DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

mercoledì 10 giugno 2020

L' IRRIDUCIBILE ALTERITA' DI TRIESTE - Un articolo di LIMES per inquadrare meglio quello che sta succedendo in questi giorni al Porto Franco Internazionale.

Carta di Laura Canali 
In questi giorni difficili, questo articolo è leggibile gratuitamente da tutti. 
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Pubblicato in LIMES: IL MURO PORTANTE - n°10 - 2019 - 8/11/2019

L’IRRIDUCIBILE ALTERITÀ DI TRIESTE

 di Paolo Deganutti

Gli indipendentisti invocano lo sviluppo del porto franco stabilito dagli accordi del secondo dopoguerra. I fasti asburgici e il declino post-annessione. La Mitteleuropa come entroterra naturale. Il mito delle città Stato. Trieste è troppo internazionale per essere italiana.

1. Già nel 1970 lo storico Bogdan Novak scriveva: «La questione di Trieste potrebbe essere nuovamente portata all’attenzione del mondo (…) da una grande crisi economica in Italia che potrebbe provocare una grave disoccupazione nella città. Gli italiani di Trieste sarebbero indotti a prendere in considerazione il retroterra come soluzione e a chiedere di internazionalizzare la città» .(1)

Nel 2013 l’endemico 
spirito autonomista di Trieste, nelle sue varie gradazioni – dall’ autonomismo moderato e borghese all’ indipendentismo radicale e popolare – è riaffiorato come un fiume carsico in superficie. Alcune imponenti manifestazioni popolari hanno riproposto il tema del Territorio libero di Trieste (TLT) e del porto franco internazionale, con striscioni e comizi in italiano, sloveno, tedesco, inglese e il dialetto «triestin» come lingua franca (2).

Secondo la tesi indipendentista, che segue un approccio legalitario tipicamente triestino dovuto alla proverbiale fiducia «asburgica» in leggi e istituzioni, il TLT istituito dal trattato di Parigi (1947) andrebbe considerato ancora valido de iure. Nessun trattato o accordo successivo di rango minore avrebbe avuto il potere di modificarlo, né il Memorandum di Londra (1954) né il trattato bilaterale di Osimo (1975). Soprattutto, l’indipendentismo mette al centro, concretamente, lo sviluppo del Porto Franco Internazionale di Trieste, previsto dai trattati citati e regolato dall’allegato VIII del trattato di pace ritenendolo, a buon diritto, il vero cuore dell’economia locale, in grado di assicurare prosperità a un territorio autonomo.

Per effetto di questi trattati precedenti alla formazione dell’Unione Europea (e da essa recepiti), il porto franco di Trieste è il solo in Europa a cui è garantita la piena extraterritorialità doganale. Ciò lo rende un unicum su cui nemmeno Bruxelles ha poteri di intervento. Extraterritorialità doganale che ha fatto ipotizzare, in seguito al Brexit, il suo utilizzo anche come sede di grandi imprese attualmente nel Regno Unito, riproponendo quel Centro finanziario offshore previsto dalla legge 19/1991 promulgata nel clima di euforia esploso alla caduta della cortina di ferro, ma mai realizzato malgrado sponsor importanti come le Generali.

Da oltre sette decenni l’Italia si dimostra molto restia alla piena attuazione del regime di porto franco nelle modalità previste dall’allegato VIII, che pertanto è diventato il centro delle rivendicazioni del Coordinamento lavoratori portuali Trieste (Clpt), il sindacato maggioritario dei lavoratori portuali triestini.

Come ha dichiarato Paola De Micheli, ministro dei Trasporti, «l’Agenzia delle dogane non ha mai voluto compiutamente riconoscere il regime di extradoganalità del porto franco triestino». Non vi è necessità di riconoscimenti a livello Ue, essendo il regime di Trieste stato escluso dal regime comunitario (intervista a Il Piccolo 24/10/2019). Così lo striscione «Allegato VIII» figura sempre alla testa dei cortei dei portuali, che lo scorso luglio hanno ottenuto l’apertura di un tavolo di alto livello su questo tema al ministero dell’Economia. Per comprendere appieno la particolarità della situazione triestina, bisogna partire dalla considerazione che qui i lavoratori portuali si stanno mobilitando per ottenere l’applicazione di un trattato internazionale stipulato oltre settant’anni fa, pienamente sostenuti in questo dalle imprese e dagli spedizionieri che operano nel porto.

