DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

martedì 21 luglio 2020

TANTI, FORSE TROPPI SOLDI PER L'ITALIA. E UNA FOTOGRAFIA IMPIETOSA - Un primo articolo di commento sull' accordo sui fondi europei - Fabrizio Maronta su Limes On Line


Pubblicato su LimesOnLine 21/7/20
Date le premesse, il Consiglio Europeo è andato abbastanza bene per l'Italia, abbastanza male per l’Europa unita.

C’è il quanto, che è importante. E c’è il come, che non lo è di meno.

Il Consiglio Europeo fiume di Bruxelles (secondo, per lunghezza, solo a quello di Nizza del 2000) ha prodotto un risultato tutto sommato soddisfacente, considerate le premesse. Ma lo ha fatto al prezzo di un ulteriore approfondimento della faglia tra “cicale” e “formiche” che spacca l’Unione Europea dal 2008. Lascito avvelenato di una crisi del debito e della moneta unica innescata dal disastro dei mutui subprime statunitensi, ma la cui genesi era inscritta in un’unione monetaria nata all’insegna dell’eterogeneità fiscale, economica, culturale. E del ricatto reciproco.

L’accordo raggiunto nelle prime ore del 21 luglio non cambia l’ammontare complessivo del Next generation EU presentato a maggio dalla Commissione europea, confermando in toto i 750 miliardi inizialmente ipotizzati. Tuttavia, ridefinisce il rapporto tra contributi a fondo perduto (grants) e prestiti (loans): 390 miliardi di euro i primi, 360 i secondi. Non lontano da quel pareggio tra prestiti e sussidi cui i cosiddetti “frugali”, capeggiati dall’Olanda, puntavano. Di questi danari, la Resilience and Recovery Facility, cuore del fondo per il rilancio economico allocato direttamente agli Stati membri, ammonterà a 312,5 miliardi. Ridotti sono invece i trasferimenti sotto specie di singoli programmi europei, pari ora a 77,5 miliardi rispetto ai 190 suggeriti dalla Commissione: azzerato lo Eu4Healt (il nuovo programma europeo per la sanità), fortemente ridimensionati il Just Transition Fund e il Fondo agricolo per lo sviluppo rurale. Il volume totale del bilancio europeo resta invariato a 1.074 miliardi, a garanzia delle future erogazioni già concordate prima della pandemia nei negoziati sul periodo di programmazione 2021-27.

Nell’insieme, l’Italia si assicura 209 miliardi: più dei 172,7 indicati nel piano originale della Commissione, sebbene sia aumentata solo la quota di prestiti (da 91 a 127), mentre i contributi a fondo perduto restano invariati rispetto alla bozza originaria. Su questo occorre una prima, importante precisazione.

I soldi sono molti, forse troppi per le limitate capacità di programmazione e spesa di un paese che difficilmente riesce a spendere più di un terzo dei fondi europei a esso destinati, ma vogliamo credere – con un atto di fede – che sulla scia del Covid-19 questa volta sarà diverso. Notevole è anche il salto di qualità imposto dalla Germania (in primis) e dalla Francia al meccanismo di aiuti: la quota “a fondo perduto” rappresenta, di fatto, una forma di mutualizzazione del debito della quale occorre dare atto a Berlino, senza la cui garanzia sovrana le obbligazioni che la Commissione europea emetterà a breve per reperire le necessarie risorse non potrebbero mai e poi mai godere della (auspicata) tripla A.

Tuttavia, è bene non illudersi che il fondo “perduto” sia davvero tale. I titoli emessi dalla Commissione diverranno infatti debito pubblico europeo, che la Ue (la quale vive di contributi nazionali) sarà chiamata a rifondere ai creditori (gli investitori che ne compreranno i titoli) secondo i tempi (dal 2028 al 2058) e i tassi stabiliti. Di questo debito risponderanno i paesi europei in proporzione a quanto versano al bilancio comunitario – l’Italia è terzo contributore netto dopo Germania e Francia – e c’è da scommettere che questa responsabilità non sarà in solido. Cioè che in caso di inadempienza di uno Stato, gli altri non copriranno la sua quota. O, se lo faranno, si rivarranno poi su di esso. Ciò a scongiurare quella Transferunion (di fatto, un fisco federale in cui alcuni paesi coprono debito e disavanzo altrui) aborrita dagli elettorati dell’Europa centro-settentrionale.

In quest’ottica vanno letti due aspetti importanti dell’accordo.
Il primo è la contropartita finanziaria pretesa dai “frugali”, concretizzatasi nell’aumento dei rebates (storni, restituzioni) sulla loro quota nazionale di bilancio comunitario: 322 milioni annui alla Danimarca (rispetto ai 222 milioni della prima proposta),  1,921 miliardi all’Olanda (partiva da 1,576), 565 milioni all’Austria (dai 287 iniziali), 1,069 miliardi alla Svezia (da 823 milioni), mentre i 3,67 miliardi della Germania restano invariati. Non si tratta solo di avere più soldi ora (e in futuro, dato che il criterio di ripartizione resta); si tratta anche di ridurre l’incidenza percentuale della propria quota di contribuzione al bilancio Ue in una prospettiva, lontana ma non remota, di restituzione dei capitali agli investitori dei bond comunitari. Specie se tali investitori dovessero essere (anche) proprie banche, che in tal modo si vedrebbero in parte finanziate dagli altri paesi membri.


