Il documento che segue è la trascrizione di un discorso pronunciato dal generale Qiao Liang nel
2015 presso l’Università della Difesa, la più importante scuola
militare cinese, dove egli è responsabile del programma di studio per gli alti
ufficiali, e ha ricevuto l’approvazione dei vertici delle Forze armate e del
presidente Xi Jinping.
In questo intervento Qiao annuncia il nuovo pensiero strategico nazionale e
definisce la natura economica e finanziaria della politica estera americana e
dei conflitti dal 1971.
Verso la metà del suo intervento Qiao Liang parla dell’ Ucraina che nel 2014 è stata
teatro di un rovesciamento del regime con i moti di Euromaidan, l’ inizio
della guerra civile del Donbass con l’ intervento di Kiev contro le repubbliche
separatiste e l’ annessione russa della Crimea. Spiega le motivazioni
finanziarie alla base della destabilizzazione di quell’ area europea che ha
provocato nel 2014/15 la fuga di oltre 1.000 miliardi di dollari dall’
Europa in seguito alle prime sanzioni alla Russia.
A otto anni di distanza quella crisi si ripete in forma aggravata e con
l’ intervento esplicito e anche militare di USA e alleati.
Rispetto ad allora la questione Ucraina ha assunto una dimensione
mondiale, ha spinto per forti aumenti dei costi di petrolio e gas, comporta l’
isolamento della Russia dall’ Occidente e una grave crisi incombente sull’
Europa e non solo.
E’ molto significativo che la Russia abbia chiesto il pagamento degli idrocarburi
in Rubli, spezzando il monopolio del Dollaro, che venda idrocarburi alla Cina in
yuan o rubli e che la stessa Arabia Saudita abbia accettato di vendere petrolio
in yuan.
I Brics hanno appena annunciato di voler uscire dall’ egemonia del dollaro
effettuando transazioni tra di loro con un paniere di monete locali.
Sono tutti fattori che depongono a favore della attendibilità ed esattezza
delle tesi del gen. Qiao Liang e del fatto che è in corso una lotta
esistenziale per l’ egemonia monetaria del dollaro con l’ Europa a farne
pesantemente le spese insieme ad altre aree del mondo.
Sarebbe importante avere i dati ufficiali sui flussi di capitali generati dalla
attuale guerra in Ucraina, ma quelli parziali confermano quanto sostiene il
gen. Qiao.
L’articolo è lungo ma ne vale la pena.
1. LA
CONGIUNTURA GEOPOLITICA CINESE E IL CICLO DEL DOLLARO
del gen. Qiao Liang - Pubblicato in LIMES n.7 - 2015
Per la prima
volta nella storia, la nascita di un impero finanziario
Esistono
certamente esperti di finanza che meglio di me potrebbero parlare di economia.
Tuttavia io ho intenzione di affrontare il tema da un punto di vista meramente
strategico. Iniziamo dal principio. Con l’obiettivo di appropriarsi della
leadership geopolitica e valutaria della Gran Bretagna, nel luglio del 1944 gli
Stati Uniti promossero la nascita di tre sistemi globali: uno eminentemente
politico, le Nazioni Unite; un altro commerciale, il Gatt (successivamente
trasformato nel Wto); e uno monetario e finanziario, il sistema di Bretton
Woods. Allora proposero ai paesi del globo di agganciare le varie monete
nazionali al dollaro che, a sua volta, sarebbe stato agganciato all’oro con un
prezzo fisso di convertibilità di 35 dollari per oncia. Nel tempo il modello di
Bretton Woods realizzò la leadership del biglietto verde, ma proprio la
commutabilità aurea, che impediva di stampare valuta ad libitum,
riduceva il margine di manovra della Federal Reserve.
Peraltro, dopo
la seconda guerra mondiale la superpotenza decise scioccamente di partecipare
alla guerra di Corea e a quella del Vietnam, conflitti finanziariamente assai
dispendiosi. In particolare quello vietnamita, che costò all’erario circa 800
miliardi di dollari. Così se nel 1944 gli Stati Uniti possedevano circa l’80%
delle riserve auree mondiali, nell’agosto del 1971 queste erano scese a circa
880 tonnellate e i guai stavano per cominciare. Anche a causa delle manovre di
alcuni leader internazionali. Come Charles de Gaulle che, sospettoso della
tenuta della divisa Usa, ordinò al ministero delle Finanze e alla Banca
centrale francesi di convertire in oro l’intero portfolio dacirca 2,3 miliardi
di dollari. Molte nazioni emularono l’affondo di de Gaulle spingendo Washington
a un passo dal collasso.
Per questo il 15
agosto il presidente Richard Nixon annunciò la fine del sistema aureo.
Terminavano gli accordi di Bretton Woods e non era chiaro cosa sarebbe
successo. Dopo essere stato usato come moneta di scambio e di riserva per quasi
trent’anni, ora il dollaro non era più agganciato all’oro. Come misurare il
valore delle merci negli scambi bilaterali? Come fidarsi delle altre valute?
Molte nazioni sembravano spaesate. Tra queste Unione Sovietica e Cina, che si
rifiutarono di riconoscere le rispettive monete e continuarono a usare il
dollaro per i loro commerci. Un’inerzia globale che nell’ottobre del 1973
consentì agli americani di imporre la propria volontà ai membri
dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec): da quel momento
la vendita di greggio sarebbe stata effettuata in dollari.
