DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

lunedì 28 settembre 2020

STORICA CONNESSIONE TRIESTE-AMBURGO ! PORTO FRANCO: TANTO PREOCCUPAVA L’ ARRIVO DELLA CINA CHE E’ ARRIVATA LA GERMANIA - HHLA, COLOSSO LOGISTICO DI AMBURGO, ACQUISISCE IL NUOVO GRANDE TERMINAL PORTUALE E SI AFFIANCA AD ALTRI IMPORTANTI INVESTIMENTI CENTROEUROPEI.


Questa è la versione estesa dell' articolo per Limes On Line di Paolo Deganutti (clicca QUI)

E’ di portata geopolitica l’ annuncio ufficiale dell’ acquisizione da parte del colosso amburghese HHLA (Hamburger Hafen und Logistik AG) del nuovo grande terminal del porto di Trieste. La HHLA è una Compagnia tedesca di logistica e trasporto di importanza strategica che gestisce 3 terminal su 4 del porto di Amburgo che è il principale della Germania. Fondata nel 1885 è partecipata dalla città di Amburgo che gode del rango di Stato nella Repubblica Federale di Germania. 

Si tratta del più importante investimento privato mai avvenuto nel Porto Franco Internazionale di Trieste: circa un miliardo complessivamente sarà speso in alcuni anni per la Piattaforma Logistica su cui si innesterà il grande Molo 8° servito da un nuovo hub ferroviario che prenderà il posto dell’ “area a caldo”  della Ferriera (l’ “ILVA triestina”) per il quale anche le Ferrovie Austriache (ÖBB) hanno espresso il loro interesse (
come per la Piattaforma Logistica e l’ Interporto di Fernetti). 

Inoltre alcune settimane fa è stato confermato l’acquisto di una quota dell’ Interporto di Trieste, che controlla la nuova Zona Franca industriale “Freeste”, da parte di Duisport  società del Porto di Duisburg: il più importante porto interno e hub intermodale non solo della Germania ma del mondo intero, nonché terminal ferroviario europeo della “Via della Seta-BRI” terrestre.Si tratta, tra l’altro, di un partner che ha già maturato in patria un’esperienza specifica nel risanamento di aree industriali dismesse ed inquinate e nella loro trasformazione in hub logisitci.

Nei mesi scorsi è stato anche siglato un contratto di compravendita tra il governo ungherese e i due soggetti privati Teseco e Seastock, primo passo per la realizzazione di un terminal  multipurpose, proprio in un’altra area dismessa e da bonificare. 
Obiettivo dell’Ungheria è disporre di una piattaforma per l’ import-export capace di 
garantire l’uscita marittima entro 24 ore. Il tutto rivalorizzando l’ex sede dell’impianto petrolifero dell’Aquila con un investimento iniziale di 100 milioni €.

La HHLA acquisirà la maggioranza della società che ha la concessione – restando ovviamente pubblica la proprietà – del futuro più grande terminal del Porto Franco Internazionale di Trieste dotato di fondali naturali di 18 metri, in regime di Porto Franco, collegato efficientemente alla rete ferroviaria e stradale europea. Gli investimenti per la costruzione del Molo 8°, già approvato dal Piano Regolatore del Porto, saranno principalmente a carico del colosso amburghese della logistica.

Con l’ arrivo delle società dei porti di Amburgo e di Duisburg che si aggiungono all’ oleodotto transalpino TAL con il terminal petrolifero SIOT- che forniscono il 100% del fabbisogno petrolifero della  Baviera e del Baden-Württemberg, il 90% dell’Austria e oltre il 30% della Repubblica Ceca - si ricostruisce l’ antico legame di Trieste con l’ entroterra mitteleuropeo.
Un  legame che si era rivitalizzato dopo la caduta del Muro di Berlino e che si era molto sviluppato negli ultimi anni soprattutto grazie alle ferrovie per il trasporto merci, vecchia eccellenza dell’ Impero Asburgico.

L’ interesse del più grande porto tedesco per Trieste ha anche delle motivazioni pratiche: Amburgo è un porto sul fiume Elba a 100 km dalla costa con problemi di fondali che le nuove gigantesche portacontainer richiedono sempre più profondi mentre le ricorrenti siccità dovute ai cambiamenti climatici aumentano le criticità delle vie d’ acqua fluviali. Si creano dunque problemi sia di accessibilità nautica dei porti che di navigabilità delle rete di canali interni, vera linfa dei porti del nord Europa. 
Anche le linee ferroviarie intorno ai porti del Nord, prima della crisi pandemica del 2020, davano segnali di saturazione mentre, stante il progetto germanico di  taglio delle emissioni di CO2 del 55% rispetto al 1990, è difficile pensare ad uno sviluppo del sistema autostradale federale.

Appare quindi logico da parte del porto tedesco investire nel porto di Trieste che invece gode di fondali marini naturali profondi 18 metri, di un’estesa rete ferroviaria con margini di sviluppo senza enormi investimenti,  rotte marittime più brevi per l’ Oriente attraverso il raddoppiato Canale di Suez, coniugati al regime di Porto Franco che rende conveniente non solo la manipolazione e lo stoccaggio delle merci ma anche la loro trasformazione industriale allo stato estero.

La trasformazione industriale in regime di Porto Franco è il tema cruciale per l’ economia triestina, essendo necessaria per creare valore aggiunto sul territorio, cosa che il mero transito di container non può fare anche per la sempre maggior automazione del lavoro dei terminal.
I vantaggi delle zone franche portuali sono particolarmente attraenti sia per l’ insediamento di nuove industrie e servizi sia per il “reshoring” cioè il rientro di imprese precedentemente delocalizzate: processo accelerato dalla crisi del Covid-19.

