DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

martedì 31 ottobre 2017

CATALOGNA, SECONDA FASE: INDIPENDENTISTI E UNIONISTI GUARDANO AL VOTO DEL 21 DICEMBRE - PUIGDEMONT RESTA A BRUXELLES - Un articolo di Affari Internazionali


Articolo di Andrea Carteny per Affari Internazionali

Venerdì 27 ottobre può ben dirsi il giorno in cui si è chiusa una fase della questione catalana: il Parlamento di Barcellona ha votato l’indipendenza e proclamato la repubblica. Contestualmente, il governo spagnolo ha posto in essere – dopo il voto favorevole del Senato – il controllo diretto sulla Comunità autonoma previsto dall’articolo 155 della Costituzione, sospendendone le prerogative di autogoverno. La protagonista della repressione da parte delle forze di polizia spagnole nel giorno del referendum, la vicepremier Soraya Saenz de Santamaría, è stata incaricata di svolgere le funzioni del deposto presidente della Generalitat Carles Puigdemont e di normalizzare la situazione per arrivare a nuove elezioni nella Comunità, il 21 dicembre prossimo. Ma ora, mentre gli unionisti catalani scendono in piazza (“Essere catalani è un orgoglio, essere spagnoli un onore” e gli indipendentisti proclamano la via nonviolenta all’autonomia, il confronto si sposta nella società, nella vita di tutti i giorni: chi vincerà?
Per 90 minuti, intanto, la sfida si è spostata su un campo di calcio, dove la squadra catalana del Girona – di cui è tifoso Puigdemont – ha battuto il blasonato Real Madrid che porta le effigie della Corona di Spagna: “Un esempio, un riferimento per molte situazioni”, ha twittato il leader indipendentista.
La sfida della mobilitazione
È chiaro che l’appello dei principali leader indipendentisti (politico-istituzionali, come Puigdemont e il suo vice Oriol Junqueras, e della società civile, come i ‘due Jordi’, Cuixart e Sánchez, alla guida delle due più importanti realtà indipendentiste della società civile catalana, Omnium Cultural e Assemblea Nacional Catalana) a reagire pacificamente, con atteggiamenti di resistenza passiva, intende raccogliere la solidarietà dei tanti che, pur non essendo favorevoli alla secessione, non tollerano l’uso della polizia e dell’esercito da parte di Madrid.
D’altro lato, c’è una parte importante della società spagnola – e un pezzo non indifferente della società catalana, che si riferisce in generale agli ambienti popolari e di Ciutadans, l’equivalente catalano dei liberaldemocratici di Ciudadanos – che invoca l’intervento anche della forza per ristabilire l’ordine. Queste due opposte fazioni, da qui al 21 dicembre, tenteranno di mobilitare le proprie forze e coinvolgere il più possibile quella zona mediana, centrale del panorama sociale e culturale catalano, che è rimasta nel mezzo, schiacciata dalle ali estreme.
Tuttavia, mentre da Madrid garantiscono che Puigdemont potrà partecipare alle consultazioni (se non sarà in carcere) e da Barcellona che occorre “andare avanti, senza mai rinunciare al voto”, un dato sembra certo: sarà difficile tornare allo status quo, dopo una mobilitazione indipendentista di questo genere. Un ritorno alla normalità non potrà prescindere da una trattativa sullo stato delle autonomie in Spagna, sempre in bilico tra Spagna centralista e Spagna “plurale”.
Alle origini della desconneccio’
Nel 1978, la Spagna post-franchista si diede un assetto di avanzato regionalismo, con riconoscimento delle nazionalità locali e statuti di autonomia negoziati ognuno bilateralmente col governo centrale. È la transizione pattata, che permise alla Spagna di uscire dalla dittatura senza conflitti civili, ma lasciando una porzione importante di memoria non condivisa soprattutto in regioni come la Catalogna, decisamente represse durante il franchismo.