2. L’importanza dell’economia portuale per il territorio è accuratamente documentata dall’Analisi di impatto economico del porto di Trieste, svolta dall’Agenzia imprenditoriale operatori marittimi (Aiom) presieduta dal professor Sergio Bologna. Le cifre presentate in questo documento parlano chiaro. Lo studio ha stimato un fatturato annuo prodotto nel 2018 direttamente dal porto, pari a 1,3 miliardi di euro, per un valore aggiunto di 497 milioni di euro. L’occupazione diretta è di 5.070 unità e quella indiretta di 2.142.

Il valore dell’indotto in termini di fatturato è di 1,5 miliardi di euro e l’occupazione indotta di 3.974 unità. Complessivamente, il comparto portuale produce 2,8 miliardi di fatturato, 1 miliardo di valore aggiunto e un’occupazione complessiva di 11.186 unità. Lo studio ha altresì calcolato il gettito fiscale generato dal porto: 205 milioni per le casse statali e 274 milioni per quelle regionali. In termini relativi, il porto e il suo indotto rappresentano il 12% dell’occupazione della provincia di Trieste. In termini di pil, invece, il porto rappresenterebbe il 9% della ricchezza prodotta nel territorio provinciale.

Malgrado queste cifre (3), la politica locale aveva quasi scordato l’importanza del porto franco internazionale per l’economia e la vita della città, puntando invece su strategie economiche tanto astratte quanto inefficaci, incentrate sull’urbanizzazione di aree già portuali in chiave turistica e non sullo sviluppo di attività produttive in zona franca e sulla portualità.

Il merito dei movimenti indipendentisti è stato, indubbiamente, quello di rifocalizzare il dibattito pubblico sulle tematiche del porto franco e dell’internazionalizzazione, istanze ormai universalmente affermatesi.

Andando oltre la disputa giuridica sull’attualità del TLT, la sostanza che concretamente alimenta questa visione, scevra di qualsivoglia rivendicazione di tipo identitario, molto presente in quasi tutti gli indipendentismi (veneto, sardo, catalano o scozzese), è iscritta nel dna della città. Come sottolinea il bel libro di Claudio Magris e Angelo Ara, Trieste: un’identità di frontiera, o quello di Jan Morris Trieste o del nessun luogo, non vi è alcuna identità definita. In realtà, Trieste è una vera città solo da meno di tre secoli. Si è sviluppata intorno al porto franco istituito dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo nel 1719 ed è cresciuta grazie all’impulso fornito da Maria Teresa d’Austria, che vi fece affluire da tutto il mondo operatori e mercanti, di svariate etnie, lingue e religioni. Uno sviluppo travolgente evidenziato anche da un acuto osservatore come Karl Marx.

Due suoi articoli, usciti sul New York Tribune rispettivamente il 9 gennaio e il 4 agosto 1857, ne attribuivano il merito sia al vasto entroterra europeo, il «mercato unico» dell’impero, sia al fatto che «Trieste aveva, al pari degli Stati Uniti, il vantaggio di non possedere un passato». Scriveva l’autore tedesco: «Popolata di commercianti e speculatori italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni, ebrei in variopinta miscela, [Trieste] non piegava sotto le tradizioni. Mentre il commercio veneziano dei cereali non usciva dai vecchi rapporti, Trieste allacciava il suo destino con la stella sorgente di Odessa, e al principio del XIX secolo, escludeva la rivale dal commercio mediterraneo dei cereali».