Il secondo aspetto riguarda la famigerata condizionalità politica, cioè la presenza di regole di condotta per la spesa dei fondi, sanzionabili con il ritiro degli stessi. Dopo tre notti insonni, a vedere la luce è il cosiddetto “super freno di emergenza”: i piani presentati dagli Stati membri saranno approvati dal Consiglio Europeo (cioè dai governi) a maggioranza qualificata, mentre il Comitato economico e finanziario (Cef) – composto dai tecnici dei ministri delle Finanze nazionali – valuterà il rispetto delle tabelle di marcia e degli obiettivi fissati per l’attuazione dei piani. In caso di problemi, anche un singolo paese potrà chiedere di portare la questione sul tavolo del Consiglio europeo (di nuovo, i governi), che avrà tre mesi per decidere. Niente automatismi dunque, ma trattative politiche a oltranza. Senza sconti.

Ma è sul piano strettamente geopolitico che il vertice produce i suoi effetti maggiori.

L’istantanea dell’Europa che emerge dal vertice è impietosa. Olanda, Austria, Svezia e Danimarca, con la tardiva ma convinta aggiunta della Finlandia, integrano il cosiddetto asse dei “frugali”, contrari a qualsiasi forma di mutualizzazione del debito (Tre su cinque hanno un governo socialdemocratico ndr).
Poco importa che il premier olandese Mark Rutte e la finlandese Sanna Marin siano stati in parte costretti a irrigidire le proprie posizioni dalla necessità di non farsi scavalcare a destra dai rispettivi “populisti”, la cui sconfitta alle urne è un plus che si sono ben spesi in sede negoziale. La loro irriducibile opposizione di principio agli aiuti europei ha ulteriormente approfondito il fossato tra Nord e Sud d’Europa, specie con Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, rendendolo nel medio periodo forse incolmabile. Al pari del divario economico che separa queste due parti del Vecchio Continente, alla cui riduzione non concorre di certo il dumping fiscale (concorrenza sleale) che diversi tra i “frugali” continuano imperterriti a praticare, con buona pace altrui.

Parallelamente, il Gruppo di Visegrád composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria si è confermato un’aggregazione efficace, quando attivata. I quattro hanno scongiurato qualsiasi condizionalità che vincolasse l’uso degli aiuti concordati al rispetto dello Stato di diritto. Così confermandosi “sovranisti”, per usare la vulgata di moda. Meglio: vedendo una volta di più il bluff di un’Europa solidale e liberale a corrente alternata, in base alle convenienze dei suoi singoli componenti.

Una nota a parte merita il presunto asse franco-tedesco, meglio definibile come vagone francese al traino della corazzata tedesca. Pur scontando un’acrimonia dei “frugali” messa in conto – anzi, spesso usata ad arte – ma forse superiore alle sue stesse aspettative, Angela Merkel è stata il deus ex machina di questo accordo. Figlio della convenienza: quella dell’industria tedesca a non dinamitare un mercato unico da cui trae enormi vantaggi e quella della stessa cancelliera che, con un occhio al voto del 2021, non vuol’essere ricordata come colei che ha presieduto alla disintegrazione della Ue. Ma frutto anche di un europeismo oggi non scontato. Un europeismo interessato, com’è giusto che sia. Dal momento che, dovrebbe essere ormai chiaro, uccidere lo Stato non è il viatico per la fantomatica “buona Europa” di cui a lungo si è vagheggiato.

Qui il discorso piega sull’Italia. Che ha avuto la sfortuna di essere investita per prima e più di altri in Europa dall’onda d’urto epidemica, nonché il demerito di averla affrontata con l’arma spuntata di un Servizio sanitario nazionale per anni metodicamente demolito, come il grosso dei nostri apparati pubblici. Che ha battuto i pugni per “i soldi subito” e discetta ancora se usare o meno il Mes, come se davvero avesse alternative. Che è giunta a Bruxelles unica tra i 27 Stati membri senza aver presentato un compiuto piano di interventi e riforme da finanziare con il Recovery Fund, attirandosi i sospiri tedeschi e le ire dei “frugali”, cui ha reso particolarmente facile il gioco. E che – è una previsione: vale quel che vale – vedrà la sua instabile, ossimorica maggioranza, a partire dal suo volenteroso premier, spendersi per settimane, forse mesi preziosi il risultato di Bruxelles in chiave politico-elettorale.

Demandando magari a non ben precisati “tecnici” la definizione di quella politica economica cui affidare, anche con i quattrini europei, la miracolosa rinascita del paese.




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