DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

giovedì 31 maggio 2018

L’Italia cerca ancora posto lungo le nuove vie della seta - Il ruolo del Porto Franco di Trieste - Articolo di Giorgio Cuscito su Limes on Line


È passato un anno da quando si è svolto a Pechino il primo forum della Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta). In quell’occasione, il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni aveva ottenuto la promessa da parte del governo cinese di investimenti nei porti di Trieste e Genova.


L’Italia e le nuove vie della seta, un anno dopo
Il lavorio della diplomazia italiana è intenso e i rappresentanti dei due scali marittimi e di quello di Venezia si recano spesso nella Repubblica Popolare.
Tuttavia, Roma non ha ancora firmato con Pechino il memorandum d’intesa per sancire la sua partecipazione alla Bri.
Inoltre, nessun accordo è stato per ora ufficializzato per rendere i porti nostrani snodi concreti dell’iniziativa.
Il progetto della piattaforma offshore di Venezia è stato congelato perché non attirava l’interesse degli investitori, l’autorità portuale vuole invece ampliare il terminal container di Marghera. 
Trieste, che beneficia dello status di porto franco, potrebbe annunciare progetti di collaborazione con i cinesi entro il 2018. 
La presenza cinese negli scali italiani si limita al terminal di Vado Ligure, di cui Cosco controlla il 40%. Soprattutto, tutto tace riguardo il Mezzogiorno, i cui porti (già in passato oggetto dell’interesse cinese) non rientrano in potenziali piani di sviluppo legati alla Bri.
La rotta ferroviaria tra il polo logistico di Mortara e Chengdu è stata percorsa una sola volta, a novembre. Nessun convoglio ha fatto ritorno dalla Cina, probabilmente per problemi legati ai costi di trasporto. Conferire regolarità alla rotta potrebbe accrescere l’export italiano verso la Repubblica Popolare e valorizzare la strategica posizione di Mortara all’incrocio tra il Corridoio Mediterraneo e quello Reno-Alpi della Trans european network-transport, che dovrebbe entrare in funzione nel 2030.
Le rinnovate preoccupazioni che Roma ha manifestato insieme a Berlino e Parigi per una potenziale penetrazione cinese in Ue aggiungono confusione su quale sia la percezione italiana. Come se improvvisamente l’iniziativa possa trasformarsi da grande opportunità in potenziale rischio. Le sue conseguenze dipendono dal nostro approccio (attivo o passivo) ad essa, piuttosto che da quello della Cina.
Le iniziative individuali hanno un impatto limitato senza una strategia geopolitica complessiva che definisca chiaramente il ruolo dell’Italia lungo le nuove vie della seta. Dotarsene (dando per scontata la necessaria riscoperta dell’interesse nazionale) è condizione necessaria – ma non sufficiente – per cogliere le opportunità e prevenire gli effetti collaterali derivanti dal progetto cinese.

giovedì 17 maggio 2018

PERCHÉ LA NUOVA CRISI DELL’EURO È INEVITABILE: Draghi ha salvato il salvabile ma non basta. Fallito il ‘consenso di Berlino’, Roma farà saltare il banco? - articolo di Fabrizio Maronta sull' ultimo numero di Limes -



Questo articolo è uscito sull' ultimo numero di Limes: "Lo Stato del Mondo" (clicca QUI).

L’euro fu concepito scontandone l’insensatezza sistemica per indurne la correzione geopolitica, tramite un federalismo solidale indigeribile per Germania e nordici. Draghi ha salvato il salvabile ma non basta. Fallito il ‘consenso di Berlino’, Roma farà saltare il banco?


1. Con il senno di poi è tutto ovvio, logico, inevitabile.

Ovvio che un’Europa distrutta da due guerre mondiali in trent’anni risorgesse dalle proprie ceneri, generando quel «miracolo» economico che nel volgere di due decenni ne avrebbe fatto una delle aree più prospere del pianeta. Logico che tale poderosa marea sollevasse anche le barche più fragili, tra cui un’Italia al tempo povera, in gran parte agricola e sconfitta. Inevitabile che tale processo, benedetto dagli Stati Uniti e blindato dal confronto bipolare, coinvolgesse una Germania prostrata e divisa ma pur sempre temuta, che della doppia tragedia bellica era stata il fulcro.

Di scontato, nella storia e in geopolitica, c’è tuttavia ben poco e in questo ristretto novero non rientrava certo, agli albori della guerra fredda, l’idea di un assetto geostrategico europeo avente come orizzonte ultimo niente meno che l’obsolescenza della più grande invenzione veterocontinentale: lo Stato nazionale.

Ma la sorte sa essere ironica: a macerie ancora fumanti, fu la necessità di contenere la minaccia sovietica e di neutralizzare la volontà di potenza tedesca a forzare quel processo di unificazione europeo che si giovò certo di talenti autoctoni, ma il cui embrione prese forma oltreatlantico. Gli Stati Uniti, prodotto d’esportazione più riuscito di quella pace di Vestfalia (1648) che le moderne nazioni statualizzate aveva generato, imposero così ai loro progenitori di snaturare sé stessi. Almeno quel tanto che bastava a soddisfare gli imperativi di un ordine mondiale non più eurocentrato.