Abbandonato
l’oro, la Casa Bianca aveva agganciato la valuta nazionale alla risorsa
energetica strategica per eccellenza. Era una mossa tanto semplice quanto
razionale: giacché ogni nazione necessita di energia e dunque di petrolio, da
quel momento non avrebbe potuto fare a meno del dollaro. Tramontato il sistema
aureo, era quella un’altra svolta nella storia monetaria del globo, benché
all’epoca se ne accorgessero in pochi. Ancora oggi molti economisti ed esperti
di finanza non comprendono che l’evento più rilevante del XX secolo non è stato
né la seconda guerra mondiale, né il crollo dell’Unione Sovietica, bensì
proprio l’abbandono del gold standard. Nasceva allora l’impero
finanziario statunitense che avrebbe attirato al suo interno l’intera umanità.
Per la prima
volta, sostrato di una valuta non era più un metallo prezioso, ma la
credibilità del governo Usa che se ne sarebbe servito per accrescere la propria
influenza e sottrarre ricchezza al resto del mondo. Nel corso dei secoli gli
esseri umani hanno realizzato profitti in molti modi – dalla manipolazione del
tasso di cambio all’utilizzo di oro o argento, fino all’appropriazione di beni
altrui attraverso la guerra – ma d’ora in poi il dollaro, quale semplice cartamoneta,
avrebbe garantito a Washington un rapporto costi-benefici estremamente
vantaggioso. Tuttora la diffusione all’estero del biglietto verde permette
all’America di mantenere sotto controllo il tasso di inflazione, che altrimenti
con la possibilità di creare moneta in quantità illimitata raggiungerebbe
livelli pericolosi. A questa si aggiunge la frugalità della Federal Reserve,
che in cento anni di storia – tra il 1913 e il 2013 – ha stampato «appena» 10
mila miliardi di dollari, proprio per limitarne il deprezzamento.
A partire dal
1954, da quando cioè ha coniato la nuova divisa, la Banca centrale cinese ha
emesso invece 120 mila miliardi di yuan, che se convertiti in dollari a un
tasso di cambio del 6,2 equivalgono a 20 mila miliardi. Non una grandezza
esagerata. Pechino incamera un gigantesco volume di dollari che, a causa dei
controlli sul mercato valutario, non possono circolare sul territorio nazionale
ed è dunque costretta a stampare una somma di renminbi corrispondente a quella
della divisa estera. In futuro però, dopo aver ottenuto il profitto desiderato,
gli investimenti stranieri potrebbero volatilizzarsi, lasciando in circolazione
una quantità sproporzionata di yuan. Già adesso Pechino ammette che sul
territorio nazionale è presente gran parte dei 120 mila miliardi di renminbi
stampati. Ecco perché è necessario occuparsi della questione successiva:
l’internazionalizzazione della nostra moneta.
La relazione tra
il ciclo del dollaro e l’economia mondiale
Con la
diffusione globale del dollaro la superpotenza s’è liberata dell’inflazione.
Visto che produrre un grande volume di denaro ne causerebbe la perniciosa
svalutazione, essa emette buoni del Tesoro per spingerlo fuori dal paese. E
quando questo rientra in patria attraverso la vendita del debito inizia un
gioco diverso, con gli americani che da una parte producono moneta e dall’altra
ottengono prestiti. In sintesi: fanno soldi con i soldi. Ma se è più semplice
arricchirsi con la finanza piuttosto che con l’economia reale, chi è disposto a
lavorare duramente in industrie dal basso valore aggiunto? Dopo il 15 agosto
1971 gli Stati Uniti hanno gradualmente abbandonato l’economia reale in favore
di quella virtuale e sono diventati una nazione vuota. Nel frattempo il pil Usa
ha raggiunto i 18 mila miliardi di dollari, ma la componente dell’economia
reale non supera i 5 mila miliardi.
Con l’emissione
di bond un enorme volume di dollari circolante all’estero torna nei tre
cruciali mercati statunitensi: quello azionario, quello dei futures e
quello del debito. Il flusso di moneta in entrata e in uscita produce profitti
e fa dell’America un impero valutario, oltre che il centro del sistema
finanziario globale. Molti pensavano che con il declino dell’impero britannico
si fosse conclusa l’esperienza colonialista, ma gli Usa utilizzano il dollaro
proprio come malcelato strumento di espansione, controllando le altre economie
e trasformandole in colonie. Esistono numerose nazioni – tra queste la Cina –
che, seppur sovrane e indipendenti, dotate di una costituzione e di un governo,
non riescono ad affrancarsi dal dominio del biglietto verde. La taglia della
loro economia è comunque espressa in dollari e parte della loro ricchezza si
trasferisce negli Stati Uniti attraverso il commercio e il flusso di valuta.
Possiamo
comprendere il fenomeno attraverso lo studio del tasso di cambio del dollaro
registrato negli ultimi quarant’anni. Nel 1971 lo sganciamento dall’oro
consentì alla Federal Reserve di stampare liberamente moneta, così la
circolazione del dollaro aumentò e il tasso di cambio rimase basso fino alla
fine degli anni Settanta. Una dinamica senz’altro positiva per l’economia
mondiale, poiché una maggiore disponibilità di dollari si tradusse in un
aumento del flusso di capitali. Invece di restare in loco, gran parte
del denaro si riversò all’estero. Soprattutto in America Latina, dove stimolò
gli investimenti e produsse crescita. Fino al 1979, quando la Fed chiuse i
rubinetti: il dollaro si rafforzò e la liquidità si ridusse notevolmente, tanto
in patria quanto nel resto del globo.