Ha origine in questo passaggio, sebbene rimasto sotto traccia per molti anni, la mobilitazione repubblicana riesplosa in questo periodo in Catalogna. Un leader, Jordi Pujol, e una formazione, la coalizione Convergència i Unio’, per un quarto di secolo sono stati in grado di proporre la Catalogna come il migliore esempio dell’autonomia in Spagna: orgogliosi autonomisti, ma dentro il sistema, capaci di confermarsi la regione più ricca del Paese e tra le più sviluppate d’Europa. Poi si è tornati a parlare di riforma degli statuti regionali, con l’inedito compromesso tra il blocco moderato catalano (guidato da Artur Mas, successore di Pujol) e il governo socialista guidato da José Luis Rodrigues Zapatero che spianò la strada per il riconoscimento di una serie di tradizionali elementi di rivendicazione autonomistica. Fra questi, il riconoscimento che la Catalogna è una “nazione” (nel rispetto di un sentimento diffuso, riferimento inserito nel preambolo del nuovo statuto) e di “diritti storici” della Catalogna (fino a quel momento riconosciuti implicitamente solo alle regioni di tradizione foralista, la Navarra e i Paesi baschi), ancor maggiore autonomia di gestione finanziaria, fiscale e tributaria.
Il piano del nuovo Estatut fu approvato dal Parlament della Catalogna nel settembre 2005, emendato e ratificato dall’assemblea di Madrid nel maggio 2006 e posto al voto per referendum regionale il mese successivo, quando i 2/3 dei votanti (presenti alle urne solo con un avente diritto su due) votarono sì al nuovo testo. L’opposizione dichiarata a questo impianto da parte degli ambienti più legati all’idea di una Spagna centralista (in particolare del Partito popolare, che raccolse milioni di firme contro il nuovo statuto) lasciò sul tavolo la questione politica, mentre con la crisi del debito pubblico e il cambio al governo si riaprì la partita anche e soprattutto a livello di Tribunale costituzionale.
Qui, la decisione di incostituzionalità pronunciata nel 2010 sugli articoli più importanti – dal punto di vista simbolico e amministrativo – fu il punto di svolta: in un contesto di crescente difficoltà e crisi, sia economica che politica (per l’esplodere di scandali di corruzione anche in Catalogna), cominciarono in quell’anno le manifestazioni di massa catalane per il “diritto a decidere”, che si ripetono periodicamente, in particolare nel giorno della Diada, l’11 settembre (che nel martirologo nazionale ricordo la caduta di Barcellona nel 1714 sotto l’attacco delle truppe borboniche, e la perdita dell’autonomia catalana).
Sostanziale parità in vista delle elezioni
Iniziò così la mobilitazione delle organizzazioni della società civile catalana, mentre la formazione politica Convergència di Mas assumeva posizioni di crescente indipendentismo, avvicinandosi alla formazione da sempre repubblicana e indipendentista Erc (Esquerra Repubblicana de Catalunya), e di fronte al diniego del governo di Madrid di una maggiore autonomia finanziaria sul modello basco. Fu così convocato un primo referendum regionale per trasformare la Catalogna in Stato indipendente, il 9 novembre 2014, bloccato ufficialmente dal Tribunale costituzionale per iniziativa del governo, ma trasformato dalla Generalitat in una consultazione “partecipativa”. Oltre due milioni di votanti – su un totale di circa quattro milioni e mezzo di aventi diritto – parteciparono al voto, e di questi l’80% votò sì.
Ecco, dunque, le premesse dell’ultima fase: le successive elezioni, nel 2015, videro cambiare radicalmente il panorama politico, trainato dalla mobilitazione delle organizzazioni civiche indipendentiste. La formazione Junts pel Sì, che raccoglie gli ex Convergència, Erc e personalità del mondo dello sport e della cultura, ricevette circa il 48% dei consensi e, con l’appoggio della formazione di estrema sinistra Cup, si propose come maggioranza per portare il Paese al referendum sull’indipendenza.
Oggi, secondo i sondaggi, quella percentuale potrebbe calare del 5%, facendo perdere agli autonomisti la maggioranza nel Parlement, in sostanziale parità con i partiti unionisti.
Il resto è storia di questi giorni, ma sarà una storia ancora lunga.