Il 24 luglio scorso il Consiglio Regionale ha convocato per un’ audizione sul tema del Porto Franco il presidente dell'Autorità di sistema portuale del mare Adriatico orientale, Zeno D'Agostino e Stefano Visintin, presidente della CONFETRA FVG , che si è conclusa con una mozione di richiesta a Roma di piena attuazione del regime di  Porto Franco appoggiata da tutte le forze politiche.
D’ Agostino, che era stato reinsediato da un mese con una massiccia mobilitazione dei lavoratori portuali e della città dopo un maldestro tentativo di destituzione, ha fatto delle dichiarazioni molto nette:
mentre noi siamo qui a perdere opportunità preziose e legittime, l'ufficio legislativo del ministero per l'Economia e le Finanze (Mef) non riconosce l'extraterritorialità doganale di Trieste, perché non riesce a interpretare il fatto che un trattato internazionale deve essere rispettato" .
"Il Porto franco - ha proseguito D'Agostino - potrebbe essere il luogo dove le imprese tornano a fare attività e a essere aggressive. Basta leggere i venti articoli dell'allegato ottavo del Trattato di pace di Parigi del 1947 e le poche righe nel Memorandum di Londra del 1954 per apprendere che il porto di Trieste gode di determinati benefici e che qui devono essere applicati addirittura quelli migliori tra tutte le zone franche del mondo".

"Lo Stato italiano, nell'ambito della sua comunicazione a Bruxelles relativa ai territori extra doganali, si è dimenticato di dire che esiste il porto franco di Trieste. E anche di aggiungere che ha tutti i requisiti in regola per essere presente nella lista.”

"l'Europa verificherà se ci sono le basi giuridiche. L'ostacolo più insidioso non è tuttavia Bruxelles ma Roma”.  (clicca QUI 

Stefano Visintin è stato altrettanto chiaro:

vi è certezza che la trasformazione industriale delle merci nel porto franco di Trieste è fattibile, nonché prevista anche da un decreto del 1959. Perché farlo? Intanto, smentisco la possibilità di pagare di meno i lavoratori, perché vengono applicati i contratti di lavoro nazionali con forti controlli da parte dell'Autorità di sistema. Inoltre, la Dogana rende impossibili falsificazioni o contrabbando, proprio perché il porto franco è soggetto a maggiori controlli ai varchi. I vantaggi della lavorazione di merci allo stato estero derivano dalla possibilità di acquisire l’origine europea anche se nessuna materia prima è stata mai introdotta in Unione Europea: ciò deriva dal fatto che il porto franco di Trieste è territorio politico dell’Unione Europea, ma non fa parte del suo territorio doganale.

L'utilità è dunque legata al fatto che le merci rimangano allo stato estero e chi le detiene non deve anticipare dazi e IVA prima che vengano immesse in lavorazione e ai differenziali dei dazi applicati sul prodotto finito e sulle materie prime nei Paesi di destinazione”.
Concetti senz’altro complessi, molto più sofisticati della mera riduzione delle imposte, che all’interno dell’Unione Europea può essere consentita solo per un periodo limitato ed in aree particolarmente depresse. L’extradoganalità del punto franco triestino rappresenta un unicum in territorio italiano ed europeo ma i numerosi governi italiani “non hanno mai comunicato correttamente all’Unione Europea il suo status”, escludendo de facto la possibilità di uno sviluppo industriale del porto franco triestino.

 Con la svolta rappresentata dall’ arrivo degli amburghesi di HHLA c’è da domandarsi se la pluridecennale resistenza romana alla piena applicazione del regime di Porto Franco continuerà a fronte di prevedibili richieste tedesche e centroeuropee di applicazione dei trattati internazionali a favore delle loro imprese insediate nel porto triestino.

Già in passato vi era stata la richiesta dei Governi di Austria e Germania di rispettare il Trattato di pace di Parigi che confermava il Porto Franco di Trieste con annesso divieto di tassazione eccedente il corrispettivo dei servizi resi,  in opposizione ad un aumento del 150% delle tasse e dei diritti marittimi nei porti italiani previsto dalla legge 255 del 1991. Di conseguenza il Consiglio di Stato, con parere del 21 marzo 1996, si era espresso a favore di un regolamento ministeriale che consentisse l'inapplicabilità della normativa generale nello scalo giuliano.

E’ paradossale, ma non inaspettato, che i sostenitori del Porto Franco di Trieste risiedano a Berlino, Vienna e Budapest ma non a Roma impegnata a gestire campanilistiche rivalità fra porti: particolarmente assurde in questo caso visto che il porto giuliano lavora per il 90% con l’ estero mentre tutti i porti italiani si rivolgono solo al mercato interno.

Si aggiunga che, finito il lock-down, Trenitalia e Alitalia hanno soppresso numerosi servizi passeggeri con la Penisola rendendo ancora più precari e complicati i collegamenti soprattutto con Roma al punto da provocare proteste ufficiali delle Autorità locali. 

Si è dunque accentuata la

perifericità di Trieste dall’ Italia nel mentre si è accresciuta la sua centralità rispetto all’ Europa o meglio Kerneuropa e la sua integrazione nella rete logistica e “supply chain” tedesca.

 

Nel mondo uscito dalla pandemia, le “supply chains” sono destinate ad essere più corte di prima e, contemporaneamente, alcune produzioni strategiche devono essere riportate in Europa, non solo per creare occupazione e valore, ma anche per permettere la disponibilità immediata dei prodotti considerati fondamentali, dopo che è emersa in tutta la sua drammaticità la indisponibilità di prodotti salvavita, a causa del trasferimento totale della loro produzione in paesi extraeuropei.

 Se Trieste possa diventare o meno uno dei centri produttivi e distributivi delle catene di valore europee dipende fondamentalmente dal governo italiano dove il ministro del MISE Patuanelli si è impegnato per il riconoscimento della piena extradoganalità dello scalo trovando però resistenze: certamente la strategia tedesca nel porto giuliano ci fa comprendere che non ci sono nemici o oppositori al di là delle Alpi.

Non solo il Porto è inserito nella “catena di valore” tedesca: si pensi anche al settore assicurativo con le triestine RAS, Lloyd Adriatico e SASA (assicurazioni navali) acquisite dalla bavarese Allianz - prima Compagnia al mondo nel settore delle assicurazioni - che a Trieste mantiene i centri elaborazione dati e molti uffici.