In America
Latina gli investimenti diminuirono, la disponibilità finanziaria si esaurì e
l’economia entrò in crisi. Nel continente sudamericano ogni nazione provò a
escogitare un sistema per mettersi in salvo. Anche l’Argentina, che negli anni
Settanta era divenuta, in termini di reddito pro capite, un’economia
sviluppata, ma che con lo scoppio della crisi era stata la prima nazione a
scivolare in recessione. Giunto al potere in seguito a un colpo di Stato, il
generale Leopoldo Galtieri, a totale digiuno di economia, pensò di risolvere la
situazione con la guerra. Mise gli occhi sulle isole Malvine, un arcipelago
posto a 600 chilometri dalle coste argentine e che da quasi duecento anni con
il nome di Falkland Islands appartiene alla corona britannica. Deciso ad
appropriarsi delle isole, Galtieri volle interpellare sul tema l’egemone
continentale. Nel 1982 alcuni collaboratori del generale si incontrarono a
Washington con il presidente Ronald Reagan che, pur consapevole dell’incombenza
della guerra, si limitò a definire la questione un affare tra argentini e
britannici. «Rimaniamo neutrali», annunciò. Galtieri interpretò l’ambiguità di
Reagan come acquiescenza e poco tempo dopo lanciò la campagna delle Malvine che
condusse alla veloce occupazione delle isole. Il popolo argentino festeggiò
l’evento quasi fosse carnevale, ma la mancata accettazione del fait
accompli da parte del primo ministro britannico Margaret Thatcher
costrinse il presidente americano a schierarsi. Reagan si tolse la maschera e
condannò duramente l’aggressione argentina, mentre Londra inviava
nell’Atlantico meridionale la propria flotta che, dopo aver percorso 8 mila
miglia marine, riconquistò le Falklands.
Nel frattempo il
dollaro cominciò ad apprezzarsi e un eccezionale numero di capitali fece
ritorno negli Stati Uniti. Lo scoppio della guerra delle Malvine persuase gli
investitori internazionali che l’America Latina era in piena crisi e nel
continente il clima economico si guastò. La Federal Reserve sfruttò il momento
propizio per annunciare un aumento del tasso di interesse che innescò un
massiccio trasferimento di capitali dal Sudamerica verso i tre mercati
statunitensi (debito, futures, azionario). L’infusione di denaro
generò il primo grande boom borsistico dalla fine del gold standard.
Il tasso di cambio del dollaro, che fino ad allora era cresciuto di 60 punti,
aumentò in pochi giorni di 120 punti. I mercati Usa non trattennero la nuova
liquidità, piuttosto aumentarono i profitti acquistando asset di grande valore
proprio in America Latina dove i prezzi erano crollati, saccheggiando
ulteriormente le economie locali.
Se nella storia
il fenomeno si fosse registrato una sola volta sarebbe da considerarsi una rara
coincidenza, ma dato che si ripete con straordinaria puntualità deve trattarsi
di un evento artificiale. Eppure al tempo di questo primo ciclo – dieci anni di
dollaro debole e sei anni di dollaro forte – gli analisti non ne compresero la
scientificità. Superata la fase acuta della depressione latinoamericana, a partire
dal 1986 il tasso di cambio del dollaro cominciò a scendere di nuovo. Neppure
le crisi finanziarie giapponese ed europea riuscirono ad arrestarne la
picchiata. Fino a che, dieci anni più tardi, la divisa tornò ad apprezzarsi
nuovamente. Ancora una volta il «dollaro forte» sarebbe durato circa sei anni.
A metà degli
anni Ottanta l’Asia era una regione in grande espansione economica, con le
cosiddette quattro Tigri a dominare la scena. Molti credevano che l’inedita
prosperità continentale fosse il frutto del duro lavoro, dell’intelligenza e
del senso per gli affari della popolazione locale. In realtà a stimolare la
crescita era stato l’afflusso dei dollari e appena le economie locali divennero
abbastanza prosperose, gli americani pensarono fosse giunto il momento di
raccogliere quanto seminato. Così nel 1997, dopo dieci anni di dollaro debole,
la Federal Reserve tagliò la disponibilità monetaria, causando un sostanziale
apprezzamento della valuta nazionale. Numerose industrie asiatiche furono
colpite dall’improvvisa assenza di liquidità e alcune non riuscirono a
ricapitalizzarsi: erano i segnali del crollo. A dimostrazione che per causare
sconvolgimenti non è necessario fare la guerra, ma può bastare una manovra
finanziaria. Specie se l’obiettivo è appropriarsi di capitali altrui.
All’epoca
centinaia di hedge funds e speculatori del calibro di George
Soros, alla guida del Quantum Fund, cominciarono ad attaccare come lupi
famelici le economie più deboli della regione (tra queste la Thailandia di cui
colpirono duramente la divisa nazionale, il bath). In poco più di una settimana
il contagio si estese gradualmente verso sud (coinvolgendo la Malesia,
l’Indonesia, le Filippine e Singapore) e verso nord, fino alla Russia. Anche
nel caso asiatico gli investitori stabilirono che convenisse abbandonare il
continente e mentre la Fed aumentava i tassi d’interesse, trasferirono i loro
capitali nei mercati statunitensi, che avrebbero vissuto una nuova stagione
rialzista. Come in America Latina, gli Stati Uniti utilizzarono i risparmi
accumulati per comprare asset asiatici a prezzi stracciati, mentre le economie
locali apparivano devastate. Solo la Cina si salvò.
Ora è il nostro
turno
Sei anni più
tardi il dollaro tornò debole e, puntuale come la marea, nel 2012 la Federal
Reserve ne ha segnalato l’imminente apprezzamento. Nel tempo il trucco è
rimasto lo stesso: provocare crisi regionali a scapito delle nazioni indigene.