È curioso ricordare che la famosa scalinata di Odessa (a sua volta porto franco dal 1819),
 ripresa nel film La corazzata Potëmkin di Sergej Ejzenštejn fu costruita con pietre arenarie delle cave triestine, i masegni, fatte arrivare appositamente dal porto franco di Trieste. Forse è stato proprio il tentativo di superare l’intrinseca debolezza del sentimento di identità nazionale a produrre, a Trieste, icone tragiche del nazionalismo italiano più radicale. Come Wilhelm Oberdank, successivamente italianizzato in Guglielmo Oberdan, figlio illegittimo della domestica slovena Josepha Oberdank, e diversi altri irredentisti italiani, dai cognomi slavi o tedeschi: Adolfo Liebman, Giani Stuparich, Scipio Slataper, Marco Prister.

Carta di Laura Canali
3.Le radici dell’endemico autonomismo/ indipendentismo triestino affondano nella frustrazione provocata dall’ essere decaduti dallo status di porto principale (e terza città) del più grande impero europeo a piccola città periferica di uno Stato a sua volta periferico e arretrato, nel rapporto profondo tra la città e il suo porto franco internazionale e nella funzione che quest’ultimo ha svolto, e soprattutto subìto, nelle dispute geopolitiche internazionali. Come scriveva profeticamente Luigi Einaudi («se l’Italia vorrà conservare Trieste, lo potrà fare solo a condizione di non voler sfruttare il porto di Trieste a vantaggio esclusivo degli italiani» (4) e come hanno sempre sostenuto i veci nati durante l’impero, tra cui il poeta Biagio Marin (autore di una struggente poesia sul tema (5), il porto di Trieste avrebbe perso «gran parte del suo valore nel giorno che fosse separato dal suo entroterra tedesco e slavo e aggregato all’Italia». 
Cioè quanto è puntualmente avvenuto a partire dall’annessione successiva alla prima guerra mondiale.

L’attuale popolazione di Trieste (204.849) è inferiore a quella censita nel 1910, ovvero 229.510, cui si sommavano più di 35 mila immigrati giunti dal Regno d’Italia. Un caso unico tra le città europee, che da inizio secolo hanno generalmente moltiplicato il numero degli abitanti, segno di una decadenza pronunciata e costante. Prendendo a esempio i collegamenti ferroviari passeggeri, oggi non vi è più alcuna linea diretta con Vienna, mentre la linea ferroviaria austriaca Trieste-Vienna fu inaugurata già nel 1857. Una situazione peggiore di centosessanta anni fa, che testimonia quanto è stato fatto per tagliare le radici mitteleuropee di Trieste, in ossequio al nazionalismo italiano. E basta un viaggio per notare come il collegamento ferroviario passeggeri tra Trieste e il resto dell’Italia – via Venezia – sia inefficiente e distante da qualsiasi standard moderno.

Tutt’altra cosa è il collegamento merci del porto franco internazionale con il naturale entroterra mitteleuropeo. Utilizzando vettori esteri e sfruttando la ramificata rete ferroviaria lasciata in eredità dall’impero, compresi ponti e viadotti datati 1857, l’Autorità portuale ha fatto della ferrovia la principale modalità di trasporto terrestre, realizzando un forte e costante incremento annuo (10 mila treni standard registrati nel 2018, dato stimato in crescita per il 2019). Come sostenuto da più parti, l’impressione è che l’Italia abbia voluto Trieste per farne un simbolo di unità nazionale, per poi dimenticarsene rinunciando a utilizzare le notevoli potenzialità geoeconomiche del suo porto franco.

Il risentimento per questo «oblio» aveva già alimentato il dirompente fenomeno autonomista della Lista per Trieste (il cosiddetto «Melone»), che nelle elezioni comunali del 1978 scardinò il sistema partitico locale. Ma questa formazione politica era egemonizzata dai nazionalisti delusi dall’Italia «matrigna», ultimi eredi della borghesia liberal-nazionale italiana della prima metà del Novecento, che riuscirono a strumentalizzare l’autonomismo latente e il «portofranchismo» endemico, capitalizzando il sentimento di rancore tipico dell’amante tradito. Ora, nel neo-indipendentismo triestino questi sentimenti ambivalenti verso l’Italia sono invece assenti. Il fine è esplicitamente ottenere quella «internazionalizzazione della città» di cui parlava Novak.