E’ un processo di reintegrazione di fatto di Trieste nella Mitteleuropa che si sviluppa contestualmente all’ attivazione della faglia geopolitica che da sempre passa per Trieste e che la pone al centro di tensioni internazionali sin dal secolo scorso (si pensi alla “Cortina di Ferro da Stettino a Trieste” del famoso discorso di Churcill nel 1946), come era parso evidente anche dalle pesanti reazioni, in particola USA, alle notizie su possibili investimenti cinesi nel porto.

Illustri e disinformati personaggi politici e giornalisti si erano sbilanciati nel dare per già venduto, anzi “svenduto”, ai cinesi il Porto di Trieste, analogamente a quanto avvenuto con il Pireo.
Come si vede le cose non stavano così: sia perché nulla poteva essere venduto trattandosi  di concessioni su proprietà pubbliche subordinate al controllo dell’ Autorità Portuale, sia perché a sbarcare in forze è stata la Germania (di cui tuttavia la Cina è il primo partner commerciale).

Trieste è un buon sismografo della situazione internazionale
 ed ha già registrato le turbolenze del confronto USA-Cina nei mari asiatici.

Il 26 agosto scorso il Segretario di Stato degli Stati Uniti 

Mike Pompeo ha emesso un durissimo comunicato con cui, in conseguenza delle tensioni con la Cina nel Mar Cinese Meridionale,  ha annunciato l’ inserimento nella “black list” della China Communications Constructions Company (CCCC) la gigantesca compagnia con cui nel marzo 2019 l’ Autorità Portuale di Trieste aveva firmato il memorandum d’ intesa riguardante una parte dello sviluppo ferroviario dello scalo, la partecipazione triestina nell’ importante interporto slovacco di Kosice e il progetto di export del vino italiano in Cina tramite  apposite  Zone Economiche Speciali in loco, in un quadro di evidente reciprocità.

Ma la CCCC tramite il suo ramo China Shipbuilding Group aveva siglato nel 2018 anche un accordo di cooperazione con la Fincantieri, cha ha sede a Trieste, e con l’ americana Carnival per la costruzione di navi da crociera destinate al mercato asiatico e la gestione dei terminal.
Tra i rami della CCCC c’è anche la ZPMC che è il più grande produttore mondiale di gru da terminal container  che serve, tra gli altri, una buona metà dei porti americani.

E’ evidente che una messa al bando della CCCC, già fortemente radicata in occidente, avrebbe conseguenze di difficile gestione perfino negli USA.
Tuttavia l’ AD di Fincantieri Giuseppe Bono è ottimista perché l’ accordo siglato non prevede il trasferimento di know how mentre il Presidente dell’ Autorità Portuale rileva che “spetta a Roma indicarci con quali soggetti possiamo trattare e noi prenderemo le precauzioni del caso” facendo trasparire un maggior pessimismo sulla realizzazione di quanto previsto dal memorandum soprattutto come conseguenza dei rallentamenti dovuti al Covid. (Il Piccolo 16/9/20 pag. 18).

Stiamo dunque assistendo alla connessione  strutturale tra due città portuali europee finora operanti su rotte antagoniste e tale da dare impulso a tutto il Nord Adriatico:  Amburgo che si fregia del titolo di  “Freie und Hansestadt”-“Città Libera e Anseatica” essendo  tuttora una città-stato federata alla Repubblica Federale tedesca e Trieste che fino al 1918 aveva il titolo di “Reichsunmittelbare Stadt Triest und ihr Gebiet”-“Città Imperiale di Trieste e dintorni”,  Land autonomo nell’ Impero con una propria Dieta (parlamento).
La Storia ha tuttora un suo peso soprattutto in queste terre che hanno vissuto sulla propria pelle il tormentato ‘900. 

E' il primo, e finora unico, intervento di rilievo di un grande porto del Nord Europa in un porto europeo sul Mediterraneo.
HHLA recentemente è intervenuta anche nei porti di Tallin sul Mar Baltico e di Odessa sul Mar Nero ma la sua presenza a Trieste si annuncia decisamente come la più strategica.

Paolo Deganutti


lunedì 14 settembre 2020

COMMEMORARE DIMENTICANDO. TRIESTE E VENEZIA GIULIA COME MITTELEUROPA NEOASBURGICA - Dal nuovo numero di Limes un articolo di Matteo Giurco in anteprima per i nostri lettori.


 Dispute memoriali e cambiamento del senso comune storico sul confine orientale. Dalla vittoria nella Grande guerra alla celebrazione del virtuoso passato imperiale, chiave del futuro. Gorizia ‘Nizza austriaca’. L’Unione Europea virata in progetto neoimperiale.

di Matteo Giurco

Pubblicato in: È LA STORIA, BELLEZZA! -Limes  n°8 - 2020

1. Quell’appendice di terra italiana che dalla sponda sinistra del fiume Isonzo volge a oriente, fino a includere l’attuale provincia di Trieste, rappresenta un prezioso osservatorio per analizzare tanto la memoria della Grande guerra, quanto le dinamiche della «guerra della memoria». A differenza del Friuli, cui pure è legato da vincoli amministrativi, il confine orientale presenta infatti la quintessenza degli snodi problematici del Novecento: conflitti etno-nazionali e tensioni sociali, scontro tra totalitarismi e persecuzione razziale, esodo di popolazioni e stravolgimenti demografici, confronto tra potenze nel mondo bipolare (la celebre «cortina di ferro» scesa da Stettino a Trieste) e tentativi di ricomposizione sull’asse Est-Ovest.


D’altronde, quella che agli occhi italiani è la Venezia Giulia, in origine comprendente anche la penisola istriana, altro non è che il vecchio Österreichisches Küstenland (Litorale austriaco) per Vienna, e lo Slovensko Primorje (Litorale sloveno) per Lubiana: tre differenti appellativi riguardanti il medesimo territorio riflettono in maniera plastica l’esistenza di una regione multietnica e plurilinguistica di confine, punto di congiunzione tra le civiltà italiana, (jugo)slava e (austro)tedesca.


Vale dunque la pena soffermarsi sulle mutevoli sorti della memoria pubblica giuliana e sul ribaltamento del paradigma nazionale, assumendo come termine di paragone il ricordo della Grande guerra e fissando come termine periodizzante il trattato di pace di Parigi (1947), che assegnò all’Italia una Venezia Giulia ormai mutila e recisa dal proprio retroterra.


