziative focalizzate sull’impiego della rete 5G nelle città del futuro, in cui l’intelligenza artificiale ottimizzerà la connettività infrastrutturale e i sistemi di sicurezza. Tali attività sono in linea con il grande piano di urbanizzazione attuato da Pechino per aumentare i consumi interni, migliorare la qualità della vita degli abitanti e preservare la stabilità interna potenziando il monitoraggio.
A Pula (vicino Cagliari) il colosso cinese gestisce un centro per l’innovazione sulle smart & safe cities insieme al Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna (Crs4). La rilevanza dell’infrastruttura è parsa evidente sin dalla sua apertura, tre anni fa, quando Xi in persona ha fatto tappa a Cagliari per celebrare l’iniziativa insieme all’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Un secondo polo per l’innovazione è stato attivato a Catania e si concentra sull’Internet delle cose. A Segrate, Huawei possiede un centro globale di ricerca e sviluppo dedicato alle microonde e ne costruirà un secondo nel cuore di Milano riguardante gli utilizzi della tecnologia nel campo della moda e del design.
Huawei ha anche lanciato due progetti per testare la rete 5G in ambiti quali sanità, industria, turismo, sicurezza, smart energy, mobilità e trasporti. Il primo, avviato lo scorso anno a Milano insieme a Vodafone, prevede tra le varie attività l’uso di droni per la pubblica sicurezza in collaborazione con il Politecnico, Intellitronika (basata a Roma), la Polizia municipale e Italdron (basata a Ravenna). I dispositivi dovrebbero trasmettere video in diretta in qualità 4K alla centrale di polizia 4.
La seconda area di test è stata creata nel 2017 a Bari e Matera insieme a Fastweb e Tim, con un investimento complessivo pari a 60 milioni di euro. Il progetto coinvolge 52 partner, tra cui 7 centri universitari e di ricerca, 34 imprese e 11 pubbliche amministrazioni. In questa cornice, Bosch e Leonardo hanno sviluppato nell’area portuale di Bari un programma con telecamere, droni e accessi dotati di riconoscimento facciale e una piattaforma centralizzata di comando e controllo 5. Acea e Huawei hanno firmato un memorandum d’intesa nell’ambito delle smart & safe cities e hanno avviato un progetto pilota per il monitoraggio intelligente dell’area del Colosseo a Roma.
Zte ha aperto due aree di sperimentazione 5G presso Prato e L’Aquila. Nella seconda città, gestisce un centro di innovazione con l’Università presso il Tecnopolo d’Abruzzo. Inoltre, a febbraio ha annunciato l’apertura di un laboratorio per la sicurezza e si è detta favorevole alla realizzazione di un sistema di certificazione per garantire l’affidabilità delle sue infrastrutture.
Open Fiber, controllata da Enel e Cdp Equity, impiega invece la tecnologia di Huawei nello sviluppo della connessione in fibra ottica a 200 giga della rete nazionale Zion, che coprirà 270 città italiane. Il test del tratto tra Roma e Firenze è avvenuto un anno fa.
La rinuncia a tutti i progetti in corso d’opera danneggerebbe economicamente il paese e rallenterebbe lo sviluppo della connessione di nuova generazione nel nostro paese. Senza contare che il governo italiano dovrebbe fare i conti con le resistenze delle compagnie di telecomunicazione. Infine, dovremmo rivolgerci a Nokia ed Ericsson, uniche aziende in grado di competere con le omologhe cinesi nel 5G.
Alti e bassi del rapporto sino-italiano
La collaborazione con la Cina è oggetto di dibattito nelle stanze del potere italiano. Lo indicano la mancata adesione alla Bri a novembre, i dubbi sul se e quando Xi avrebbe visitato l’Italia e le voci sul possibile bando della tecnologia cinese poi smentite dal governo. Già in passato l’Italia ha avuto diversi ripensamenti circa i rapporti con la Repubblica Popolare e ha perso importanti opportunità per ampliare con essi il suo raggio d’azione geopolitico 6.
Per esempio, ci siamo tirati indietro riguardo alla partecipazione allo sviluppo di Shanghai quando la megalopoli era in piena espansione. Poi abbiamo respinto al mittente le proposte d’investimento cinesi nei porti di Taranto e Gioia Tauro, perdendo l’occasione di diventare snodo della Bri prima che Xi lanciasse ufficialmente l’iniziativa nel 2013. È sfumata anche l’opportunità di realizzare in Italia un centro di formazione dei vertici burocratici cinesi in collaborazione con la Scuola centrale del Partito comunista. L’occasione era ghiotta: avremmo potuto costituire un punto di contatto tra Occidente e Oriente sul piano culturale e politico, una piattaforma utile (anche agli Usa) per comprendere la strategia cinese. Questi passi falsi hanno certamente danneggiato la nostra immagine agli occhi di Pechino.