Prevale, in questa visione, la convinzione che gli interessi di Trieste e del suo porto franco internazionale divergano irrimediabilmente da quelli nazionali italiani. Roma sembra preferire lo sviluppo di un sistema portuale concorrente, insensibile alle tematiche della portualità internazionale, proprio mentre le zone franche si stanno invece moltiplicando e sviluppando in tutto il mondo. A partire dalla Cina: fin dai tempi di Deng, Pechino ne ha fatto uno dei principali motori di sviluppo della propria economia.
Carta di Laura Canali4. La sensazione di abbandono è peraltro corroborata dai risultati di un secolo di annessione: isolamento dall’entroterra naturale europeo – solo ora in via di superamento – e fallimento dell’integrazione con il sistema economico italiano, che gli irredentisti avevano invece prefigurato.

Mettiamo a confronto i due porti che l’Italia ha recentemente indicato come possibili terminal delle nuove vie della seta: Trieste e Genova.

A Trieste, il 90% delle merci attualmente transitanti per il porto franco internazionale riguarda i traffici con l’Europa centro-orientale. Esempio chiarissimo dell’integrazione nella catena di distribuzione tedesca è l’oleodotto transalpino Tal/Siot, che da cinquant’anni pompa petrolio greggio fino a Ingolstadt, in Baviera, fornendo il 40% del fabbisogno petrolifero tedesco (il 100% delle regioni della Baviera e del Baden-Württemberg), il 90% di quello austriaco e oltre il 30% di quello ceco. Solo il 10% dei traffici è diretto verso l’Italia. Dunque un porto che fa da snodo tra l’Europa e l’Oriente (lontano e vicino), utilizzando il Canale di Suez e il suo recente raddoppio, come descritto da Luigi Einaudi già nel 1915. Dal canto loro, i traffici del porto di Genova interessano per il 47,4% la Lombardia, per il 18,4% il Piemonte, per l’8,6%, l’Emilia-Romagna e per l’8,2% il Veneto. Complessivamente, circa il 90% dei traffici è destinato all’Italia – il contrario di Trieste. C’è da meravigliarsi se Genova ha prodotto Balilla, mentre a Trieste predominano indipendentismo e cosmopolitismo?

Non c’è nemmeno da stupirsi se a Trieste prevalga l’opinione che le nuove vie della seta lanciate da Pechino non siano un pericolo, bensì un’opportunità per ritornare all’antica funzione di fulcro fra Occidente e Oriente, frustrata dall’isolamento conseguente all’annessione all’Italia avvenuta nel primo Novecento. La decadenza del porto di Trieste seguita al distacco forzoso dall’entroterra naturale e all’aggregazione al sistema politico-economico italiano, rivelatosi indifferente (quando non ostile per motivi di concorrenza), ha prodotto il tracollo dell’industria navalmeccanica e di quel tessuto industriale che di norma prospera intorno ai grandi porti. Si è assistito all’instaurazione di un’economia assistita e all’elefantiasi del pubblico impiego.

A Trieste, il pil prodotto dal settore industriale ammonta ora a circa il 9%, mentre in Friuli al 21%. La media nazionale italiana è del 18,5% e quella della stessa Roma è del 13%. Per fare un paragone, la Germania ha il 27,5% e la città Stato portuale di Singapore il 26%. La via maestra per venire fuori da questa penosa situazione è quella intrapresa dall’Autorità portuale: utilizzare il regime di porto franco, magari completato con fiscalità di vantaggio, per favorire insediamenti industriali e produttivi che mantengano sul territorio il valore aggiunto dei traffici portuali e sviluppare al massimo le connessioni internazionali. E qui il rapporto con l’Asia e la Cina diventa cruciale per la città portuale dove è stato progettato il Canale di Suez (6), che con la sua realizzazione ha regalato a Trieste una posizione centrale nei traffici tra Europa e Oriente.