domenica 29 ottobre 2017

ELEZIONI O RESISTENZA: IL DELICATO CALCOLO DEI SEPARATISTI DI CATALOGNA - 700 SINDACI SU 948 SI SCHIERANO APERTAMENTE PER LA NEONATA REPUBBLICA - Un articolo di Limes on-line

I 700 SINDACI CHE, CON IL BASTONE SIMBOLO DEL POTERE MUNICIPALE, SI SONO SCHIERATI PER L' INDIPENDENZA: COSTITUISCONO L' AUTENTICA OSSATURA DELLA REPUBBLICA INDIPENDENTE DI CATALOGNA.
Ultima ora: domenica 29, 300.000 unionisti - stima della polizia- hanno manifestato a Barcellona contro la proclamazione della Repubblica indipendente (clicca QUI).


Elezioni o resistenza: il delicato calcolo dei separatisti di Catalogna
Dichiarata l’indipendenza subito prima di essere estromesse da Madrid, i rivoluzionari devono decidere se stare al gioco dello Stato centrale o rifiutarne l’autorità. E non è scontato che al voto del 21 dicembre ottengano la maggioranza.
di 
Il Parlament di Barcellona ha approvato (70 a favore, 10 contro, 2 astenuti) la mozione per conferire al governo di Carles Puigdemont il mandato di costituire una Repubblica di Catalogna indipendente. Subito dopo, il primo ministro della Spagna Mariano Rajoy ha destituito Puigdemont e i membri del suo esecutivo, convocando le elezioni regionali per il 21 dicembre.


La settimana ha fatto naufragare ogni spiraglio per le trattative con il governo centrale. Giovedì Puigdemont si è rifiutato di indire nuove elezioni in Catalogna – che il Psoe giudicava sufficienti a evitare il commissariamento della comunità autonoma. Così, venerdì, dopo una seduta di sei ore, il Senato ha autorizzato le misure pensate dall’esecutivo madrileno per applicare l’art. 155 della Costituzione e reprimere le autorità rivoluzionarie catalane, che hanno “disconosciuto e ignorato le leggi senza alcuna legittimità per farlo”.

La proclamazione dell’indipendenza è certo un gesto simbolico, ma le autorità ora decadute devono decidere come giocare le proprie carte ed eventualmente resistere – in modo pacifico, dicono – alle ingerenze dello Stato centrale.

Non è scontato che alle elezioni del 21 dicembre i separatisti ricevano la maggioranza dei voti dei catalani. Al voto regionale del 2015, la coalizione Junts pel Sì ottenne infatti il 47% circa dei suffragi. E al contestato referendum del 1° ottobre ha partecipato solo il 42% degli aventi diritto.

La violenta reazione di Madrid – culmine di un decennio di netto rifiuto ad ascoltare le istanze autonomiste – ha sicuramente contribuito a indurire le percezioni di molti abitanti della comunità autonoma, facendoli propendere per l’indipendenza come unica alternativa.

Tuttavia, la popolazione non catalana è piuttosto corposa nella regione e ha fatto sentire la propria voce. Inoltre, l’alta borghesia catalana non è affatto compatta dietro gli indipendentisti e, anzi, sta operando una discreta pressione con il trasferimento della sede di oltre un migliaio di aziende in altre località di Spagna.

Incerta anche la posizione dei numerosi elettori delle branche locali di Podemos, che controllano il comune di Barcellona. La formazione guidata da Pablo Iglesias aveva mantenuto un’ambigua posizione contraria alla secessione ma favorevole al “diritto di decidere” del popolo catalano. Alle elezioni del 21 dicembre potrebbe decidere di sostenere la coalizione che si schiera per un secondo – stavolta legale – referendum oppure considerare il voto come una consultazione di fatto per l’indipendenza, togliendo così suffragi ai separatisti.

In ogni caso, tale incertezza sposta i riflettori sulle forze che potrebbero aiutare i rivoluzionari a deviare il corso degli eventi, per il momento incanalato nella direzione ambita da Madrid. Prima fra tutte la polizia catalana, i Mossos d’Esquadra, teoricamente alle dipendenze della Generalitat appena dichiaratasi indipendente. Gli almeno 14 mila poliziotti si sono schierati il 1° ottobre dalla parte delle autorità di Barcellona. Ora la loro fedeltà potrebbe essere l’ago della bilancia. Non è un caso che Rajoy abbia subito decretato la rimozione del capo della polizia Josep Lluís Trapero, già in stato d’accusa per sedizione, oltre all’allontanamento del segretario generale dell’Interno catalano César Puig e del direttore generale dei Mossos Pere Soler.

Saranno decisive le settimane che conducono al 21 dicembre, per valutare se e come Rajoy e il suo governo riusciranno a esercitare in Catalogna l’autorità che si sono arrogati assumendosi le funzioni dei vertici della Generalitat.

I separatisti – o alcuni di loro, vista l’eterogeneità della coalizione – potrebbero essere tentati di resistere e radicalizzare lo scontro con Madrid per provocarne una reazione sproporzionata che ne intacchi la superiorità e la costringa a sedersi a un tavolo negoziale. Magari promosso dall’Ue (o da uno Stato membro), la quale tuttavia continua a fare orecchie da mercante.