In tale cornice, se fino alla fine degli anni Trenta del Novecento quella tedesca era stata soprattutto una questione territoriale, dal secondo dopoguerra in poi diventa sempre più una questione geoeconomica. L’Europa aveva bisogno che la Germania si riprendesse e tornasse a crescere; ma tutti, a cominciare dai francesi, temevano il ritorno della potenza tedesca. La «costruzione» europea va letta anche, forse soprattutto, come il tentativo di sciogliere questo annoso dilemma. Il quale ebbe fin da subito una dimensione tangibile: l’industria della Germania (Ovest) necessitava di acciaio e del carbone per forgiarlo, ma Parigi era determinata a scongiurare un nuovo monopolio tedesco sulle risorse che avevano alimentato la devastante forza bellica del Reich. Quelle risorse, osservava Jean Monnet, erano «distribuite in modo non uniforme ma complementare in un’area divisa da frontiere storiche» [1].
Tale circostanza è alla base dell’intuizione di Monnet: condivisione. Se Francia e Germania avessero concorso alla produzione di carbone e acciaio, i volumi prodotti sarebbero cresciuti grazie alle economie di scala, ponendo su solide fondamenta la ricostruzione europea. Ma soprattutto, per i due paesi sarebbe stato molto più sconveniente – idealmente impossibile – farsi di nuovo la guerra, data la loro complementarità industriale. Il risultato, sancito dai Trattati di Parigi del 1951, fu la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), vero atto di nascita – più delle successive Euratom e Cee – dell’integrazione europea.
Da sognatore pragmatico qual era, Monnet non si faceva illusioni sulla facilità del processo d’integrazione. Uomo del suo tempo, scampato a due guerre totali per vedersi proiettato nell’incubo atomico, era altresì poco incline a concepire positivisticamente la storia come iter lineare. L’umanità procede a tentoni, e sebbene gli eventi non si ripetano uguali a sé stessi, ciò che chiamiamo progresso è quasi sempre il frutto di errori che generano crisi che a loro volta sfociano (quando va bene) in catarsi. L’ansia tassonomica degli studiosi avrebbe distillato tale visione nel concetto di «funzionalismo», il quale postula che la necessità crea l’istituzione. Nella versione empirica di Monnet: «Ho sempre creduto che l’Europa sarebbe stata costruita attraverso le crisi, e che sarebbe stata la somma delle soluzioni escogitate per farvi fronte» [2].

2. All’atto pratico l’idea si sarebbe rivelata efficace, ma nell’urgenza postbellica la strategia fu sacrificata alla tattica. Il processo d’integrazione lasciò infatti inevasi due interrogativi cruciali, destinati a riproporsi ogni qualvolta l’Europa attraversava una crisi: chi e perché.
Chi desiderava un’Europa unita? Chi era necessario e sufficiente che la volesse? Non tanto l’uomo «della strada», intento a sopravvivere e desideroso di protezione, più che di integrazione; piuttosto l’élite politica europea, la cui rappresentatività era auspicabile, ma non indispensabile. Lo stesso Jean Monnet aveva vestito molti panni – vicesegretario generale della Lega delle Nazioni, banchiere, consigliere del governo cinese, funzionario di quello francese e poi di quello britannico in servizio negli Stati Uniti – ma non aveva mai ricoperto una carica elettiva in vita sua. Tant pis! Per fare l’Europa occorreva fare gli europei e sul punto la visione di Monnet, Adenauer, De Gasperi e degli altri padri nobili dell’integrazione europea scontava un comprensibile ma limitante paternalismo di stampo ottocentesco.
Quanto al perché la sottesa ma irreversibile federalizzazione dell’Europa fosse l’unica strada per evitare un altro conflitto paneuropeo, il problema non si poneva. Il fatto che non vi fossero precedenti storici di una federazione imposta come antidoto alla guerra – semmai il contrario: la guerra civile come viatico della federazione, nel caso statunitense – non generò mai un vero dibattito pubblico. La comunanza economico-istituzionale come presupposto dell’unità politica, a sua volta foriera di pace, era una necessità insindacabile proprio perchéindimostrabile.
Il dogma in geopolitica è tuttavia impraticabile, in quanto non ammette repliche. Da cui il paradosso ontologico dell’Europa e della sua massima espressione, la moneta unica: un metodo empirico di matrice darwiniana, quello funzionalista, messo al servizio di un «destino manifesto» che non prevede confutazione.
L’antinomia è in parte ammissibile nel contesto storico che fa da sfondo al processo d’integrazione: l’irrimediabile venir meno del primato geopolitico europeo, detenuto con alti e bassi dalla fine del Quattrocento. Devastazione bellica; trasloco del potere marittimo dall’Inghilterra agli Stati Uniti; maturazione della rivoluzione d’Ottobre e affermazione della potenza sovietica; decolonizzazione; salti tecnologici epocali incubati altrove (elettronica e nucleare, solo per citarne due); decollo demografico e poi economico dell’Estremo Oriente e del subcontinente indiano; fine della parità aurea e intensificarsi della competizione economico-finanziaria mondiale; svolta capitalistica della Cina ed esplosione della globalizzazione a trazione sino-americana; conseguente internazionalizzazione delle catene produttive e vertiginoso aumento della concorrenza; crollo dell’Urss e dell’assetto territoriale postbellico; ritorno della Russia sulla scena internazionale e transizione demografica dell’Africa, con annessa pressione migratoria.
Quest’elenco sommario dei fattori che hanno concorso al ripiegamento e allo smarrimento dell’Europa non pretende di essere esaustivo; ciò nondimeno, può fungere da attenuante per gli errori compiuti negli ultimi decenni – specie dopo il 1989 – dagli artefici dell’attuale assetto comunitario.