Di recente lo abbiamo visto con l’incidente del Cheŏnan (la
nave sudcoreana affondata nel 2010 forse da un missile di P’yŏngyang, n.d.t.);
nella disputa per le isole Diaoyu/Senkaku tra Cina e Giappone; e in quella per
l’isola Huangyan/Scarborough Shoal tra Cina e Filippine. Ma gli Stati Uniti,
che giocavano col fuoco in casa propria, nel 2008 sono stati travolti a loro
volta dalla crisi finanziaria. Ne è conseguito un ritardo nel rafforzamento del
dollaro, mentre gli scontri per Hungyan e le isole Diaoyu non sembrano aver
avuto un rilevante impatto finanziario. Perché tali incidenti sono avvenuti
proprio all’inizio del decennale periodo di debolezza della valuta Usa?
Scrutando gli
eventi attraverso il prisma del ciclo del dollaro, teso a distruggere le
economie antagoniste, possiamo stabilire che è giunto il turno della Cina, da
tempo divenuta un magnete per gli investimenti stranieri. La Repubblica
Popolare è più di una nazione: la sua economia è grande quanto quella
dell’America Latina (in termini di pil lo è perfino di più) ed è pressoché
identica a quella dell’intera Asia orientale. Nell’ultimo decennio l’afflusso
di capitali stranieri ha consentito a Pechino di crescere a una velocità
sconvolgente e di diventare la seconda economia del mondo. Nulla di
stupefacente dunque se ora l’egemone globale punta a guastarne il successo.
Per questo a
partire dal 2012 si sono susseguite numerose dispute nel Mar Cinese Meridionale
e Orientale, fino allo scontro nel 2014 tra Cina e Vietnam per la piattaforma
petrolifera hd-981 e il costituirsi a Hong Kong del movimento Occupy Central.
Quando nel maggio del 2014 accompagnai a Hong Kong il generale Liu Yazhou,
commissario politico dell’Università nazionale per la Difesa, la protesta
appariva in fermento e sarebbe potuta deflagrare già allora, ma nulla è
accaduto almeno fino ad agosto. Cosa aspettavano i manifestanti? Proviamo a
confrontare la cronologia di Occupy Central con lo sviluppo di un altro evento:
la cadenzata fine del quantitative easing (Qe) decisa dalla
Federal Reserve. Per tutta l’estate la Banca centrale ha mantenuto il dollaro
debole, rendendo inutile l’inizio delle proteste. Solo l’annunciata fine del Qe
nel settembre successivo ha provocato il rafforzamento del biglietto verde e
inaugurato Occupy Central.
La contesa per
le isole Diaoyu, per Huangyan, per la piattaforma petrolifera hd-981, nonché le
proteste a Hong Kong, sono quattro eventi potenzialmente esplosivi. Se anche
uno solo di questi deflagrasse, il subcontinente cinese non apparirebbe più
appetibile agli investimenti. Uno sviluppo che realizzerebbe la strategia di
Washington, per cui quando il dollaro si apprezza una regione del globo deve
essere investita dalla crisi. Questa volta però, la superpotenza si è
schiantata contro la forza della Repubblica Popolare. I cinesi hanno usato il
metodo del taijiquan per sventare ciascuno degli attacchi
sferrati nella loro regione, con il risultato che quanto auspicato dagli
americani non si è realizzato. La situazione è lontana dal punto di rottura e
la Fed non può ancora permettersi di alzare i tassi d’interesse.
Eppure, malgrado
le difficoltà, gli Stati Uniti non hanno intenzione di rinunciare all’impresa.
In simultanea con il sostegno fornito a Occupy Central, hanno cominciato ad
agire in altre aree geografiche. A partire dall’Ucraina. All’inizio del 2014
hanno pensato di colpire il paese guidato da Viktor Janukovyč, non certamente
un modello di efficienza e trasparenza, perché costituiva un obiettivo facile.
Inoltre, un intervento contro Kiev avrebbe arrestato l’avvicinamento in corso
tra Unione Europea e Russia e avrebbe influito negativamente sul clima per gli
investimenti. Di fatto, come prendere tre piccioni con una fava. Si è
verificata così una rivoluzione colorata che si è spinta perfino oltre gli
obiettivi dei suoi ideatori. Putin, l’uomo forte di Mosca, ha colto l’occasione
per riconquistare la Crimea, ma la mossa è servita agli Stati Uniti per premere
sull’Ue e sul Giappone affinché adottassero sanzioni stringenti contro la
Russia, colpendo duramente anche l’economia europea.
Qual è il senso
dell’offensiva americana? Spesso si tende a interpretare quanto accade soltanto
con gli strumenti della geopolitica e non con quelli della finanza. La crisi
ucraina ha provocato un netto deterioramento delle relazioni tra Russia e
Occidente, mentre le sanzioni contro Mosca hanno rallentato l’afflusso di
investimenti verso l’Europa e provocato una massiccia fuga di capitali. Secondo
alcuni rilevamenti, negli ultimi mesi più di mille miliardi di dollari
avrebbero abbandonato il Vecchio Continente. Tuttavia la duplice offensiva si è
dimostrata solo parzialmente efficace. Impossibilitata a toglierli alla Cina,
l’America ha sottratto capitali all’Europa. Questi però si sono diretti
soprattutto verso Hong Kong. È evidente che gli investitori non credono nella
ripresa statunitense e preferiscono affidarsi al Celeste Impero che, ancorché
in frenata, può ancora vantare il più alto tasso di crescita del mondo.