2. Malgrado l’ubicazione eccentrica rispetto a Roma, fino alla sua riunione con l’Italia nel 1954 la sorte di Trieste, contesa dagli jugoslavi, suscitò la viva attenzione di decisori politici e opinione pubblica, costituendo il maggiore banco di prova della politica estera della giovane repubblica e l’ultima grande epifania del culto della nazione. Nella vicenda non rientravano soltanto le ragioni strategiche dell’ordine atlantico, cui l’Italia aveva aderito: possente fattore identitario, l’evocazione della città natale di Guglielmo Oberdan richiamava la quintessenza del mito nazionale, così come era venuto stratificandosi dai tempi della Grande guerra, quando la tessitura della propaganda era imperniata sull’immaginario asse fra Trento e il capoluogo giuliano. A testimoniare la sua vitalità, anche negli anni Cinquanta la mitopoiesi veniva continuamente alimentata mediante successi musicali (si pensi a Vola colomba di Nilla Pizzi, vincitrice del Festival di Sanremo nel 1952) e inchieste giornalistiche 1, al punto da sfociare in topoi letterari («le ragazze di Trieste», «Trieste cara al cuore», «la città italianissima») che al di là di una certa coloritura enfatica descrivevano una realtà presente e viva 2.


Sotto la fiamma dell’apoteosi nazionale, che tendeva a polarizzare l’attenzione su Trieste, a scapito dell’Istria, covavano nel porto adriatico le braci di un’inquietudine centrifuga, che trovava nell’ipotesi indipendentista il proprio sbocco elettorale e nel mito della città emporio la propria intima ragion d’essere. Ma l’egemonia politica e culturale del fronte filoitaliano era indiscutibile, anche in ragione del riorientamento in senso anti-jugoslavo del Partito comunista del Tlt (dal 1957 Federazione Autonoma Triestina del Pci), avvenuto in seguito all’espulsione della Jugoslavia dal Cominform (1948). In uno scenario così conflittuale, in cui la stessa appartenenza statuale era ancora gravata dall’ipoteca di eventuali sovvertimenti, il ricordo del passato asburgico e dell’annesso tentativo di annichilimento dell’italianità locale condotto dall’imperatore Francesco Giuseppe non godeva certo di riconoscimento pubblico: a fronte dell’esaltazione della memoria dei volontari irredenti (una minoranza di sudditi dell’impero arruolatisi nelle file del Regio Esercito italiano), i locali caduti in divisa imperial-regia, assai più numerosi, non venivano ricordati da alcun monumento, mentre la toponomastica rivelava altrettanto zelo selettivo.


La passione patriottica della Venezia Giulia coincideva con l’orizzonte di senso promosso dalle istituzioni centrali dello Stato italiano. Nonostante la coltre di silenzio calata anche in sede storiografica sul trattato di pace 3, erano le stesse esigenze imposte dalla guerra fredda a favorire la residuale persistenza del processo di nazionalizzazione delle masse: migliaia di giovani confluivano ogni anno nella regione per espletare il servizio di leva obbligatoria, vigilando sulla fatidica «soglia di Gorizia». Poco distante dalla città isontina, un luogo della memoria era visitato da fiumane provenienti da ogni angolo della penisola: il Sacrario di Redipuglia, il maggiore cimitero militare italiano, baluardo simbolico e materiale della presenza italiana nella zona. Visibile da diversi chilometri di lontananza, la sua imponente, bianca scalea ricordava agli italiani il senso della vittoria nel primo conflitto mondiale, e come tale veniva omaggiata.


Il 24 maggio 1965, a cinquant’anni di distanza dall’entrata in guerra del Regno, era proprio l’area monumentale a ospitare l’esecuzione in diretta Rai della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, evento conclusivo del ricco programma di celebrazioni imbastito tra Gorizia e Trieste, comprensivo di marcia degli alpini e carosello dei carabinieri 4. Vittima di un rogo doloso attizzato dalla turba austriacante proprio cinquant’anni prima, il principale periodico locale, Il Piccolo, dedicava all’anniversario grande risalto di cronaca e commenti, esaltando una «storica continuità d’eroismo che si riassume[va] nel nome sacro della Patria» 5. Il direttore del quotidiano, Chino Alessi, ricordava invece il debito di riconoscenza maturato dall’Italia nei confronti della Venezia Giulia, che aveva sofferto le conseguenze della sconfitta militare in misura maggiore rispetto al resto del paese 6.


3. Il richiamo alle benemerenze giuliane faceva trasparire un latente sentimento d’insoddisfazione nei confronti della Repubblica, che a Trieste sarebbe emerso in tutta la sua virulenza (anche fisica) un anno più tardi, quando Roma dispose la chiusura del cantiere navale San Marco 7. Nonostante i copiosi stanziamenti statali assicurati dal Fondo Trieste e dal Fondo Gorizia, agli occhi di molti giuliani il presente appariva latore di un bilancio piuttosto magro, specie se messo a paragone con un tempo antico idealizzato quale fonte di prosperità economica e progresso civile. Fu in tale contesto che a Gorizia alcuni intellettuali saggiarono nuove vie di sviluppo, fondando l’Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei (1966). Tramite l’organizzazione di iniziative culturali, il sodalizio si proponeva la riscoperta di una trama di relazioni, valori, tradizioni che avevano accomunato le terre di confine nell’epoca precedente alle due guerre mondiali, al fine di ricostruire tra i popoli centro-europei «il senso di appartenenza a un comune destino» 8.

L’idea di Mitteleuropa, di cui il progetto era evidentemente tributario, affondava le proprie radici nell’Ottocento, ma la sua flessibilità semantica era tale da assumere diverse declinazioni. Se la Mitteleuropa teorizzata da Friedrich Naumann era stata contrassegnata da una chiara impronta pangermanista, quella evocata in area danubiana ne aveva enfatizzato invece la vocazione universalistica – e il ruolo che in essa rivestiva la dinastia asburgica – con l’obiettivo di superare la sfida posta dalla diffusione del principio di nazionalità. Come avrebbe segnalato Arduino Agnelli, tre elementi concorrevano a plasmare il patrimonio comune sotteso a quest’ultima concezione: «La tradizione imperiale, il grande territorio economico e la convivenza delle nazioni in essa disseminate» 9.