3. Quando nel 1992, a Maastricht, i governi europei decisero di adottare una moneta comune in assenza degli strumenti politico-istituzionali per farla funzionare, intendevano replicare una volta ancora il prodigio monnettiano: creare una realtà (la moneta) che, nel tempo, avrebbe reso indispensabile lo strumento (un governo europeo) necessario a gestirla. Pena un rovinoso fallimento. Solo una simile prospettiva avrebbe consentito di plasmare un potere sovrannazionale pienamente sovrano, cui demandare la gestione dell’allargamento a est e dei timori indotti dalla riunificazione tedesca. Così Romano Prodi: «Occorreva partire dalla moneta, altrimenti i litigiosi governi europei non avrebbero fatto nulla» [3].
Le ragioni squisitamente geopolitiche dell’euro sono ormai assodate, e le giustificazioni tecniche di cui esso fu ammantato non convincono oggi come non persuadevano allora. Molto si è detto e scritto, ad esempio, sull’arbitrarietà dei famosi parametri di Maastricht, frutto di grossolane medie statistiche (il rapporto debito/pil al 60%) quando non del puro caso (il rapporto deficit/pil al 3%) [4]. Anche laddove tali criteri avessero avuto una genesi scientifica – il che presuppone che l’economia sia una scienza – l’inclusione dell’Italia nel gruppo di testa dell’euro sarebbe bastata a screditarli. Nel 1996, alla vigilia della cura da cavallo imposta dall’allora ministro del Tesoro Ciampi, il nostro deficit sfiorava il 7,5% del pil, mentre il debito eccedeva quota 120%. Dall’anno successivo il primo parametro fu dolorosamente centrato, il secondo non lo è mai stato (nel 2017 ha superato il 131%).
La principale ragione per cui fummo ammessi da subito nella moneta unica ha poco a che fare con l’essere cofondatori della Cee, e molto con la nostra tendenza a svendere la lira per rendere appetibile l’export. Fu il rifiuto tedesco di competere sui mercati internazionali con un’Italia in grado di svalutare la propria divisa rispetto a un euro sottratto al controllo della Bundesbank che fece la differenza.
Tale considerazione permette di inquadrare la chiave di volta dell’edificio monetario europeo: il manifatturiero tedesco. In quell’inedito storico che è l’Eurozona, area valutaria «non ottimale» in quanto troppo eterogenea, la Germania è il partner più uguale degli altri. Il suo singolare peso economico e demografico (21% del pil e 16% della popolazione Ue nel 2016) fa sì che il mandato della Banca centrale europea (Bce), pur non potendo prescindere dalle disparate realtà nazionali, risponda in primo luogo alle esigenze tedesche. Queste sono condensabili in due capisaldi: bassa inflazione e moneta stabile, ma non troppo forte da pregiudicare la competitività delle esportazioni.
Il marco tedesco (occidentale), cui l’euro è costretto ad assomigliare, non fu e non sarà mai una lira o una peseta, ma nemmeno una sterlina inglese o un franco svizzero. È la moneta della competitività industriale ottenuta con la moderazione salariale e gli incrementi di produttività, i cui costi sociali sono per quanto possibile attenuati dal welfare. Ma è anche la moneta dell’ortodossia contabile scolpita in costituzione (con l’obbligo di pareggio del bilancio) e perseguita a suon di attivi commerciali (245 miliardi di euro a febbraio, pari a circa il 7,5% del pil tedesco). È, in definitiva, la moneta di una nazione ordoliberista, come si definisce il peculiare connubio germanico di mercatismo e venerazione dei parametri contabili.
Questa realtà ha condizionato l’euro fin dall’inizio.
Negli anni Novanta il grosso dei paesi europei presentava un’inflazione sensibilmente più alta di quella della Germania. La propensione al risparmio e l’avversione all’inflazione degli alacri e virtuosi tedeschi sono spiegate in vari modi: dallo shock di Weimar all’etica protestante [5], anche se è forse improprio scomodare la Riforma. Ancora all’inizio del Novecento, infatti, era la Francia calvinista a predicare il laissez-faire, mentre la giovane nazione guglielmina perseguiva la semiautarchia con politiche dirigistiche e opportuno ricorso al disavanzo [6]. Fu il trauma dei due conflitti mondiali a sovvertire i ruoli, screditando le élite colbertiste francesi e convertendo la Germania all’unico verbo con cui fosse coniugabile la sua rinascita: quello del commercio, con il corollario della competitività di cui la virtù fiscale è in parte strumento.
Tra il 1992 (Maastricht) e il 1999 (termine ultimo per il completamento dell’Unione economica e monetaria), e ancora nei primi anni Duemila (l’euro entra in circolazione nel 2002), si assistette dunque a uno schiacciamento dei tassi d’interesse dell’Eurozona su quelli tedeschi. Le conseguenze di tale allineamento si prestano a due spiegazioni.
Quella «soggettiva» racchiude un severo giudizio etico sulle cosiddette economie periferiche (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia), i cui governi hanno usato i risparmi sul servizio del debito per comprare consenso con una spesa pubblica improduttiva, invece di sanare i conti e fare investimenti. Frattanto la cittadinanza si indebitava oltremisura, profittando dei tassi stracciati.
Quella «oggettiva» rileva invece come nei famigerati Pigs (i rei suddetti meno l’Irlanda), dove il calo dei tassi era stato maggiore, l’inflazione restò per un certo tempo più elevata rispetto alle economie «centrali» (Germania in testa), perché i poteri d’acquisto continuavano a riflettere le differenze di competitività tra le varie economie. Dal primo gennaio 2002 ciò si tradusse in un’impennata dei prezzi (il noto cambio «di fatto» lira/euro 1000 a 1). Tuttavia, i capitali – erosi dall’inflazione – non erano incentivati a spostarsi nel resto dell’Eurozona, stante l’uniformità dei tassi d’interesse. Sicché ci fu una corsa al mattone, bene rifugio per eccellenza, che innescò bolle speculative poi sgonfiatesi a partire dal 2009-10 [7]. L’indebitamento delle cicale europee fu peraltro assecondato dalle banche francesi e tedesche, a caccia di nuovi mercati in un panorama di rendimenti bassi. Tanto che la successiva corsa di Berlino e Parigi a «salvare» la Grecia deve molto all’inconfessabile necessità di salvaguardare i rispettivi istituti sovraesposti sul mercato ellenico.