L’anno scorso il
governo di Pechino ha poi annunciato una sinergia tra le Borse di Shanghai e
Hong Kong e gli investitori globali bramano per profittare della novità. In
passato i capitali occidentali non osavano accedere al mercato azionario
cinese, a causa dei severi controlli sugli scambi tra monete e della difficoltà
ad abbandonare il paese. Ma con la creazione della Shanghai and Hong Kong
Markets Communication ora possono investire in entrambi i mercati e ritirarsi
quando vogliono. Non a caso, mentre più di mille miliardi di dollari si
riversavano su Hong Kong, i manifestanti di Occupy Central si rifiutavano di
mollare. Obama intendeva sfruttare fino all’ultimo la sommossa per i suoi
scopi.
La dipendenza
assoluta degli Stati Uniti dai flussi internazionali di capitali risiede
nell’abbandono, avvenuto con la fine del gold standard, della
produzione manifatturiera e dell’economia reale. Gli americani considerano
«spazzatura» le imprese che producono beni dal basso valore aggiunto (sunset
industries) e per questo le hanno gradualmente trasferite nei paesi in via
di sviluppo, tra questi la Cina. Se si escludono industrie high-tech come Ibm,
Microsoft ed altre, il governo Usa ha favorito l’esodo nel settore finanziario
del 70% dei posti di lavoro. Divenuto industrialmente vuoto e privo
dell’apporto dell’economia reale, il paese vive esclusivamente di economia
virtuale. Riesce a produrre soldi soltanto con i capitali stranieri che
accedono ai tre mercati interni e poi utilizza i profitti per spennare il resto
del mondo. È questo ormai il suo unico sostentamento: chiamiamolo pure American
way of life. La superpotenza ha bisogno di assorbire grandi quantità di capitale
per sorreggere l’economia nazionale e mantenere il livello di benessere dei
cittadini. Pertanto chiunque cerchi di interrompere il flusso in questione è da
considerarsi un nemico strategico. Se non comprendiamo questo non possiamo
valutare con lucidità la situazione attuale.
II. A CHI HA
ROVINATO LA FESTA LA RAPIDA ASCESA DELLA CINA?
Perché la
nascita dell’euro scatenò una guerra?
L’euro nacque il
primo gennaio del 1999. Tre mesi più tardi, cominciò la guerra del Kosovo.
Molti credettero che gli Stati Uniti e la Nato avessero unito le forze per
combattere il regime serbo di Milošević che, con il massacro degli albanesi
etnici, stava provocando una tragedia umanitaria. Poi, al termine del
conflitto, gli americani ammisero che si era trattato di una campagna
realizzata congiuntamente dalla Cia e dai media occidentali per colpire
Belgrado. Ma la guerra in Kosovo fu realmente combattuta contro la Jugoslavia?
Nei giorni del lancio della moneta unica, gli europei apparivano in preda
all’euforia. Tanto da fissare a 1,07 il cambio con il dollaro e da partecipare
massicciamente alla campagna dei Balcani. Solo quando, dopo 72 giorni di
bombardamenti, il regime di Milošević crollò, a Bruxelles compresero che i
conti non tornavano. Durante il conflitto l’euro si era deprezzato del 30%,
raggiungendo quota 0,82 dollari. Per questa ragione quattro anni più tardi
Francia e Germania si sarebbero veementemente opposte alla guerra in Iraq.
Sebbene molti
analisti sostengano che le democrazie occidentali non si combattono fra loro,
negli ultimi anni si sono registrate numerose guerre finanziarie ed economiche.
Una di queste fu proprio quella del Kosovo, nociva tanto per la Jugoslavia
quanto per l’euro. D’altronde con la sua nascita la moneta unica aveva rotto
l’idillio del dollaro che prima del 1999 rappresentava l’indiscussa divisa
globale, usata per l’80% delle transazioni internazionali (oggi lo è per il
60%). Con 27 mila miliardi di dollari l’Unione Europea era divenuta la regione
economica più grande del mondo, maggiore della North American Free Trade Area
(24-25 mila miliardi di dollari), ed era inevitabile che l’euro erodesse di
almeno un terzo le transazioni effettuate dal dollaro (attualmente il 23% degli
scambi mondiali avviene nella moneta unica europea). Quando gli Stati Uniti si
accorsero che l’euro minacciava il primato del dollaro era già troppo tardi.
Imparata la lezione, adesso intervengono per annientare preventivamente
qualsiasi avversario.
Cosa vuole
ottenere l’America con il suo ribilanciamento strategico verso l’Asia-Pacifico?
In questa fase
la Cina costituisce il principale avversario della superpotenza. Gli scontri
del 2012 per le isole Diaoyu e Huangyan non sono altro che gli ultimi tentativi
di colpire un potenziale rivale. Entrambi gli eventi sono avvenuti nell’area
geopolitica cinese e, nonostante non siano riusciti a innescare una fuga di
capitali, hanno comunque raggiunto parzialmente gli obiettivi. Nello specifico
hanno nuociuto gravemente al trattato di libero scambio dell’Asia nordorientale
(Northeast Asian Fta). Se agli inizi del 2012 il negoziato tra Cina, Giappone e
Corea del Sud appariva a un passo dalla conclusione (nell’aprile dello stesso
anno Pechino e Tokyo avevano raggiunto un’intesa preliminare in tema di scambio
di yen e buoni del Tesoro), le successive dispute per le isole hanno reso
impraticabili entrambi gli obiettivi. A distanza di tre anni è stato a malapena
completato il negoziato bilaterale tra Cina e Corea del Sud.