Trieste, come spesso accaduto, per esempio durante la prima guerra mondiale e nella guerra fredda, si trova nuovamente al centro di tensioni geopolitiche importanti. Non più solo intraeuropee stavolta, ma principalmente tra Usa e Cina. Il porto di Trieste è ritenuto, geopoliticamente e militarmente, troppo strategico per poter diventare tout court un terminal delle nuove vie della seta a disposizione della Cina. Probabilmente il punto di equilibrio tra spinte contrapposte va ricercato nella sua particolare natura di porto franco internazionale, da mantenere a disposizione di tutti gli Stati, senza privilegi o discriminazioni. È dalla sua posizione «terza» e neutrale nei conflitti che un porto franco può trarre vantaggio, così come la franchigia doganale e daziaria lo agevola in un periodo di crescente protezionismo e guerre commerciali. E questo è anche uno dei motivi che induce a sviluppare sentimenti autonomisti in opposizione agli Stati nazionali e al loro necessario schierarsi nel contesto internazionale.

5. Il manifestarsi, con andamento carsico, di movimenti popolari e organizzazioni autonomiste/indipendentiste a Trieste, focalizzate sulla promozione del porto franco internazionale, non ha niente a che fare con chiusure identitarie localiste. È piuttosto espressione della spinta all’ internazionalizzazione e alla piena realizzazione del ruolo di nodo di traffici e connessioni internazionali. Questa è da trecento anni l’anima profonda di questa città, che non può lasciarsi ingabbiare nel nazionalismo senza deperire. Come pochi sanno, è qui che nel 1827 Josef Ressel ha inventato, collaudato e brevettato l’elica navale, dispositivo che ha rivoluzionato la navigazione, in un contesto di effervescente sviluppo economico e culturale.

In questa visione, l’autonomia e il distacco dalle pastoie burocratiche e dalle inefficienze dello Stato nazionale – vissuto come un’obsoleta struttura centralistica, con una classe politica incapace non solo di produrre visione strategica, ma semplicemente di stare al passo con gli sviluppi dei traffici internazionali – sono ritenuti passaggi necessari. Presupposti per poter sviluppare le evidenti potenzialità geoeconomiche della città portuale in questa nuova fase. La missione storica e geopolitica di Trieste, pena la perdita della sua ragion d’essere, è quella di servire, come porto franco, un’ampia area plurinazionale, quale che sia la forma politica più consona al momento storico.

Forte resta il fascino esercitato dalle città Stato portuali che si pongono sulla scena globale come nodi della rete di traffici e connessioni internazionali, gestite da amministrazioni locali snelle, efficienti e ben sintonizzate sulle necessità dell’apparato produttivo e della società civile. Innanzitutto Singapore, un mito per gran parte degli indipendentisti triestini, ma anche Brema e Amburgo, che tuttora sono Stati con istituzioni proprie federati alla Germania.

E non potrebbe essere diversamente in una città portuale sempre più integrata nella catena del valore tedesca e che risente dell’influsso delle faglie geopolitiche riattivate dal rimescolamento degli assetti europei e dalle tensioni globali. Dal Trimarium alle rivendicazioni autonomiste nel Nord-Est italiano (ma anche in Baviera); dal riemergere del concetto di Kerneuropa e di «Europa di Mezzo» (Mitteleuropa) non solo come nostalgia culturale, ma come area di integrazione economica. Per arrivare infine ai confronti su larga scala tra Usa, Cina e Russia.

L’autonomismo/indipendentismo triestino è attraversato da sentimenti ambivalenti: voglia di distacco (dall’Italia) e di integrazione (con l’Europa di Mezzo), nostalgia per i fasti passati e proiezione verso un futuro globale. Paradossalmente, a Trieste il più forte impulso politico verso un mondo interconnesso sembra essere quello che apparentemente indicherebbe la direzione contraria: il decentramento e l’autonomia da uno Stato nazionale inefficiente e attraversato da forti spinte verso chiusure nazionaliste, quelle che ora si usa denominare «sovraniste».