4. Le due interpretazioni si completano: ognuna illumina un pezzo di verità. Ma prese insieme non fanno il tutto. Manca un tassello importante: l’effetto prodotto dall’euro sulle ragioni di scambio, dunque sulla competitività, dei paesi europei nei loro reciproci commerci.
L’inflazione genera svalutazione. Pertanto, nelle economie strutturalmente meno competitive (tra cui quella italiana) la moneta unica, non più inflazionabile, implicò nel tempo una sensibile rivalutazione del cambio reale. L’epoca delle svalutazioni competitive era terminata. Questo comportò per molti paesi un aumento delle importazioni e una crescente difficoltà ad esportare: dal 1999 tutta l’Eurozona andò in deficit commerciale. Tutta a eccezione della Germania, passata da un deficit cronico a un costante attivo della bilancia con l’estero [8]. Il grande malato d’Europa si era riconvertito in locomotiva.
La sopraggiunta impossibilità di riequilibrare con la moneta il passivo commercialefavorì nella «periferia» l’indebitamento dei privati verso il sistema bancario, nazionale e non – le importazioni andavano pur pagate in qualche modo – con conseguente aumento dello squilibrio fiscale complessivo. Per certi versi, la dinamica intra-europea nei tre lustri dell’euro è stata simile a quella tra America e Cina prima della crisi, con Pechino che finanziava l’import statunitense di merci cinesi usando gli attivi commerciali per prestare soldi a Washington (tramite l’acquisto di bond). La finanza renana ha fatto lo stesso con gli acquirenti europei, ai quali però – dettaglio cruciale – era adesso precluso stampare soldi per pagare le importazioni. Se avessero potuto farlo, avrebbero recuperato competitività [9]. Il pegno sarebbe stato, come sempre, un’inflazione sostenuta, nemesi e marchio d’infamia delle economie fragili.
Ma perché i mercati non reagirono tempestivamente al deterioramento della posizione fiscale e commerciale nella «periferia»? Perché non fecero pagare da subito più caro il denaro prestato a quei paesi, innalzandone il famigerato spread (il differenziale di rendimento dei titoli del debito pubblico rispetto a quelli tedeschi, considerati sicuri per eccellenza)?
La risposta sbrigativa è che i mercati sono ampiamente imperfetti, come non mancano ciclicamente di dimostrare. Quella più articolata è che essi non presero alla lettera il Trattato di Maastricht, la cui «clausola di non salvataggio» (risultante dal combinato disposto degli articoli 123 e 125) [10] statuisce la responsabilità di ogni Stato membro per la propria condotta fiscale e finanziaria. In altri termini, i mercati ritennero che in caso di guai seri – come il rischio di bancarotta sovrana di un paese dell’euro – la Germania avrebbe superato la sua storica avversione alla Transferunion, l’unione dei trasferimenti per cui un territorio (Stato membro) più ricco ne finanzia uno più povero in ossequio a una solidarietà fiscale tipica degli assetti federali. Quello sarebbe stato il momento monnettiano dell’euro, in cui l’unione monetaria avrebbe compiuto un passo decisivo verso l’unione politica.
Questo azzardo morale – agevolato dalla scommessa geopolitica insita nell’euro – è costato caro, a tutti. La crisi di liquidità greca si è presto tramutata in crisi d’insolvenza di fronte all’iniziale ritrosia di Berlino al salvataggio, e il conseguente panico dei mercati si è esteso agli altri anelli deboli dell’Eurozona. Le banche, i cui bilanci trabocca(va)no di titoli sovrani e crediti di dubbia esigibilità, sono andate in sofferenza. E quando, nella notte dell’euro, governo e parlamento tedeschi hanno infine teso la mano ad Atene, lo hanno fatto per il bene della «casalinga sveva», archetipo di frugalità e buonsenso evocato con trasporto da Merkel [11]. La patria e la rielezione innanzi tutto. Chissà se noialtri, a parti invertite, non avremmo fatto lo stesso.