Gli Stati Uniti
temono fortemente il Northeast Asian Fta perché questo, includendo Cina,
Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Macao e Taiwan, diventerebbe con circa 20
mila miliardi di dollari di pil complessivo la terza area economica del mondo.
Non soltanto. In futuro potrebbe inglobare anche l’area di libero scambio del
Sud-Est asiatico e creare così un gigante da oltre 30 mila miliardi di dollari,
l’economia più grande del globo. Se poi si unissero anche l’India, le cinque
repubbliche dell’Asia Centrale e il Medio Oriente, raggiungerebbe i 50 mila
miliardi di dollari di pil, più dell’Unione Europea e del Nafta messe insieme.
Come accaduto al dollaro in Nord America e successivamente nel mondo, lo yuan
diventerebbe la valuta utilizzata nelle transazioni di un immenso mercato
comune.
L’internazionalizzazione
del renminbi non avrebbe un significato esclusivamente monetario.
Rappresenterebbe anche il volano della politica delle vie della seta che
condurrebbe alla tripartizione tra dollaro, euro e yuan del primato valutario
globale e alla divisione del mondo in tre blocchi commerciali. Gli americani ne
sono perfettamente consapevoli e per questo hanno premuto su Giappone e
Filippine affinché si scontrassero con la Cina. Del resto se il dollaro
coprisse appena un terzo degli scambi globali, come potrebbero gli Usa
mantenere la loro supremazia monetaria? Ancor più importante, come può una
nazione priva di un’economia reale restare leader mondiale se perde l’egemonia
monetaria? Per capire cosa sta succedendo dobbiamo riconoscere che dietro le
recenti difficoltà della Repubblica Popolare si cela la longa manus di
Washington, abituata a pensare nel lungo periodo e ora impegnata a disinnescare
l’insidia cinese. È questa la principale ragione del perno asiatico, il cui
vero obiettivo non è creare un pacifico equilibrio tra la Cina e le potenze
locali, quanto stroncare sul nascere le nostre ambizioni.
III. SOLDATI
AMERICANI COMBATTONO IN NOME DEL DOLLARO
La guerra
irachena e la valuta utilizzata nella vendita del petrolio
Tutti concordano
nel sostenere che il potere a stelle e strisce si regge su tre pilastri:
denaro, tecnologia e Forze armate. Adesso però possiamo affermare che i
pilastri sono soltanto quello monetario e quello militare, con il Pentagono
impegnato a sostenere il dollaro. Fare la guerra è assai dispendioso, ma gli
Stati Uniti sono in grado di guadagnare denaro combattendo, indipendentemente
dalle dolorose sconfitte subite di recente.
Ad esempio:
perché hanno invaso l’Iraq? Molti risponderebbero «per il petrolio», ma si
sbagliano. Se gli Usa puntavano agli idrocarburi, perché mai dopo l’invasione
del paese non hanno ottenuto neanche una goccia di greggio? Perché il prezzo al
barile passò tra l’inizio e la fine della guerra da 38 a 149 dollari, gravando
sulle tasche dei cittadini statunitensi? La ragione è molto semplice: Iraqi
Freedom è stata pensata solo per il biglietto verde. Come ormai sappiamo, per
mantenere la supremazia globale la superpotenza ha bisogno che il mondo usi la
sua valuta. Per raggiungere tale obiettivo nel 1973 l’amministrazione Nixon si
dimostrò scaltra nel costringere l’Arabia Saudita e le principali nazioni
dell’Opec a utilizzare il dollaro per la vendita dell’oro nero. E quando gli
Stati Uniti attaccano una nazione produttrice di petrolio, il prezzo del
greggio schizza in alto e con esso anche la domanda globale della loro divisa.
Con la Federal Reserve libera di adottare una politica monetaria espansiva.
C’è anche
un’altra ragione per cui George W. Bush volle la guerra. Saddam Hussein non
sosteneva al-Qā’ida, né nel paese vi era traccia di armi di distruzione di
massa, ma il ra’īs negli anni precedenti aveva peccato di hybris.
In particolare, nel 1999 Saddam aveva annunciato l’intenzione di vendere in
euro gli idrocarburi iracheni. Una decisione presto emulata dal presidente
russo Vladimir Putin, da quello iraniano Mahmud Ahmadi-Nejad e dal leader
venezuelano Hugo Chávez. È proprio questo che irritò gli americani. Non a caso
il primo decreto emesso dal governo di Baghdad nel dopo invasione stabiliva che
l’esportazione del petrolio sarebbe stata effettuata in dollari.
La guerra in
Afghanistan e il surplus nella bilancia dei pagamenti americana
Se il conflitto
in Iraq fu ordito per mantenere il primato del dollaro, secondo molti
osservatori lo stesso non si può dire della guerra in Afghanistan. Anche perché
nel paese dell’Asia centrale non vi sono idrocarburi e la campagna fu lanciata
immediatamente dopo l’11 settembre per punire al-Qā‘ida e i taliban. Cominciata
circa un mese dopo il crollo delle Torri Gemelle, l’Operazione Enduring Freedom
fu realizzata in tutta fretta. Il Pentagono non poté fare altro che attingere
agli arsenali nucleari, rimuovendo mille testate atomiche dai missili Cruise e
rimpiazzandole con testate convenzionali. Dopo rastrellò altri novecento
missili e solo allora poté battere l’Afghanistan. Questa è la riprova che la
preparazione era stata assai carente. Dunque perché scatenare la guerra tanto
velocemente?