Nella Venezia Giulia il mito mitteleuropeo, circonfuso da un’aura di pace, sicurezza e armonia, iniziò a radicarsi attraverso la dimensione letteraria, cui si ispirarono autori e generi di matrice diversa, tanto colta 10 quanto popolaresca 11. Fu soltanto nel 1974 che, favorita da tale brodo di cultura, nacque a Cervignano del Friuli, già modesto centro del Friuli austriaco, un progetto caratterizzato da ambizioni più concrete: si trattava di Civiltà mitteleuropea, movimento i cui obiettivi statutari volgevano non solo alla valorizzazione del passato austroungarico ma anche alla fattiva operosità nel presente – l’esaltazione della spinta autonomista e il ristabilimento dei vincoli tra territorio locale e retroterra danubiano essendone i cardini fondamentali. Tra le iniziative promosse dall’associazione spiccava la Festa del genetliaco di Francesco Giuseppe, che a cadenza annuale iniziò a radunare migliaia di persone nel piccolo borgo di Giassico, non distante da Gorizia.


Soprattutto a Trieste, anche in virtù dell’afflusso di numerosi esuli istriani nell’immediato dopoguerra, l’immaginario patriottico continuava comunque a godere di un saldo radicamento, corroboratosi ulteriormente come effetto insperato del processo di normalizzazione adriatica, che aveva conosciuto nella firma degli accordi italo-jugoslavi di Osimo (novembre 1975) il proprio momento di svolta. Dinnanzi alla rinuncia definitiva alla Zona B del fantasmagorico Territorio Libero di Trieste, ormai riconosciuta alla Jugoslavia, e all’ipotesi della creazione compensativa di una Zona franca industriale sull’altipiano carsico (Zfic), con relativo afflusso di manodopera a basso costo dall’Est Europa, la protesta giuliana si levò veemente. Trieste invocava al contempo tutela e autonomia, rinnovando l’epopea della propria passione nazionale, questa volta in netta antitesi alla generale indifferenza dell’Italia, divenuta nel sentire comune «matrigna», come dimostrava l’atteggiamento di olimpico distacco con cui il parlamento (eccetto il Msi) aveva ratificato il trattato italo-jugoslavo.


La dissimmetria percettiva tra centro e periferia portò alla singolare esperienza della lista Per Trieste, prima lista civica premiata da successo elettorale: nella sua stagione più matura il movimento, che sarebbe se non altro riuscito a scongiurare la realizzazione della Zfic, si richiamò alla tradizione del municipalismo conservatore giuliano, di matrice liberalnazionale. Contrariamente a tale anomalia, il gruppo dirigente moroteo della Dc di Trieste riassumeva nel motto «Trieste non è un’isola!» la volontà di superare le fratture novecentesche in nome della sicurezza e della priorità del dato economico, che avevano già reso il confine orientale una frontiera aperta a fitti scambi commerciali.


Nella medesima direzione si muoveva il governo centrale, sotto l’impulso del quale venne istituita nel 1978 la Comunità di lavoro delle regioni delle Alpi orientali Alpe Adria, che associava in una volontà cooperativa tre Länder austriaci (Stiria, Carinzia e Austria Superiore), due regioni italiane (Veneto e Friuli-Venezia Giulia) e le due repubbliche socialiste jugoslave di Slovenia e Croazia. Ma l’epoca del trionfo europeista era ancora di là da venire, specie a Trieste, dove nel 1981 la proposta di apporre su pubblica via una targa plurilingue dedicata a Maria Teresa d’Austria suscitò all’interno del Consiglio comunale un rifiuto bipartisan, oltre che l’accusa di apologia di terrorismo per il suo patrocinatore.


4. Tramontata l’effimera stagione del «socialismo tricolore» 12, che aveva visto nel trentesimoanniversario del ritorno di Trieste all’Italia una delle sue manifestazioni più significative, il riassetto degli equilibri regionali si manifestò in forma compiuta all’indomani del 1989. La vittoria occidentale nella guerra fredda assumeva un valore periodizzante anche sul confine orientale: senza più soglie da difendere e confini da presidiare, agli occhi della classe dirigente del Friuli e della Venezia Giulia si aprivano sterminate prospettive di commerci, scambi culturali, affari. I contatti avviati in passato rivelarono il proprio potenziale al momento del processo di indipendenza di Slovenia e Croazia, che trovarono nei vertici della classe politica regionale (su tutti il democristiano presidente del Friuli-Venezia Giulia Adriano Biasutti) interlocutori attenti e ben disposti, al punto da favorire le istanze secessioniste con una vivace azione di pressione nei confronti del governo italiano, incline a sostenere la soluzione confederale alla crisi balcanica 13.


Tale pianificazione, alla quale non era estraneo l’interesse dell’industria friulana votata all’esportazione, ebbe delle significative ricadute nel campo delle politiche culturali: la stampa locale, di proprietà dell’industriale Carlo Emanuele Melzi Segre, cantava le lodi dell’avvenire senza confini; a Cividale del Friuli nasceva Mittelfest, il «primo Festival di teatro, musica, balletto e marionette della Mitteleuropa» (luglio 1991); nel capoluogo regionale aveva luogo lo spettacolo televisivo Gli specchi di Trieste, che si concludeva in Piazza Unità d’Italia sulle note della Radetzky-Marsch (ottobre 1991).


I memi disseminati in quel periodo sopravvissero all’eclisse dei loro divulgatori, su cui a partire dal 1992 si abbatterono i risvolti locali dell’Operazione Mani Pulite 14. Così, se a Gorizia godeva ormai di ampia diffusione il mito della «Nizza austriaca», a Trieste si apriva una nuova stagione con l’elezione a primo cittadino di Riccardo Illy, che alla guida di un’inedita coalizione Dc-Pds riuscì ad avere la meglio sul fronte conservatore. Discendente dell’omonima azienda specializzata nella produzione del caffè, il nuovo sindaco invitava la città a uscire dai suoi margini geografici, culturali e sociali, proiettandosi «verso un entroterra più ampio del suo hinterland immediato», poiché «un’unica conclusione [era] possibile: Trieste è naturalmente organica all’Europa, ancor meglio se unita all’area della Mitteleuropa in particolare» 15.