5. Dov’è l’Eurozona oggi, dopo una recessione decennale e una prolungata terapia deflattiva solo in parte mitigata dai massicci acquisti di debito pubblico della Bce? Il pil complessivo dell’area euro è tornato da poco ai livelli del 2008, ma nei paesi più colpiti dalla crisi il divario resta consistente: -7% per l’Italia, -22% per il Portogallo, -27% per la Grecia. La crescita media dell’area negli ultimi cinque anni è stata dello 0,6%, mentre nel 2015 gli investimenti erano allo stesso livello del 2009, anno nero della recessione. In tre paesi (Spagna, Italia e Grecia) la disoccupazione giovanile supera il 30%, in altri undici (compresi Francia, Portogallo e Finlandia) è tra il 16 e il 25%. «L’economia della conoscenza più competitiva e dinamica» del mondo promessa nel 2000 dalla strategia di Lisbona stenta a materializzarsi, se ancora oggi il mercato unico è un importatore netto di servizi digitali dagli Stati Uniti [12].
Si tratta ovviamente di rozze medie statistiche, che nascondono situazioni assai diverse. Ma rilevano proprio perché la politica della Bce, solo organismo comunitario titolato ad agire in nome e per conto dell’euro, non può che essere una: troppo accomodante per i paesi in surplus di bilancio, troppo restrittiva per gli altri. Questi ultimi sperimentano da anni la cosiddetta svalutazione interna: non potendo indebolire la moneta e incapaci di (o restii a) strutturare mercato del lavoro, fisco e spesa pubblica sul modello tedesco, tagliano salari e posti di lavoro. Il risultato è una crescita bassa o nulla e un’alta disoccupazione strutturale, che dietro i numeri cela una realtà umana fatta di rassegnazione ed emigrazione.
La faglia interna all’Eurozona e all’Ue è fotografata da un recente rapporto [13] della Fondazione Friedrich Ebert, che analizza le posizioni nazionali in merito alla cosiddetta «relazione dei cinque presidenti» [14], la proposta di riforma dell’Unione monetaria avanzata da Jean-Claude Juncker, Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz nel giugno 2015. In quel documento si perora tra l’altro il completamento dell’unione bancaria, l’unione dei mercati finanziari nazionali, il coordinamento delle politiche di bilancio e l’esercizio di un maggior «controllo democratico» da parte del Parlamento europeo. Segnali cifrati di unione politica esplicitati e rilanciati, ancorché strumentalmente, dal presidente francese Macron [15].
Le posizioni in merito alla proposta circoscrivono tre gruppi: i fautori della «stabilità» (Germania, Finlandia, Estonia, Lituania, Malta, Olanda, Danimarca, Romania e Ungheria) rifiutano in blocco ogni ulteriore cessione di sovranità in ambito economico e fiscale; i «federalisti» (Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Belgio, Lussemburgo, Slovenia e Lettonia) sono invece favorevoli, con alcuni distinguo; altri sette paesi (Cipro, Slovacchia, Croazia, Polonia, Irlanda, Austria e Cechia) sostengono un avanzamento parziale – in campo economico o fiscale, a seconda delle convenienze.
Gli attuali equilibri della politica tedesca rendono assai improbabile, nel medio termine, un ribaltamento della posizione di Berlino. Questo, del resto, richiederebbe una modifica del Grundgesetz (costituzione): ipotesi alquanto remota. L’euro appare quindi destinato a restare una moneta intergovernativa, il cui corso è deciso dai rapporti di forza tra i paesi che lo condividono. Il problema è che questo assetto è altamente disfunzionale. Non solo perché, in deroga ai dettami funzionalistici, questa moneta non riesce a generare un governo europeo, restando quindi acefala. Ma anche perché il «consenso di Berlino», cui il resto dell’Eurozona si è volente o nolente dovuto conformare, sta fallendo.
Dal 2012 a oggi la strategia anticrisi è consistita nel fare di tutto per portare in avanzo commerciale l’intera area euro (nonché i paesi, come Polonia o Svezia, ad essa legati tramite l’interscambio con la Germania), pretendendo che il resto del mondo assorbisse tale eccedenza senza battere ciglio. Questa condotta, più adatta a una piccola economia caraibica che al secondo mercato del globo, cozza con i noti problemi di sovrapproduzione della Cina; peggio, risulta altamente vulnerabile all’altrui protezionismo. L’Europa ha vissuto gli ultimi anni come se Donald Trump non esistesse.
Inoltre, inducendo la Bce a compensare le politiche pro cicliche e deflattive con massicci acquisti di titoli del debito pubblico, la cosiddetta austerità ha spuntato le armi di Francoforte. La Banca centrale europea ha oggi a bilancio oltre mille miliardi di titoli sovrani a tassi artificialmente bassi o negativi, spesso acquistati a fronte di collaterali (garanzie) assai dubbie [16]. Quando – non se – la prossima crisi investirà l’area euro, i margini di politica monetaria saranno assai risicati, per usare un eufemismo.
C’è da sperare che l’innesco della crisi prossima ventura non avvenga in Italia. L’olimpica flemma con cui i mercati hanno sin qui assistito ai recenti sviluppi politici italiani sembra frutto, una volta ancora, di due azzardi: che Mario Draghi (o chi per lui) possa e voglia continuare a surrogare l’assenza di una politica economico-fiscale anticiclica; e che Roma non deroghi agli stringenti obblighi di bilancio assunti in sede europea [17]. La prima asserzione è quanto meno dubbia, per i motivi di cui sopra. La seconda non è affatto scontata.
Frattanto, l’euro resterà una moneta incompiuta. Il suo coronamento richiederebbe, in ultima analisi, che il Nord finanziasse il Sud a fondo perduto. È lecito dubitare che ciò avverrà. Perché, come ebbe a dire al riguardo il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker con studiato candore: «Sappiamo tutti cosa bisogna fare. Solo che non sappiamo come essere rieletti dopo averlo fatto» [18].