All’alba del XXI
secolo gli Stati Uniti erano una nazione industrialmente nulla che per
sopravvivere aveva bisogno ogni anno di assorbire dall’estero circa 700
miliardi di dollari. Gli attentati dell’11 settembre avevano guastato il clima
per gli investimenti come mai accaduto prima e in circa trenta giorni oltre 300
miliardi di dollari avevano lasciato il paese. Il nocciolo della questione era
fin troppo chiaro: se l’America non era in grado di difendere il proprio
territorio, come poteva garantire la sicurezza finanziaria degli investitori?
La guerra doveva dunque servire a riconquistare la fiducia dei mercati. E
Washington centrò agilmente l’obiettivo. Quando i primi missili Cruise
colpirono Kabul, l’indice Dow Jones guadagnò 600 punti in un solo giorno e al
termine dell’invasione circa 400 miliardi di dollari fecero ritorno negli Stati
Uniti.
Perché le
portaerei saranno sostituite da sistemi globali di attacco rapido
Molti cultori
della storia della Marina da guerra si aspettano grandi cose dalla portaerei
cinese Liaoning, giacché una grande nazione deve necessariamente
possederne almeno una. Tuttavia l’economia globale è sempre più incentrata
sulla tecnologia finanziaria e la rilevanza delle portaerei appare in netto
declino. L’impero britannico, che al suo apogeo vendeva manufatti in cambio di
risorse naturali, necessitava di una Marina potente che garantisse la sicurezza
del commercio globale e mantenesse praticabili le vie marittime. Lo sviluppo
delle portaerei ottemperava perfettamente a questa funzione. Allora il motto
era «la logistica è sovrana» e controllare il commercio via mare significava
decidere della ricchezza globale.
Oggi però
viviamo in un’èra in cui a regnare sovrano è il denaro. Centinaia, se non
addirittura migliaia di miliardi di capitale si spostano da un luogo all’altro
in pochi secondi con la semplice pressione di un tasto del computer. La
portaerei che solca gli oceani può dominare la logistica, ma priva della stessa
velocità, non è in grado di controllare i trasferimenti di valuta. Come fare
dunque per stare al passo con la direzione, la grandezza e la velocità di tali
flussi alimentati da Internet? Gli americani stanno sviluppando un sistema
globale di attacco rapido che, dotato di testate balistiche e caccia supersonici
cinque o dieci volte più veloci di un missile Cruise, può colpire qualsiasi
luogo in cui si concentrano gli investimenti. Il Pentagono sostiene di poter
realizzare in meno di 28 minuti un attacco militare in qualsiasi parte del
mondo. E appena un missile Usa centra l’obiettivo scatta puntuale la fuga di
capitali. Ecco perché i sistemi globali di attacco rapido sono destinati a
sostituire le portaerei. Certo, le piattaforme marittime continueranno a
proteggere il transito commerciale e a condurre missioni umanitarie, ma in
futuro un armamento sarà valido solo se in grado di incidere sui flussi di
denaro.
IV. LA AIRSEA
BATTLE: IL NODO GORDIANO DEGLI AMERICANI
Nel tentativo di
escogitare il sistema più efficace per contrastare la Cina, di recente il Pentagono
ha coniato il concetto di AirSea battle, che a mio parere
rappresenta un ineludibile dilemma. Annunciata al summit dell’Aeronautica e
della Marina Usa del 2010, tale strategia palesa l’attuale declino delle Forze
armate statunitensi. In precedenza la superpotenza era certa che un attacco
condotto simultaneamente dal cielo e dal mare contro la Repubblica Popolare
l’avrebbe posta in una posizione favorevole. Ciò nonostante, circa quattro anni
più tardi la AirSea battle ha già cambiato nome per trasformarsi
in «concetto di comune coinvolgimento globale e di mobilità congiunta».
Ora Washington
afferma che i due rivali non si faranno la guerra per almeno dieci anni, anche
perché studi recenti dedicati allo sviluppo delle Forze armate cinesi hanno
dimostrato che le attuali capacità militari degli Stati Uniti non bastano per
annullare i vantaggi acquisiti da Pechino nella distruzione dei sistemi
spaziali e nell’attacco alle portaerei. Sicché in questa fase il Pentagono si
sta industriando per realizzare un sistema di combattimento maggiormente
sofisticato, che renda possibile un conflitto armato nel decennio successivo.
Uno scenario che potrebbe non avverarsi e che non vorremmo affrontare, ma al
quale dobbiamo comunque prepararci, sia sul piano economico che militare.
V. IL
SIGNIFICATO STRATEGICO DELLE VIE DELLA SETA
Occupiamoci
della passione degli americani per lo sport. Il pugilato in particolare
riflette l’idea di forza che hanno: attacco frontale, colpi diretti, movimenti
chiari, il knockout che sancisce la vittoria. Al contrario i
cinesi, che apprezzano le sfumature e la sinuosità, non puntano a stendere
l’avversario, quanto a comprenderne e ad annullarne le mosse. Nella Repubblica
Popolare si pratica il taiji, un’arte nettamente superiore alla
boxe. Il modello delle vie della seta riflette questo approccio. Storicamente è
l’ascesa delle grandi potenze a innescare la globalizzazione: un processo
discontinuo, legato a doppio filo all’epopea del soggetto geopolitico
dominante. E se con l’impero romano o con quello Qin la globalizzazione
mantenne un’estensione regionale, fu con la Gran Bretagna che raggiunse
dimensioni realmente universali. Gli Stati Uniti, che si sono sostituiti al
Regno Unito, hanno invece realizzato la globalizzazione del dollaro, così le vie
della seta, piuttosto che segnalare l’integrazione della Cina in un sistema
straniero, rappresenta la fase iniziale di un analogo processo indipendente.