Nonostante la concorrenzialità di Fiume e soprattutto di Capodistria, unico sbocco sul mare della Slovenia, la «naturale» funzione baricentrica di Trieste e del suo porto veniva costantemente reiterata dal mondo della politica e dai mezzi di comunicazione, con esplicito riferimento al passato imperiale: in tale contesto maturarono la ricollocazione della statua di Sissi (rimossa nel 1921) e l’apposizione della prima targa dedicata ai caduti imperialregi. Al di là delle velleità secessioniste della Lega Nord, che nella Venezia Giulia traevano impulso dalla nostalgia filoasburgica, forze ben più autorevoli furono coinvolte per suggellare il mutamento dell’egemonia culturale in quella regione: orchestrato nell’autunno del 1995 dall’Associazione culturale Mitteleuropa (nata per gemmazione dal movimento Civiltà mitteleuropea) 16, l’incontro tra Oscar Luigi Scalfaro e il suo omologo austriaco Thomas Klestil mirò a fissare i termini di una nuova memoria condivisa della prima guerra mondiale. Nell’occasione, il capo dello Stato italiano spendeva parole di umana compassione verso «i soldatini (…) innocenti, (…) mandati a combattere per decisione dei capi» 17, poi concedeva la grazia a un gruppo di dinamitardi altoatesini.


Nel corso degli anni Duemila, l’allargamento dell’Unione Europea alla Slovenia (2004) e alla Croazia (2013) determinò importanti conseguenze sul futuro retorico e pratico del mito del «mondo di ieri». Sebbene di origine e consistenza diversa, i due piani argomentativi (comunitario e mitteleuropeo) iniziarono a fondersi e a confondersi, come avrebbero chiaramente dimostrato le commemorazioni del centesimo anniversario della Grande guerra.


5. Nel gennaio del 2014 Carlo d’Asburgo-Lorena ebbe modo di chiarire a una platea di giornalisti europei la sua personale interpretazione della Grande guerra e della sua eredità storico-morale. Il nipote dell’ultimo imperatore d’Austria-Ungheria descrisse così l’Unione Europea: «È la continuazione con altri mezzi della vecchia idea di un impero sovrannazionale. Questo è quanto Otto von Habsburg (suo padre, n.d.a.) vedeva nell’Europa e quello che voleva. Le circostanze sono cambiate, certo, ma noi stiamo lavorando all’idea di una struttura legale sovrannazionale e a un principio di sussidiarietà. L’idea dello Stato nazionale appartiene al secolo passato» 18.


A prima vista, il vasto programma tracciato dal capo di casa Asburgo cozzava con le agende culturali dei paesi comunitari, nelle cui politiche della memoria relative al centenario della Grande guerra non si tardò a ravvisare gli stilemi dell’antico nazionalismo 19. Ma l’Italia fece eccezione: fin dalla scelta di avviare il programma commemorativo nel 2014, e non nel 2015 (come sarebbe stato logico), Roma preferì al ricordo della vittoria il tentativo di «suscitare una memoria collettiva europea», come chiarì Giorgio Napolitano 20. In effetti, il presidente della Repubblica era da tempo impegnato a consolidare «un clima di collaborazione operosa» nella regione 21, retrovia naturale dello storico Intermarium antirusso. Per raggiungere questo obiettivo geopolitico nell’estate del 2010 era stato promosso anche un grande atto di risignificazione della memoria storica: un concerto di musica classica tenuto in Piazza Unità d’Italia, a Trieste, al cospetto dei capi di Stato italiano, sloveno e croato, con l’intenzione di stendere un simbolico velo sul passato «poco gentile» dei contrasti etno-nazionali 22.


In perfetta continuità con tale spirito, Napolitano inaugurò le commemorazioni italiane della Grande guerra proprio in compagnia dei presidenti di Slovenia e Croazia, oltre che del presidente del Consiglio federale austriaco. L’iniziativa si inseriva nell’ambito dell’esecuzione della Messa da Requiem verdiana presso il Sacrario di Redipuglia: se palcoscenico e spartito erano gli stessi del concerto tenuto nel 1965, nel luglio 2014 a variare erano attori, comparse e atmosfera complessiva, esemplificata dalle dichiarazioni di alcuni protagonisti. Claudio Magris introduceva l’evento richiamando le nozioni di «inutile strage» e di «suicidio dell’Europa»; Debora Serracchiani, presidente della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, si rallegrava per «una storia finalmente condivisa e completamente europea» 23; Franco Marini, presidente del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale, preferiva citare le parole di François Mitterrand, riconoscendo nella guerra «l’unica alternativa all’Europa unita» 24.


Al di là dei grandi eventi, cui si sarebbe aggiunto il pellegrinaggio di papa Francesco, l’intero territorio regionale iniziò a essere solcato da un frenetico slancio commemorativo. Qualcuno, come Filiberto Zovico, direttore della Borsa europea del turismo della Grande guerra, intravedeva nell’occasione la possibilità di sviluppare «un business evoluto», accalappiando «un turismo colto» più spendereccio di quello balneare 25. I più sentimentali, come il giornalista triestino Paolo Rumiz, si cullavano invece nella nostalgia del tempo andato, ricordando che l’impero asburgico «e il suo ordine plurale erano qualcosa di molto simile a ciò che oggi l’Europa Unita non riesce a essere» 26.