Lo scenario basco è dietro l’angolo. A meno che Puigdemont e soci non s’affidino al testa o croce elettorale. Un salto nel buio, ma almeno non nel buio pesto.



venerdì 27 ottobre 2017

PROCLAMATA LA REPUBBLICA CATALANA INDIPENDENTE - Articolo di LimesOnLine



IL CROCEVIA DELLA CATALOGNA
a cura di 
Il Parlament di Barcellona ha approvato (70 a favore, 10 contro, 2 astenuti) la mozione per conferire al governo di Puigdemont il mandato di costituire una Repubblica di Catalogna indipendente. I separatisti hanno così scelto di radicalizzare ulteriormente lo scontro con Madrid, percependosi alle ultime ore prima che lo Stato centrale ne attivasse la rimozione forzosa dalle istituzioni della comunità autonoma.
In settimana Barcellona aveva reso noto di essere pronta ad adire il Tribunale costituzionale in seguito al futuro commissariamento. Le voci di una possibile riduzione dei toni, con l’indizione di nuove elezioni a dicembre e il ritiro della dichiarazione d’indipendenza, sospesa immediatamente dalla Generalitat per mantenere aperto uno spiraglio per le trattative con il governo centrale, sono naufragate, travolte dal corso degli eventi.
Giovedì il presidente della Generalitat Puigdemont si è rifiutato di indire nuove elezioni in Catalogna – che il Psoe giudicava sufficienti a evitare il commissariamento della comunità autonoma. Venerdì mattina, il presidente del governo spagnolo Mariano Rajoy ha sostenuto davanti al Senato – organo che deve esprimersi sull’imposizione delle misure eccezionali previste dall’art. 155 della Costituzione – che tale via è l’unica soluzione alla deriva intrapresa dalle autorità catalane, che hanno “disconosciuto e ignorato le leggi senza alcuna legittimità per farlo”.
Da Madrid, la procura generale potrebbe rispondere con l’imputazione del presidente della Generalitat e dei suoi per reati di ribellione o quantomeno sedizione. E, arrivato il via libera del Senato all’applicazione dell’art.155, ora il consiglio dei Ministri potrebbe sancire in via definitiva la rimozione della leadership rivoluzionaria, la nomina di un inviato governativo e di una commissione che gestisca la comunità autonoma (le cui prerogative resterebbero comunque in vigore) e l’indizione di nuove elezioni.
Ora, tuttavia, gli attori che controllano le istituzioni di Barcellona si percepiscono conferiti di potere costituente e pertanto legittimati a resistere alle ingerenze dello Stato centrale in modo pacifico – per il momento, perché occorre valutare come si schiereranno i Mossos d’Esquadra, forti di almeno 14 mila unità.
I separatisti hanno scientemente radicalizzato lo scontro con Madrid per provocarne una reazione sproporzionata che ne intacchi la superiorità e la costringa a sedersi a un tavolo negoziale. Magari promosso dall’Ue (o da uno Stato membro), la quale tuttavia continua a fare orecchie da mercante.

martedì 24 ottobre 2017

CUORE E PERIFERIA VENETI: L' EPICENTRO DA CUI PARTE L' ONDATA AUTONOMISTA - Un articolo di LimesOnLine nazionale


Storia, lingua e nucleo geografico del senso di alterità del Veneto nell’inedito a colori della settimana.
La carta inedita della settimana è sul Veneto che, come la Lombardia, è chiamato alle urne per un referendum consultivo sull’autonomia.
Più che nella regione di Milano, è nel Nord-Est che si annida un profondo senso di alterità rispetto al resto del paese, di cui ha scritto su Limes Giovanni Collot:

“Il Veneto non si sente Italia. Fatto che esplode con regolarità in eventi spesso derubricati a folkloristiche manifestazioni di rivolta verso lo Stato centrale. Dalla mitologia del tanko portato dai Serenissimi alla conquista di Piazza San Marco, alla rivolta dei forconi del 2013, fino al referendum via Internet per l’indipendenza del 2014, questi eventi di cronaca testimoniano l’emersione carsica del subconscio del Nord-Est.

Questo sentimento di alterità soffre di uno strabismo evidente. Tanto manifesto a chiunque abbia vissuto o trascorso lunghi periodi in Veneto, quanto sostanzialmente non capito o sottovalutato nella sua portata a livello nazionale. Assimilandolo e riducendolo a mera protesta fiscale, si rischia di perdere di vista il contenuto profondo, ancestrale e pienamente eversivo della questione veneta.