Note:
1. J. Lanchester, «Money Trap», The New Yorker, 24/10/2016.
2. J. Monnet, Cittadino d’Europa, Napoli 2007, Guida.
3. M. Minenna, P. Verzella, G.M. Boi, La moneta incompiuta: il futuro dell’euro e le soluzioni per l’Eurozona, Roma 2016, Ediesse.
4. V. Lops, «Parla l’inventore della formula del 3% sul deficit/Pil: “Parametro deciso in meno di un’ora, senza basi teoriche”», Il Sole-24 Ore, 29/1/2014.
5. T. Buck, «Why Are Germans so Obsessed with Saving Money?», Financial Times, 22/3/2018.
6. H. James, Monetary and Fiscal Unification in Nineteenth Century Germany: What Can Kohl Learn from Bismarck?, Essays in International Finance, n. 202, Princeton University Press, marzo 1997.
7. M. Minenna, P. Verzella, G.M. Boi, op. cit.
8. Ibidem.
9. Le merci italiane costavano meno al compratore straniero che cambiava i suoi soldi per pagare prezzi espressi in lire svalutate.
10. N. Berto, La clausola di non salvataggio e gli interventi della Bce, Università degli Studi di Padova, a.a. 2014-15, goo.gl/g2Ssxw
11. M. Feldstein, «The Failure of the Euro: The Little Currency that Couldn’t», Foreign Affairs, 1/1/2012.
12. H. Enderlein et al., Repair and Prepare: Growth and the Euro after Brexit, Bertelsmann Stiftung 2016.
13. B. Hacker, C.M. Koch, The Divided Eurozone: Mapping Conflicting Interests on the Reform of the Monetary Union, Friedrich Ebert Stiftung, 2017.
14. J.-C. Juncker et al., Completing Europe’s Economic and Monetary Union, European Commission, 22/6/2015.
15. «Emmanuel Macron’s Europe: A vision, Some Proposals», Fondazione Robert Schuman, 2/10/2017.
16. A. Evans-Pritchard, «Euro “House of Cards” to Collapse, Warns ECB Prophet», The Telegraph, 16/10/2016.
17. W. Münchau, «Financial Markets Fail to Reflect the Eurozone Time-Bomb in Italy», Financial Times, 25/3/2018.
18. «Jean-Claude Juncker’s Most Outrageous Political Quotations», The Telegraph, 15/7/2014.



lunedì 14 maggio 2018

LA DOTTRINA PUTIN - Come intende comportarsi la Russia, punto per punto, nelle aree strategiche - Articolo di Vitalij Tret’jakov


La Federazione Russa è una grande potenza, non una superpotenza globale. Come intende comportarsi, punto per punto, nelle aree strategiche. Il Cremlino non cerca lo scontro con gli Usa. L’Ucraina si spaccherà e la Russia si riunificherà come la Germania.
di Vitalij Tret’jakov



A mio parere non c’è nulla di più semplice che descrivere quale sarà la strategia globale di Vladimir Putin durante il suo nuovo mandato come presidente della Federazione Russa. I tratti e le direzioni principali di questa strategia sono già stati o delineati in modo chiaro o dichiarati esplicitamente.
Innanzitutto, su quali premesse si fonda e si fonderà nell’immediato futuro la strategia globale di Putin? A mio avviso, le premesse sono quattro.
Prima premessa. Dal punto di vista della sua storia e della sua civiltà, la Russia è destinata a essere una grande potenza mondiale e di conseguenza non c’è possibilità di scelta: se la Russia vuole continuare a esistere come nazione, paese e Stato, non può far altro che portare avanti una politica estera indipendente, anche se questa politica non soddisfa gli altri attori sullo scacchiere mondiale.
Seconda premessa. La Russia non aspira a controllare metà, un terzo, un quarto o un’altra porzione di mondo, costituita in un modo o nell’altro da paesi indipendenti de iure, ma sottomessi de facto agli altri protagonisti mondiali (le grandi potenze). L’esperienza dell’Unione Sovietica, che ha sprecato troppe forze e mezzi spesso a danno della propria popolazione per sostenere in tutto il mondo i «regimi amici», ha portato Putin a una sola conclusione: gestire zone di influenza troppo estese e un numero troppo ampio di paesi verso i quali prendere impegni è, dal punto di vista strategico, più una zavorra che un vantaggio.
Terza premessa. Dell’Occidente non ci si può fidare. Quali che siano le ragioni, che ciò sia giustificato o no secondo il punto di vista di Mosca, l’Occidente vedrà sempre nella Russia nel migliore dei casi un concorrente e nel peggiore (e molto più spesso) un rivale o persino un nemico.
Quarta premessa. Tutto il mondo sta attraversando un periodo di trasformazioni globali e regionali i cui contorni definitivi non sono molto chiari. Il processo di trasformazione continuerà come minimo per i prossimi due-tre decenni (ma forse anche di più). È chiaro tuttavia che il risultato di queste trasformazioni non sarà la nascita di una «fratellanza di tutti i popoli del mondo» (il che è un’utopia) o di una gerarchia di Stati semidemocratici (la «democrazia totalitaria» che Washington vorrebbe) diretta da un unico centro (di fatto da un unico paese), ma solo di una nuova combinazione di grandi potenze (più indipendenti) e di semplici paesi medi e piccoli (meno indipendenti).
Di conseguenza, gli obiettivi strategici di Putin come presidente della Russia nei prossimi sei anni saranno i seguenti.
1) Preservare e rafforzare la Russia come una delle grandi potenze mondiali (non però al livello dell’Urss, poiché il suo sistema era ridondante e irrazionale).
2) Preservare e rafforzare la Russia come paese e civiltà a sé stante e autosufficiente (per quanto possibile nel mondo di oggi), il più possibile indipendente, in modo che nessuno possa osare attentare ai suoi interessi sovrani.
3) Preservare la pace globale e, se plausibile, la pace nelle regioni immediatamente vicine ai confini russi. Per garantire la prima la Russia deve mantenere un equilibrio strategico-militare con gli Usa, mentre per garantire la seconda deve intervenire, talvolta anche con l’uso delle armi, nei conflitti regionali nei territori di suo interesse strategico, senza però mai accendere questi conflitti.
4) Preservare e difendere la civiltà russa (intesa in senso politico ed etnico), anche nei paesi nei quali, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si è venuto a trovare un numero significativo (come, per esempio, in Estonia e in alcuni nuovi Stati indipendenti dell’Asia centrale) o molto grande (come in Ucraina) di abitanti di etnia o civiltà russa (nella terminologia d’uso corrente, russofoni).
5) Bisogna notare che quest’ultimo punto, per un insieme di circostanze obiettive e soggettive, ha goduto dell’attenzione minore in tutti questi ultimi anni, compresi i primi anni della presidenza di Putin. Tuttavia l’annessione della Crimea alla Russia, che tanto ha spaventato e sconvolto l’Occidente e che è avvenuta, nonostante tutte le premesse oggettive, proprio perché a capo del Cremlino c’era Vladimir Putin e non qualche altro presidente, mostra che si è messa fine alla pessima tradizione, risalente a Gorbačëv e a El’cin, di ignorare gli interessi vitali dei russi ritrovatisi contro la loro volontà a vivere oltre i confini della Federazione Russa.