Quella di Rumiz non era una voce isolata, al punto che la valorizzazione del passato austroungarico si manifestò anche attraverso atti istituzionali: a Ronchi dei Legionari (Gorizia) si intitolò una piazza a Francesco Giuseppe (era la prima nell’intera regione) 27, mentre a Fogliano Redipuglia (Gorizia), presente l’arciduca Markus, venne inaugurato un cippo dedicato a Carlo I d’Austria 28. Anche il Quirinale si adoperò al fine di onorare chi aveva combattuto contro l’italianità adriatica: assente per la celebrazione del centesimo anniversario della redenzione di Gorizia (ma «la liberazione definitiva per Gorizia [era] stata la nuova Europa, quella unita e dei popoli affratellati» ricordava Serracchiani) 29, qualche mese più tardi il presidente Sergio Mattarella si recò a Doberdò del Lago (Gorizia) per inaugurare la prima stele dedicata ai caduti sloveni dell’impero, assieme al presidente sloveno Borut Pahor.


Il ricordo della Grande guerra in chiave nazionale era ormai sbiadito persino a Trieste, percorsa da una fitta serie di iniziative mitteleuropee. Nel maggio del 2016 aveva luogo una partecipata messa in suffragio di Maria Ludovica Beatrice d’Austria 30; qualche mese più tardi, il Comune (maggioranza di centro-destra) coorganizzava la prima edizione di Kaiserfest, gastronomia e convivialità cent’anni dopo la morte dello «Eterno imperatore» 31; una petizione sottoscritta da ventitré associazioni lanciava poi il trecentesimo genetliaco di Maria Teresa d’Austria, per la quale si allestivano una statua e dodici pacchetti turistici con itinerari ad hoc, in vista dell’auspicato decollo del turismo culturale austriaco 32.


Nel settembre del 2018, il 27° Incontro italo-austriaco della pace permetteva di connettere gli usi pubblici della storia al nuovo corso della politica italiana. Il programma comprendeva la deposizione di corone al monumento ai caduti italiani e a quello dei caduti triestini in divisa imperial-regia, un concerto della Banda imperiale di Vienna e una sfilata in costume storico 33. Per l’Austria era presente il ministro della Difesa Mario Kunasek (in quota FPÖ) 34, accompagnato dal nostro ministro per la Famiglia e le disabilità Lorenzo Fontana, in ossequio all’affinità ideologica 35. Nella circostanza, l’assessore regionale alle Politiche comunitarie Pierpaolo Roberti (Lega) ricordava i «caduti che erano fratelli, anche se con divise diverse», rivendicando l’importanza addirittura «enorme» della manifestazione 36; più compassato, Carlo d’Asburgo-Lorena magnificava lo spirito mitteleuropeo della città giuliana 37.


Nel 2018 il Sacrario di Redipuglia risultava in gran parte inagibile a causa della mancata conclusione dei lavori di restauro (in precedenza prevista per la fine del 2017). La commemorazione ufficiale del 4 novembre si teneva quindi a Trieste: oltre alle consuete dichiarazioni europeiste dei parlamentari regionali del Pd e al dimesso atteggiamento del presidente leghista Fedriga, le cronache registravano l’intervento del sindaco di Gorizia, Rodolfo Ziberna (Forza Italia), che rifiutava di celebrare «il centenario della Vittoria, perché non si può festeggiare la morte. Gorizia invece festeggia, con commosso ricordo, il centenario della fine di una tragedia» 38. A seguito di un rituale omaggio alla retorica antica (la città «cara a tutta Italia», la vittoria che segnava l’esito del moto risorgimentale), il discorso del capo dello Stato si appuntava sui valori della pace e sugli errori del passato, con lo sguardo fisso alla «storica scelta di condividere il futuro nell’Unione Europea»39. E con questo, lo spettacolo era giunto alla fine.


6. L’invadenza dell’escatologia laicista era caratteristica peculiare dell’Occidente postmoderno, e come tale coinvolgeva anche le memorie di altri luoghi, altri paesi, altri conflitti. Analizzando gli usi pubblici del centesimo anniversario della guerra ispano-statunitense, James D. Fernández ne rilevò una caratteristica costante: la capacità di conmemorar olvidando40. L’ossimoro, spiegava il filologo statunitense, era il portato finale di una precisa disposizione emotiva, tesa a considerare il presente «como una llegada, como un momento de plenitud – la cumbre de toda buena fortuna, OTAN (Nato, n.d.a.), Maastricht, el fin de la ideología. Nos gusta mirar el pasado como el vivero del jardín de flores de nuestro hoy, como la promesa de la plenitud. Bajo esta mirada, los problemas de hoy – y los de ayer – no son productos de la historia, sino accidentes, fechorías llevadas a cabo por individuos aberrantes – fundamentalistas, fanáticos, intransigentes» 41.



Tale descrizione sembra assumere valore ermeneutico anche nel caso della memoria della Grande guerra nella Venezia Giulia, dove le rappresentazioni teleologiche tanta parte hanno avuto nel rimodellare il senso della storia di ieri, malgrado gli ammonimenti di Mario Isnenghi42. Fosse mito salvifico43 o mero salvacondotto retorico, la sovrapposizione tra Unione Europea e virtù mitteleuropee si ergeva a minimo comune denominatore adatto a ogni sensibilità, alla luce del quale rileggere passato e presente della regione. Sulla terra di confine baluginavano all’orizzonte le luci del «nuovo Adriatico euro-atlantico»44, cullate dall’eco del Litorale austriaco, mentre si squadernava l’obsolescenza del canone patriottico italiano.


Note:

1. Su tutte, l’eccezionale valore propagandistico dei prodotti audiovisivi di La Settimana Incom.

2. Lo attestano, fra l’altro, i numerosi telegrammi giunti alla presidenza del Consiglio dei ministri in occasione del ritorno della città all’Italia. Si veda M. Baioni, «Trieste 1954. Echi italiani della “seconda redenzione”», Memoria e Ricerca, n. 50/2015.

3. M. Ballarin, Il Trattato di pace del 10 febbraio 1947 nei programmi e nei testi scolastici di storia, con prefazione di G. Parlato, Milano 2014, Leone.

4. «Trieste fedele a se stessa e alla Patria celebra oggi il Cinquantenario dell’intervento», Il Piccolo, 24/5/1965.