Un’incomprensione favorita da un errore di fondo, spinto da tanta propaganda anche locale: le radici dell’indipendentismo non vanno cercate a Venezia. Per capire fino in fondo gli spettri che si agitano a nord-est bisogna fare come Parise: voltare le spalle alla Serenissima e al suo insieme di miti, e risalire la terraferma.

È in quel paesaggio senza centro e senza periferia, attraversato da fiumi, in cui si susseguono capannoni, villette, campagne, centri commerciali e rotonde senza soluzione di continuità; in quella terra racchiusa tra Padova, Vicenza, Mestre, Bassano e Treviso, dove trionfa la trinità «schei, territorio e famiglia», che bisogna cercare il vero cuore del Veneto. […]

Il dialetto veneto, o meglio, la łéngua vèneta, gioca un ruolo centrale in questo sviluppo dell’identità. Vera e propria lingua franca, nonostante le sue infinite varianti locali, anche diversissime, si presta a simbolo di unità popolare. Che trascende anche i confini della regione stessa, estendendosi a una koiné transfrontaliera. […]

Nella dialettica autonomistica, il Veneto e la łéngua vèneta sono legati da una connessione mentale e mistica. Un legame che, paradossalmente, si fa sempre più forte man mano che il veneto viene sempre meno praticato come prima lingua all’interno delle famiglie: libero dall’uso quotidiano e impoverito nelle sue varietà locali, il Veneto può finalmente diventare bandiera comune. Un’aura linguistica, non solo una lingua, che raccoglie in sé una comunità sfilacciata…”

Carta di Laura Canali inedita a colori per Limesonline.

giovedì 19 ottobre 2017

COSA SI GIOCANO VENETO E ITALIA CON IL REFERENDUM DEL 22 OTTOBRE - Un articolo di LimesOnLine nazionale in esclusiva per i nostri lettori

Riproduciamo per i nostri lettori non anciora abbonati a Limes l' articolo appena uscito su LimesOnLine (clicca QUI).

Gli effetti della consultazione sull’autonomia, al pari di quella gemella in Lombardia, assai difficilmente resteranno nei confini delle due regioni del Nord. Dall’esito delle urne e dell’affluenza potrebbe innescarsi una reazione a catena che rimette in discussione l’assetto istituzionale del paese.
di Giovanni Collot


Domenica 22 ottobre gli elettori del Veneto, insieme a quelli della vicina Lombardia, saranno chiamati alle urne per pronunciarsi su una maggiore autonomia per la propria regione.

La consultazione, derubricata fin dall’inizio come ennesima boutade secessionistadi un territorio non nuovo a certi balzi in avanti poco ortodossi, ha assunto una nuova più preoccupante sfumatura dopo gli eventi controversi del referendum in Catalogna, lo scorso 1° ottobre. E che ha fatto paventare a molti un rischio di effetto domino.

In realtà, ben poco accomuna il Veneto (e pure la Lombardia) alla Catalogna. Soprattutto dal punto di vista formale. Lungi dall’essere un viatico per una restaurazione della Repubblica Serenissima o una secessione della Lombardia, i due referendum sono consultivi, non vincolanti e più circoscritti. Richiedono una maggiore decentralizzazione di competenze dallo Stato verso Venezia e Milano.

Il quesito sui cui dovranno pronunciarsi gli elettori veneti è piuttosto generico: “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”.

Così posta, la questione lascia indubbiamente adito ad ambiguità: cosa vuole vuole ottenere, in pratica, il Veneto? In altre parole, quali sono queste “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?“. Per capirlo, bisogna allargare lo sguardo e guardare in un luogo inaspettato, visto il tema del contendere: la Costituzione italiana. In particolare, gli articoli 116 e 117, riformati insieme al resto del titolo V nel 2001, prevedono la possibilità di cedere alle regioni che ne facciano richiesta, con legge dello Stato, una lista di materie di legislazione concorrente, ovvero normalmente gestite insieme dai due livelli territoriali e persino alcune di appannaggio esclusivo dello Stato. Tra di esse, l’istruzione, la tutela della ricerca, la valorizzazione dei beni culturali o il commercio con l’estero, secondo il principio del “regionalismo differenziato”.

Nella norma, una regione potrebbe fare richiesta di maggiori competenze direttamente a Roma, senza passare per una consultazione popolare – è quanto sta facendo l’Emilia-Romagna. Invece, nelle intenzioni di Luca Zaia, il governatore leghista del Veneto nonché principale promotore del referendum, il voto dovrebbe servire a dare un mandato popolare alla regione per negoziare con lo Stato la cessione di ulteriori competenze.