Note:
1. B.C. Novak, Trieste 1941-1954, Chicago 1970, University of Chicago Press (edito in Italia da Mursia, p. 441).
2. A. Luchetta, «Se Trieste rinnega l’Italia», Limesonline, 27/1/2014; «Basta dialogo, il Movimento Trieste Libera passa all’autodifesa dall’Italia», Limesonline, 4/3/2014.
3. Dati in M. Sommariva, «I porti marittimi da locale a globale», Sistemi di Logistica, autunno 2019.
4. L. Einaudi, Guerra ed economia – Prediche, Roma-Bari 1920, Laterza, p. 42.
5. La poesia recita: «Trieste è felice stasera/ Celebra con trasporto la sua futura sventura/ Perché tutte le volte che questa nostra città si è concessa con sconfinato entusiasmo all’Italia amata, ha subito imboccato la triste strada della decadenza/ Noi eravamo il gioiello dell’Impero di Maria Teresa e il porto dell’Austria/ Eravamo la rosa profumata degli Asburgo/ Con l’Italia saremo un piccolo fondaco gestito in modo sbrigativo dai burocratici e diventeremo una società strozzata e rassegnata di facili guadagni e di indomabili nostalgie/ Oggi è cominciato il nostro tramonto».
6. L. Goriup, «Se esiste il Canale di Suez il merito è di Revoltella», Il Piccolo, 5/12/2017.








3 commenti:

  1. Un articolo sicuramente interessante. Ma sarebbe anche interessante, per una volta, dire con chiarezza che Trieste non è un porto italiano. Il Portfo Franco Internazionale di Trieste esiste esclusivamente come ente del Territorio Libero di Trieste, amministrato dal governo italiano. Amministrazione non significa sovranità. Quindi il Porto Franco di Trieste potrà tornare a rivivere solamente applicando le leggi del Territorio Libero, cosa che il governo italiano non ha mai fatto, ma sarà costretto a breve a fare.

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  2. L'indipendentismo triestino è come quei cani da borsetta che ti fanno voltare per quanto forte abbaiano, ma poi quando li vedi ti accorgi quanto sono piccoli. Sia alle comunali del 2016 che a quelle del 2021 nessun indipendentista è stato eletto. Il tradizionale partito indipendentista ha preso poco più dell'1% dei voti. L'autore indipendentista di questo testo, pur candidatosi in una lista civica non indipendentista di successo che ha ottenuto oltre l'8%, non è andato oltre qualche decina di preferenze. Insomma austronostalgia e indipendentismo a Trieste sono chicche buone per riviste e convegni di nicchia, ma politicamente ed elettoralmente hanno un valore tendente allo zero.

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  3. Lei non ha capito, mu scusi se mi permetto di dirlo. Dire "indipendentista" non è corretto. Indipendentista è chi persegue l'indipendentismo. Ora, se noi ci basiamo sulle leggi internazionali e della Repubblica Italiana e se Lei è una persona a favore della legalità, allora si renderà conto che Trieste (Territorio Libero di) è indipendente dal 15 settembre 1947 e che quindi dire "indipendentista" riferendosi ai cosiddetti seguaci di partiti che si candidano alle elezioni (illegittime) del Comune di Trieste è un'assurdità, essendo Trieste, appunto già indipendente dal 1947. Lei non deve credere a me, basta che vada a vedersi il Trattato di Pace del 1947, il Memorandum di Londra del 1954 e, qualcosa di più recente, il decreto del governo italiano del 13 luglio 2017, dove il Governo Italiano stesso scrive di essere l'amministratore civile e provvisorio del Territorio Libero di Trieste. Basta andare a leggerlo. In più, visto che lo si cita spesso, vada a vedersi anche l'allegato VIII (del Trattato di Pace) che all'articolo due dice essere il Porto Franco Internazionale un Ente del Territorio Libero di Trieste. Significa appunto che l'Italia non ha un Porto Franco Internazionale, bensì che lo amministra. Amministrazione e sovranità sono due cose ben diverse. Ma io non voglio annoiarla. Lo può verificare Lei stesso, qualora ne avesse l'interesse. A Sua disposizione nel caso volesse approfondire l'argomento.

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