Presto il dollaro andrà in declino e la Repubblica Popolare, in quanto grande
potenza, soppianterà l’egemone con un suo peculiare modello.
Quella delle vie
della seta è di gran lunga la migliore strategia securitaria che Pechino possa
adottare contro il ribilanciamento verso Oriente perseguito dal Pentagono.
Qualcuno potrà obiettare che solitamente il contenimento di un rivale si fa
nella sua stessa direzione, ma il modo più efficace per rispondere al perno
asiatico è andare nella direzione opposta. Ovvero muoversi verso Occidente. Non
per evitare il confronto, né per paura. Quanto per allentare la pressione
esercitata su di noi a Oriente. Le vie della seta rappresentano un progetto
composto da priorità diverse. Dal momento che la nostra Marina è ancora debole,
dobbiamo competere via terra, con il continente come prima direzione d’attacco
e i mari come traiettoria secondaria. In tale contesto l’Esercito cinese, che
all’interno del territorio nazionale è di fatto invincibile, ricoprirà un ruolo
cruciale e nostro obiettivo primario sarà espanderne le capacità di proiezione
all’estero.
L’anno scorso ho
affrontato questo argomento al Global Times Forum. Ho spiegato che nello
scegliere la Cina come avversario, l’America ha commesso un grave errore.
Soprattutto perché, in vista del futuro, il suo rivale è se stessa e finirà per
autodistruggersi. Non comprende che il capitalismo finanziario è declinante e
che, privilegiando l’economia virtuale, ne ha già drenato i benefici. Inoltre
l’innovazione scientifica e tecnologica, nel cui ambito la Silicon Valley
rimane l’indiscusso leader mondiale, spingerà all’estremo innovazioni come
Internet, big data, cloud che, assumendo vita
propria, si trasformeranno nei principali oppositori del capitalismo
finanziario e annienteranno la superpotenza.
Alcuni segnali
sono già visibili. Ad esempio, l’11 novembre 2014, il giorno che in Cina
corrisponde a San Valentino, lo shopping online su Alibaba’s Taobao ha toccato
i 50,7 miliardi di yuan, mentre negli Stati Uniti nei tre giorni successivi
alla festa del ringraziamento si sono registrate vendite online e di persona
per un totale di 40,7 miliardi di yuan. Uno scarto significativo, ottenuto
senza tenere conto di siti quali Netease, Tencent, Jingdong, o degli incassi
dei centri commerciali. È fin troppo chiaro che una nuova èra è iniziata e che
alla Casa Bianca non ne sono consapevoli. Peraltro, su Alibaba tutti gli
acquisti sono stati effettuati attraverso il sistema di pagamento diretto
Alipay: di fatto la moneta è già stata estromessa dalle transazioni. Che
succederà agli Usa, un impero costruito sulla valuta, se il dollaro diventa
inutile? È questa la domanda che dovrebbero porsi i nostri interlocutori.
Anche la
stampante 3D rappresenta una svolta e causerà una rivoluzione nel settore
industriale. E se il commercio e i sistemi di produzione si stanno evolvendo,
anche il mondo è destinato a cambiare radicalmente. La storia dimostra che solo
le innovazioni determinano un reale mutamento. Fu ai tempi dell’imperatore Qin
che il popolo cinese, guidato da Chen Sheng e Wu Guang, cominciò a ribellarsi e
in duemila anni di storia si sono registrate decine di rivolte. Ma benché questi
movimenti abbiano prodotto numerosi cambi di regime, non sono riusciti a
trasformare la natura della società rurale, né i sistemi di produzione o il
modo di commerciare.
Lo stesso è
accaduto in Occidente con Napoleone, che pur conducendo la Francia a conquistare
l’Europa, una volta sconfitto a Waterloo non poté impedire il ripristino dell’ancien
régime e della società feudale. Al contrario la rivoluzione
industriale, innescata dall’invenzione del motore a vapore, sconvolse il mondo
provocando un aumento della produzione, un surplus di manufatti e con questi
l’avvento del capitale e dei capitalisti.
Oggi proprio con
il tramonto delle valute materiali e l’emergere della stampante 3D l’umanità
appare prossima a entrare in una nuova èra. Washington e Pechino partono
pressoché alla pari in tema di Internet, big data e cloud.
Il punto è stabilire chi saprà muoversi meglio in questa nuova fase storica,
anziché prevedere chi riuscirà a sopraffare l’altro. Poiché il suo principale
nemico è se stessa, l’America ha individuato nella Cina il rivale sbagliato.
Eppure non comprende l’errore. È troppo bramosa di mantenere la propria
solitaria leadership e non ha intenzione di condividere la governance mondiale
con le altre nazioni. Mentre affrontare insieme questa nuova epoca, piena di
incognite e di barriere sconosciute, appare del tutto necessario.
(traduzione di Dario Fabbri attuale direttore di Domino e collaboratore di
Mentana su La7)
Il generale Qiao Liang è famoso e molto studiato anche in Occidente per il suo libro “ Guerra senza Limiti- L'arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione” in cui già nel 1999 prefigurava le guerre contemporane e per il suo recente “ L’ arco dell’ impero - con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità” entrambi nell’ edizione italiana con la prefazione del generale Fabio Mini (disponibili per i nostri lettori alla convenzionata Libreria Einaudi di Trieste).
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