Se la mossa di Venezia ha senza dubbio una certa valenza politica – tanto che i detrattori chiamano la consultazione “il referendum di Zaia” – essa almeno in parte si appoggia a una questione istituzionale di un certo peso: di fatto, gli articoli succitati non hanno visto attuazione pratica fino a oggi. La procedura per l’autonomia differenziata fu già chiesta una prima volta dalla Lombardia nel 2007 e dal Veneto nel 2008, senza però che fosse mai portata a termine – ora è il turno, come accennato, dell’Emilia-Romagna, che ha avviato il processo a fine settembre. A ostacolare il conferimento dell’autonomia differenziata è anche la complessità del negoziato, che prevede l’approvazione tramite un voto del parlamento a maggioranza assoluta.

La speranza di Zaia è di far saltare il tavolo, rafforzando la propria richiesta di autonomia con un forte sostegno popolare. «È evidente che il potere contrattuale della Regione del Veneto si rafforzerà se il referendum farà registrare una fortissima partecipazione e una altrettanto robusta affermazione del “Sì”», spiega il libelloAutonomia: le 100 domande dei veneti a Luca Zaia, distribuito dalla presidenza della regione. «Se il governo dovesse limitare le richieste del Veneto o dovesse rifiutarsi di garantire risorse adeguate al loro finanziamento, farebbe un “autogol” politico».

Lo stesso percorso di avvicinamento al referendum è stato molto accidentato. La forma attuale è il risultato di una lunga triangolazione tra la regione Veneto, lo Stato e la Corte costituzionale. Nel giugno 2014, Venezia aveva presentato, con la legge regionale 15/2014, la proposta di una consultazione con cinque quesiti approfonditi, che andavano dal mantenimento del gettito fiscale sul territorio regionale all’acquisizione di un’autonomia pari a quella di una regione a statuto speciale. La legge, impugnata dal governo, venne limitata e riveduta dalla Corte costituzionale, che nel 2015 riconobbe come legittimo solo il primo dei cinque quesiti, stralciando gli altri come incostituzionali. Dopo una serie di ulteriori negoziati tentati dalla regione, il 24 aprile il Consiglio regionale del Veneto ha annunciato la convocazione del referendum con il quesito attuale, quello legittimato dalla Consulta, per la data del 22 ottobre. Una data simbolica, in quanto 151° anniversario dei plebisciti che nel 1866 sancirono l’unione del Veneto al Regno d’Italia.


È proprio questa scelta simbolica che apre a un discorso più complesso sul referendum veneto: per quanto l’argomento su cui si basa – la redistribuzione di competenze da centro a periferia – sia piuttosto prosaico, esso si inserisce in un sostrato culturale rilevante. Il richiamo all’autonomia fa riferimento a un sentimento di alterità e a un desiderio di autogoverno caratteristici del Veneto profondo. Un riflesso inconscio che porta a galla varie sfumature dello stesso sentimento. Lo testimoniano punte più radicali e quasi situazioniste.

Come quando, sempre nel 2014, mentre nelle sale istituzionali si chiedeva l’autonomia, in rete si teneva un tanto discusso, quanto illegittimo e ben presto sbugiardato, referendum per l’indipendenza del Veneto, su una piattaforma dall’evocativo nome di plebiscito.eu. Oppure come i confini fra le piattaforme politiche nazionali, che si scolorano nell’acqua dei canali: basti pensare agli esponenti del Movimento 5 Stelle a sostenere il referendum insieme alla maggioranza di centrodestra e alle molte voci all’interno del Partito democratico e della sinistra a pronunciarsi in favore dell’autonomia, per non lasciare l’iniziativa sull’autogoverno alla Lega di Zaia.

Questo brodo di coltura permette di inserire in un contesto più ampio il tema dell’effetto del referendum. Anche in caso di vittoria del “Sì”, la procedura per l’autonomia potrebbe non essere diretta. L’ambiguità del quesito non aiuta a definire i confini all’interno dei quali si muoverà l’azione della regione. Lo stesso Zaia ha ripetuto più volte che l’obiettivo del negoziato sarà «ottenere tutto quello che possiamo avere», puntando al maggior numero di competenze possibile. Con una particolare attenzione per i feticci degli autonomisti: l’istruzione, la sanità e l’erogazione dei fondi alle imprese, all’interno del mantra battente del “tenere più schei a casa nostra”. Le questioni specifiche sono lasciate a discussioni successive al voto, in sedi istituzionali. È questa mancanza di dettagli, tra le altre cose, che ha sollevato numerose critiche all’iniziativa, vista come velleitaria e inutile. In particolare per il costo previsto di 14 milioni, totalmente a carico delle finanze regionali.