Descriverò ora, per come lo intendo e lo vedo, tutto lo spettro di elementi costitutivi della strategia globale russa sotto la guida di Vladimir Putin durante il suo nuovo mandato presidenziale. Talvolta menzionerò in questo elenco anche i metodi con cui Putin realizzerà questa strategia.
Le tendenze generali della strategia globale di Putin
Per ordine e per punti, ecco le linee strategiche della Russia secondo il suo presidente.
1) Mantenere rapporti non conflittuali, per quanto possibile, con i principali protagonisti dello scacchiere mondiale (le grandi potenze globali e regionali), a patto che la parte opposta non provochi conflitti.
2) Conservare il sistema attuale (basato sugli accordi di Jalta e Potsdam) di istituzioni internazionali con in testa l’Onu e il sistema del diritto internazionale, anche se molte cose in questo sistema non soddisfano la Russia stessa (per esempio, la predominanza di rappresentanti degli Usa e degli Stati occidentali sotto il loro controllo a capo e all’interno degli apparati di queste istituzioni).
3) Realizzare una strategia e una politica alternativa alla strategia globale speculativa americana e occidentale e alla politica di «difesa della democrazia e dei diritti dell’uomo». Si tratta di una strategia e di una politica di «non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani» e di «difesa per ogni membro della comunità internazionale del diritto di organizzarsi dal punto di vista politico e sociale secondo le tradizioni e le norme di civiltà di quel paese».
4) Esortare a rinunciare alla mentalità dei blocchi e a un conseguente comportamento, il cui risultato pratico è stato la creazione regolare da parte di Washington di «coalizioni» per «contenere o punire» un dato paese.
5) Promuovere e tentare di realizzare il principio della «sicurezza collettiva indivisibile», cioè un sistema in cui la sicurezza di un gruppo di paesi non deve essere realizzata a scapito di una perdita di sicurezza di un altro gruppo di paesi (ne sono un esempio le numerose proposte che Mosca ha fatto agli Usa e ai suoi alleati vassalli europei di rinunciare a posizionare sistemi di difesa militare americana vicino ai confini russi e, come alternativa, creare un sistema comune europeo di difesa militare).
6) Passare senza traumi da un mondo monopolare, in cui gli Usa sono la potenza egemone, a un mondo multipolare.
7) Ovviamente lottare insieme contro le minacce comuni e globali come, per esempio, il terrorismo internazionale.
8) Infine, a guidare Putin sarà l’idea che nei rapporti internazionali attuali (come è sempre successo anche in precedenza, durante tutta la storia mondiale) hanno peso solo gli interessi e le opinioni di chi è forte. Putin, anche solo basandosi sull’esempio di Gorbačëv e di El’cin, è pienamente consapevole del fatto che quanto più concedi all’Occidente, tanto più l’Occidente pretenderà da te nuove concessioni. Per questa ragione rafforzare il più possibile la potenza russa e la sua influenza internazionale rimarrà una delle priorità della strategia globale del Cremlino.