Eppure tra il 2000 e il 2016 l’Italia è stata la terza meta europea degli investimenti cinesi dopo il Regno Unito e la Germania. Alcuni di questi hanno coinvolto nostre aziende d’interesse strategico. Per esempio, State Grid Corporation detiene il 35% di Cdp Reti che controlla Snam e Terna (le principali aziende operanti nel settore energetico), mentre Shanghai Electric possiede il 40% di Ansaldo Energia. Tra il 2017 e il 2018, gli incontri tra le delegazioni italiane e cinesi si sono intensificati. Le missioni nella Repubblica Popolare di Di Maio, del ministro dell’Economia Giovanni Tria e del sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci (a capo della nuova Task Force Cina) hanno determinato nuovi accordi economici.
Il Fondo strategico per gli investimenti e la China Investment Corporation (Cic, primo fondo sovrano cinese) hanno consolidato la loro collaborazione per condurre investimenti congiunti. Banca d’Italia ha creato un portafoglio in renminbi per investire in titoli di Stato cinesi. Cassa depositi e prestiti ha firmato un accordo preliminare con Bank of China per agevolare le esportazioni delle imprese italiane nella Repubblica Popolare. Infine, Roma e Pechino hanno firmato un memorandum di collaborazione nei paesi terzi, su cui basare potenziali attività congiunte in Africa e nei Balcani. Tria ha incontrato i vertici del Fondo per le vie della seta e della China Construction Bank che – insieme alla Cic – sono tra i principali strumenti con cui la Repubblica Popolare investe all’estero.
Negli ultimi tre anni, i porti di Trieste, Venezia e Genova hanno intensificato le iniziative individualiper accogliere gli investimenti cinesi e ampliare le proprie infrastrutture. Solo nel primo scalo marittimo si parla in maniera concreta di un’operazione imminente da parte della Cina, mentre l’unica presenza azionaria del Dragone si rintraccia nel terminal di Vado Ligure, di cui il gigante della logistica Cosco e il porto di Qingdao controllano rispettivamente il 40% e il 9,9%. Nulla si è mosso nei porti del Sud, forse anche perché i cinesi non hanno dimenticato il modo in cui sono stati accolti qui vent’anni fa. Lungo la rotta terrestre della Bri l’Italia poteva fare certamente di più, in attesa che il Corridoio mediterraneo e quello Reno-Alpi del Trans European Network-Transport entrino in funzione nel 2030. Nel corso di due anni, sono stati inaugurati in successione tre collegamenti con Chengdu, rispettivamente da Mortara, Busto Arsizio e Melzo, località intorno a Milano. Lungo le prime due rotte, i treni merci hanno raggiunto la Cina senza fare ritorno, probabilmente per problemi legati ai costi di trasporto. Ci si augura che la terza, attivata a gennaio, riscuota maggiore successo.
L’Italia come soggetto geopolitico
L’adesione dell’Italia alle nuove vie della seta non implicherebbe la sua rinuncia al legame strategico con gli Usa. Paesi europei e atlantici come Grecia, Portogallo e Ungheria hanno appoggiato ufficialmente il progetto senza che gli Usa si stracciassero le vesti. La Germania pretende da Pechino investimenti più trasparenti nel Vecchio Continente, ma resta sempre il suo principale partner veterocontinentale e Duisburg è uno dei punti di approdo più rilevanti delle merci cinesi. Soprattutto, altri alleati degli Usa hanno di fatto già sposato le nuove vie della seta. Nel 2021, la Cina prenderà il controllo del nuovo terminale del porto israeliano di Haifa a pochi chilometri da una base militare a stelle e strisce. Le Filippine, che ospitano diverse installazioni americane, hanno firmato il memorandum di adesione qualche mese fa. Il Giappone vuole sviluppare con la Cina dei progetti congiunti nel Sud-Est asiatico nonostante la loro storica rivalità. Eppure, le compagnie telefoniche nipponiche stanno prendendo in considerazione di non impiegare la tecnologia 5G cinese. Al pari di queste potenze, l’Italia può instaurare una cooperazione pragmatica con la Repubblica Popolare, plasmandola sul proprio interesse nazionale.