Anche la narrazione del maggior gettito fiscale mantenuto sul territorio deve passare alla prova dei fatti. La richiesta di maggiori competenze, secondo i proponenti, dovrebbe portare a un utilizzo più virtuoso del cospicuo residuo fiscale annuale registrato da Venezia, che la vede al terzo posto nazionale, dopo Lombardia ed Emilia-Romagna, nella classifica del bilancio dare-avere delle regioni. Tuttavia, le istituzioni venete non sono state ancora in grado di mostrare chiaramente se e quanto la maggiore autonomia porterà a risparmiare o anche solo a ridurre gli sprechi.


Carta di Laura Canali – 2015

Al netto dell’incertezza sui risultati pratici, il referendum veneto rischia comunque di innescare effetti indiretti, ma non per questo meno tettonici. Su tre livelli.

Il primo è quello interno al Veneto, in quanto una vittoria decisa rafforzerebbe ancora di più Zaia in regione, permettendogli di intestarsi il successivo negoziato con il governo.

Il secondo è interno alla Lega, che rivedrebbe il tema autonomista riemergere con prepotenza, e in modo istituzionale, nonostante la mutazione genetica nazionalista imposta dal segretario Matteo Salvini.

Il terzo e più interessante è quello nazionale.
Una eventuale vittoria roboante in due delle regioni del Nord più attive economicamente in questo momento storico riporterebbe con insistenza la questione federalista in cima all’agenda politica. Un capovolgimento di fronte rispetto all’altro referendum, quello costituzionale (fallito) del 4 dicembre 2016, che invece puntava a un maggiore centralismo.

Eppure, dopo un lungo periodo di incubazione, i tempi potrebbero essere maturi per rimettere in discussione dei rapporti centro-periferia.
Nell’attuale situazione di incertezza politica interna, nulla esclude che anche l’Italia possa essere immune alle sirene che provengono da altri paesi d’Europa che affrontano dispute locali, come appunto la Spagna o il Regno Unito.
In questo senso, l’effetto del referendum veneto potrebbe andare oltre le intenzioni dei promotori: innestandosi nell’attuale periodo storico, potrebbe dare la stura a una nuova discussione sul futuro assetto istituzionale del paese.

Che un tale effetto “moltiplicatore” sia possibile, si vede anche analizzando le forze sprigionate sul terreno. I lunghi mesi di avvicinamento al referendum, innestatisi sul milieu culturale discusso poco sopra, hanno visto la rinascita di uno spazio politico identitario, che era rimasto per un certo periodo nascosto sotto la cenere. Lo testimoniano nuove pagine Facebook o movimenti politici emersi a tutti i livelli che hanno popolarizzato il discorso attorno alla questione dell’eccezionalismo veneto.

È troppo presto per dire a cosa porterà questo percorso e in quali altre forme si manifesterà, dopo il 22 ottobre. Eppure, rimane la possibilità concreta che il referendum veneto si riveli più un punto di partenza che un punto di arrivo per una ridiscussione profonda degli equilibri di potere italiani. Una parte consistente di tale discussione sarà basata su come il governo centrale reagirà alle nuove richieste di autonomia: se deciderà di aprire un negoziato più ampio, riconoscendone il valore politico, oppure ridurrà tutto a mere questioni di tecnicismi istituzionali.

Dal Veneto potrebbe passare il futuro d’Italia. Tutto dipenderà da come (e se) l’Italia stessa ha imparato l’esercizio di immaginare se stessa.

lunedì 16 ottobre 2017

LE ELEZIONI IN AUSTRIA: commento di Limes-OnLine


L' edizione on-line di Limes ha commentato i risultati delle elezioni austriache (clicca QUI) che probabilmente avranno ripercussioni su tutta l' area, Trieste compresa, e forse sulla gestione dei confini con l' Italia per la questione dei migranti.
Riproduciamo il commento per i nostri lettori:


Il Partito popolare austriaco è vicino a vincere le elezioni legislative con più del 31% dei voti. Al secondo posto il Partito della libertà con il 27% e al terzo i socialdemocratici con il 26%. Il leader dei conservatori e probabilissimo nuovo cancelliere Sebastian Kurz è l’ex ministro degli Esteri dell’uscente governo e ha fatto campagna su una linea piuttosto dura sull’immigrazione. I confini nord-orientali dell’Italia potrebbero essere interessati dalla coalizione che uscirà dalle consultazioni.
Commenta per Limes Paolo Quercia:
Il voto del 15 ottobre in Austria ha il pregio della chiarezza e non si presta a fraintendimenti: due partiti chiaramente vincitori, il Partito popolare della Ovp e il quello liberal-nazionale della Fpo, entrambi cresciuti del 7% circa.
Tracollo dei Verdi, che perdono quasi 600 mila voti (10%) e non riescono neanche a superare la soglia dello sbarramento del 4%. Sconfitta del partito di governo socialista (Spo), che tuttavia tiene inaspettatamente, perdendo solo 100 mila voti e conservando lo stesso numero di seggi del 2013.
Apparentemente insignificanti per gli scenari di formazione del governo gli altri due partiti riusciti a entrare in parlamento, i liberali di sinistra dei Neos e la lista dell’ex parlamentare anti-establishment dei Verdi Peter Pilz.
Scomparsa anche la destra moderata, schiacciata tra conservatori che si spingono a destra e nazionalisti che si spostano al centro.
Il semplificato quadro politico vede una gerarchia elettorale composta da popolari al primo posto, liberal-nazionali al secondo e socialisti al terzo – ma mancano ancora gli 800 mila voti per corrispondenza.
La grande coalizione tra socialisti e democristiani, che in molti danno per morta, non è affatto uno scenario improbabile. Ma questo dipende da cosa accadrà nel Partito socialista dopo il voto.
Lo scenario più verosimile è quello che vede il varo di un governo di minoranza monocolore popolare che governi con il supporto esterno socialista, ma all’occorrenza degli altri partiti, compreso l’Fpo. Sarebbe la via morbida per l’inclusione di quest’ultimo in un prossimo governo di coalizione, seguendo il metodo consociativo che già caratterizza, a livello locale, buona parte della politica austriaca.

Qualunque esecutivo nascerà a Vienna, la questione dello spostamento verso destra della politica austriaca è un dato di fatto evidente.
 Qualunque sia il governo che uscirà da queste urne, ci stiamo avvicinando a una fase in cui il potere di governo in Austria dovrà essere diviso per tre e non più per due.
Di questo anche la postura geopolitica del paese, e probabilmente della vicina Germania, finiranno per risentirne.

martedì 10 ottobre 2017

INDIPENDENZA SOSPESA IN CATALOGNA - Si rafforza l' ipotesi di una soluzione autonomista e federalista grazie a una mediazione internazionale -


Nel suo discorso delle 19 Puigdemont ha dichiarato: "Chiedo alla assemblea di votare una mozione per sospendere la Dichiarazione di indipendenza per dare tempo al dialogo”. Clicca QUI per il discorso.
Si rafforza l' ipotesi di una mediazione per una soluzione autonomista e federalista in luogo di una indipendenza unilaterale. In piazza delusione e proteste da parte di gruppi di indipendentisti radicali.

Da Limes on line:

Il presidente della Generalitat Carles Puigdemont ha dichiarato che la Catalogna ha diritto di essere una repubblica indipendente, ma ha chiesto la sospensione del processo di indipendenza. Nell’atteso discorso presso il Parlament della comunità autonoma, il leader politico non ha dichiarato unilateralmente la secessione da Madrid ma ha invocato una soluzione negoziata, possibilmente coinvolgendo l’Unione Europea.
Puigdemont ha assunto il mandato del popolo catalano – espresso nel contestato referendum del 1° ottobre in cui, a seguito degli incidenti, ha potuto votare il 42% degli aventi diritto – per invocare il diritto della comunità autonoma di diventare una repubblica indipendente.
Ma ha di fatto cercato di guadagnare tempo. In giornata si è parlato di un contatto di Barcellona con un possibile mediatore internazionale, notizia subito smentita da Madrid che continua a rifiutarsi di sedersi al tavolo con gli indipendentisti e dalla Francia di Macron, che ha nettamente rigettato di mediare la disputa.
Si conferma la difficile posizione di Puigdemont e della sua cerchia, indecisa su come trarsi d’impiccio dopo aver legato le proprie fortune (non solo politiche) a una causa, quella dell’indipendenza, che il muro di Madrid e l’opposizione europea rendono difficilmente praticabile.