5. Il Piccolo, 24/5/1965.

6. C. Alessi, «Un passato da ricordare», Il Piccolo, 23/5/1965.

7. P. Fragiacomo, Italia matrigna. Trieste di fronte alla chiusura del cantiere navale San Marco (1965-1975), Milano 2019, Franco Angeli.

8. www.icmgorizia.it/site/index.php?area=2&subarea=1.

9. A. Agnelli, La genesi dell’idea di Mitteleuropa, Trieste 2005, MGS Press, p. 22.

10. C. Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino 1963, Einaudi. Seguito dal celeberrimo Danubio, Milano 1986, Garzanti. Un ampio successo di pubblico arrise anche al romanzo di C. Cergoly, Il complesso dell’imperatore. Collages di fantasie e memorie di un mitteleuropeo, Milano 1979, Mondadori.

11. Spiccava in questo senso il ciclo delle Maldobrìe, racconti comici frutto del genio narrativo di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna. Tra i volumi più celebri della serie, ambientata nell’Adriatico orientale, a cavaliere tra fine Ottocento e primi del Novecento: L’Austria era un paese ordinato (1969), Noi delle Vecchie Province (1971), Povero Nostro Franz (1976).

12. G. Accame, Socialismo tricolore, Roma 1983, Editoriale nuova.

13. A. Sema, «Estate 1991: gli amici italiani di Lubiana», Limes, «La Russia e noi», n. 1/1994, pp. 215-228.

14. M. Tosoni, Tangentopoli nell’isola felice. Mani Pulite nel Friuli-Venezia Giulia, Udine 1993, Kappa Vu.

15. R. Illy, «Trieste e la Mitteleuropa», Nord Est. Rivista trimestrale a cura del Centro Studi Nord Est, n. 1/1994, pp. 58-62.

16. R. Strassoldo, Euroregioni, Alpe Adria, Mitteleuropa. Prospettive dal Friuli, Udine 2005, Forum.

17. L. Turel, «Scalfaro e Klestil oltre l’odio», Il Piccolo, 5/10/1995.

18. C. Kahlweit, P. Oltermann, «Archduke Franz Ferdinand descendant: don’t blame us for first world war», The Guardian, 15/1/2014; cfr. anche l’intervista rilasciata a G. Fumagalli, E. Parisi, «Italiani, avete fatto una guerra inutile», Oggi, 27/5/2015, pp. 54-60.

19. P. Lemaitre, «Grande guerre: une mémoire fragmentée», Le Monde, 8/7/2014.

20. G. Napolitano, «Lettera di Napolitano: “Europa più unita, così il ricordo della Prima Guerra rafforzerà la pace”», la Repubblica, 5/7/2014.

21. G. Napolitano, «Intervento all’inaugurazione della nuova sede della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa)», Trieste, 13/7/2010.

22. Traggo il garbato eufemismo da un’intervista rilasciata da Milan Kučan, primo capo di Stato della Slovenia indipendente, per cui si veda «Roma-Lubiana, l’accordo è possibile», Limes, n. 4/1995, p. 292. Per una cronaca del Concerto dei tre presidenti, come venne definito l’evento, si veda ad esempio M. Breda, «Italia, Slovenia, Croazia: storico vertice a tre», Corriere della Sera, 14/7/2010.

23. A.L., «Serracchiani: “tre generazioni con gli stessi valori per l’Europa”», Il Gazzettino, 8/7/2014.

24. F. Marini, «Nella casa della memoria di Redipuglia», Il Piccolo, 4/7/2014.

25. Si veda «La fabbrica della memoria», il Friuli Business, gennaio 2014, p. 22.

26. P. Rumiz, «Trincee di sangue sui lunghi pendii tra il Carso e l’Isonzo», supplemento a Il Piccolo, 28/6/2014.

27. L. Perrino, «Francesco Giuseppe conquista una piazza ma Ronchi si spacca», Il Piccolo, 13/3/2015.

28. L. Perrino, «Scoperto il cippo dedicato a Carlo I d’Austria», Il Piccolo, 17/3/2015.

29. E. Mogorovich, «Storia e memoria. I cent’anni della Redenzione», Messaggero Veneto, 9/8/2016.

30. F. Baldassi, «L’omaggio all’Imperatrice dell’Austria felix», Il Piccolo, 1/5/2016.

31. «Nove giorni di Kaiserfest a un secolo dalla morte di Francesco Giuseppe», Il Piccolo, 5/11/2016.

32. F. Dorigo, «Il Canale di Ponterosso dedicato a Maria Teresa», Il Piccoloivi; cfr. anche, dello stesso autore, «Eventi e star per celebrare i 300 anni di Maria Teresa», Il Piccolo, 1/3/2017.

33. L. Goriup, «Vestiti lunghi in stile Sissi e ufficiali in alta uniforme con baffi arricciati all’insù. La storia sfila a Trieste», Il Piccolo, 10/9/2018.

34. Sugli storici legami tra il partito che fu di Jörg Haider e il mondo politico locale cfr. A. Sema, «Il caro Jörg e i piccoli uomini della “Piccola Patria”», Limes, n. 3/2000, pp. 211-223.

35. F. Dorigo, «L’incontro italo-austriaco con “ministri” a sorpresa», Il Piccolo, 3/9/2018.

36. Grande Guerra: Roberti, incontro Pace a Ts ha significato enorme, comunicato stampa della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, 9/9/2018.

37. www.youtube.com/watch?v=Z04Bq7sz54I

38. L. Goriup, «Il grazie alle forze armate in ricordo delle vittime», Il Piccolo, 5/11/2018.

39. www.quirinale.it/elementi/18659.

40. J. D. Fernández, «Conmemoraciones para el olvido: España, 1898-1998», Quimera, XX, 2000, p. 61.

41. Ibidem.

42. S. Fiori, «Raccontare la Grande guerra, Isnenghi: “Non dobbiamo vergognarci di aver vinto”», la Repubblica, 10/3/2014.

43. V. Castronovo, L’avventura dell’unità europea. Una sfida con la storia e il futuro, Torino 2004, Einaudi, p. 150.

44. G. Napolitano, «Intervento del Presidente Napolitano dinanzi al Parlamento della Repubblica di Croazia», Zagabria, 14/7/2011.