Roma potrebbe servirsi del dialogo con Pechino per ricevere più investimenti, potenziare il ruolo della Penisola nei flussi commerciali mondiali e incrementare la presenza italiana nel fiorente mercato della Repubblica Popolare. Tanto più che l’investimento cinese nel Pireo potrebbe rivelarsi meno produttivo del previsto. Lo sviluppo della ferrovia che dovrebbe collegare il porto greco al Nord Europa procede a rilento a causa anche della scarsa trasparenza dei progetti sviluppati dalla Repubblica Popolare nei Balcani. L’importante è che la partecipazione dell’Italia sia attiva. Ciò implica un monitoraggio più attento contro gli investimenti stranieri in settori d’interesse strategico e l’orientamento – ove possibile – della collaborazione sino-italiana negli ambiti e nei limiti in cui conviene al nostro paese.
Le operazioni nei porti del Settentrione sono importanti, ma il potenziamento delle infrastrutture terrestri e marittime del Mezzogiorno è una priorità nazionale, poiché stimolerebbe la crescita della parte meno abbiente del paese.
Inoltre, sarà necessario prendere le misure legislative necessarie per assicurarci che la collaborazione tecnologica con la Cina non danneggi la nostra sicurezza nazionale e quella delle basi Usa che ospitiamo. Magari circoscrivendola ad alcuni settori, per non attirare le ire di Washington.
L’Italia può servirsi delle nuove vie della seta anche per svolgere un ruolo più attivo in Europa e in Africa. A Pechino serve un mediatore veterocontinentale nel dialogo con Bruxelles, che vuole elevare la soglia di monitoraggio nei confronti degli investimenti cinesi e pretende una maggiore apertura del mercato del Dragone alle aziende occidentali. La Cina è senza dubbio la potenza economicamente più radicata nel Continente Nero grazie a commercio, aiuti e investimenti. Tuttavia, Pechino ha bisogno di un paese occidentale affacciato sul Mar Mediterraneo con cui collaborare per elevare la qualità dei suoi progetti e risultare più affidabile ai paesi africani. Se riuscissimo a combinare l’expertise e l’attenzione allo sviluppo locale delle imprese italiane che operano all’estero con l’approccio più massiccio e invasivo di quelle cinesi, accresceremmo le nostre attività in Africa.
Anche l’approfondimento della cooperazione in chiave sicurezza sarebbe opportuno. Nel continente, l’Esercito Popolare di Liberazione impiega migliaia di soldati nelle missioni di peacekeeping e a Gibuti dispone della sua unica base militare ufficiale all’estero. Nel 2018, Pechino ha anche ospitato il primo forum Cina-Africa per la sicurezza e la difesa e potrebbe usarlo in futuro come piattaforma per istituzionalizzare i rapporti militari sino-africani. L’instaurazione di un dialogo con la Cina sul fronte securitario potrebbe servire a mitigare l’instabilità sul versante meridionale del Mediterraneo. O perlomeno ci permetterebbe di seguire più da vicino le attività di Pechino a pochi chilometri dai nostri confini.
Infine, la cooperazione pragmatica con la Repubblica Popolare consentirebbe all’Italia di assumere una postura propositiva nei rapporti con Washington. Usa e Cina faticano a capirsi e la loro competizione accelera pericolosamente. In un futuro non lontano, la prima potenza al mondo potrebbe aver bisogno di un paese euromediterraneo che funga da tramite con l’Impero del Centro.
NOTE
1. Cfr. A. Aresu, «Geopolitica della protezione», Limes, «La rete a stelle e strisce», n. 10/2018, pp. 71-83.
2. Cfr. D. Sevastopulo, D. Bond, «UK says Huawei is manageable risk to 5G», Financial Times, 17/2/2019.
3. Cfr. «Huawei e ZTE, nessun blocco per il 5G», mise.gov.it, 7/2/2019.
4. Cfr. «Il Politecnico partner strategico nella sperimentazione 5G a Milano», polimi.it, 9/11/2018.
5. Cfr. «Leonardo a bordo del progetto Bari Matera 5G», leonardocompany.com, 28/6/2018.
6. Cfr. F. Sisci, «Le quattro occasioni offerte da Pechino a Roma, naturalmente sprecate», Limes, «Quanto vale l’Italia», n. 5/2018, pp. 247-252.
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