Stati Uniti
Nel rapporto con gli Usa valgono anzitutto i tre precetti seguenti.
1) Emanciparsi in modo graduale e, se possibile, non conflittuale dal predominio americano in campo economico e soprattutto finanziario.
2) Mantenere un equilibrio strategico-militare con gli Usa.
3) Opporsi a Washington laddove vada a toccare esplicitamente gli interessi della Russia o gli interessi dei suoi rapporti costruttivi con altri Stati.
Allo stesso tempo, rientra nella strategia di Putin il rifiuto di qualsiasi altra forma di attività antiamericana. Putin non ha intenzione di minare intenzionalmente le posizioni degli Stati Uniti nel mondo attuale. Si limita ad aspettare che queste posizioni si indeboliscano naturalmente (a seguito dello sviluppo di altri centri di forza) e a causa degli errori della politica estera condotta da Washington.
A proposito, questo è il metodo preferito da Putin per lottare contro l’egemonia occidentale in generale e quella americana in particolare. Putin rimane in attesa, perché sa e capisce che prima o poi l’Occidente farà un altro errore. E a quel punto gli resta solo da decidere, dopo aver valutato i pro e i contro, se sfruttare questo errore oppure no. È quel che è successo con la Crimea, che è l’esempio più lampante.
Inoltre Putin sa che in ogni unione economica, politica o militare inizialmente compatta prima o poi sorgono contrasti sia tra i singoli membri sia tra il suo leader (di fatto, il padrone) e gli altri membri. E se questa unione è diretta contro gli interessi della Russia basta solo aspettare che si indebolisca o si autodistrugga.

Europa (Unione Europea-Nato)
Senza dubbio Putin ha già rinunciato a credere (se mai l’ha fatto) in un’utopia come la «casa comune europea» e perciò non si lancia in promesse e in progetti velleitari relativi alla creazione di un mitologico «spazio comune europeo».
Putin non ha mai tentato neanche prima di dividere l’Unione Europea o la Nato e non lo farà certo ora. Innanzitutto perché vede con i propri occhi che questa unità in gran parte non esiste più e la sua parvenza, anche manifestata in alcune azioni comuni – in particolare la politica delle sanzioni contro la Russia – è garantita solamente dal controllo militare ed economico di Washington sulle «élite europee» e anche – cosa sempre più evidente – dal materiale compromettente raccolto ad hoc.
Putin tuttavia tenterà di sfruttare ogni nuova scissione all’interno di questa «unità». Non sempre avrà successo, poiché Washington è molto attenta a far sì che proprio sul fronte russo nell’Unione Europea e nella Nato non ci sia alcuna discordanza di pensiero e soprattutto di azione. Ma questo sistema sta già dando regolari segnali di malfunzionamento, non solo perché sia l’Unione Europea sia la Nato esistono da troppo tempo e sono invecchiate e diventate obsolete, ma anche perché si sono espanse troppo, andando oltre i propri reali confini.
Non posso affermare che Putin pensi come me – lo affermo da non meno di quindici anni – che l’Unione Europea crollerà e per le stesse ragioni per cui è crollata l’Unione Sovietica (ritengo che la data di questo crollo definitivo non si collochi oltre il 2025). Ma mi sembra evidente che Putin non creda che l’Ue e la Nato riusciranno a compattare le proprie file. Ed è chiaro che Putin userà accuratamente questa confusione e questo vacillamento per gli interessi della Russia.
Inoltre Putin non può non vedere come si stia manifestando in modo sempre più evidente una crisi di civiltà dell’«Europa classica». E si baserà sul fatto che prima o poi i paesi europei meno dipendenti dagli Usa e/o più perspicaci saranno costretti a rivolgersi alla Russia come alla vera garante della difesa della civiltà europea.
Cina
Nell’ottica della trasformazione della Cina in seconda superpotenza mondiale (almeno a livello economico), la strategia globale di Putin nei confronti di questo paese avrà come obiettivo la rinuncia a spingere Pechino verso un conflitto con gli Usa, per non acuire i contrasti già esistenti tra un’America sempre più debole e una Cina in crescita. E, traendo il massimo vantaggio dai buoni rapporti con Pechino, attendere di vedere l’esito della competizione tra le due, per ora soltanto economica e finanziaria.

Altri paesi e regioni
Come agirà Putin in un simile contesto lo ha già dimostrato formando una coalizione ad hoc tra Russia, Turchia e Iran in merito alla questione siriana.
Che cosa salta agli occhi? Prima di tutto che sulla base di una concomitanza di interessi regionali si sono uniti tre paesi molto diversi tra loro che l’Occidente ha pensato bene di inimicarsi. Incluso, ed è il fatto più sorprendente, un membro affidabile della Nato come lo è stato per molti decenni la Turchia!
E si può star certi che in qualsiasi altro conflitto regionale, provocato dagli americani o nel quale Washington si voglia intromettere con il suo sbandierato egoismo e la sua imperdonabile ipocrisia, sarà sempre possibile trovare due-tre o tre-quattro grandi paesi confinanti i cui interessi nazionali vengano realmente danneggiati dai piani e dalle azioni degli Usa e dei loro alleati vassalli. Si arriverà a un punto tale che emergeranno da soli e in modo inevitabile i motivi che spingeranno a creare simili coalizioni ad hoc in chiave antioccidentale. Basterà soltanto trovare qualcuno abbastanza risoluto e forte per mettere in piedi un’alleanza di questo tipo.
Putin non creerà simili coalizioni al di fuori del perimetro delle regioni direttamente confinanti con la Russia, come per esempio nell’America centrale o meridionale o nell’Africa australe. E la ragione è che Putin non ha intenzione di attaccare di proposito e in modo mirato le posizioni degli Usa nel resto del mondo né tantomeno di ostacolare la politica di Washington ovunque ci siano paesi e popoli insoddisfatti o danneggiati dalla politica americana. Essere estremamente razionali e affidarsi solo a ciò che si può ottenere nel concreto sono gli imperativi della politica estera di Putin. Tale posizione peraltro viene criticata da alcuni suoi oppositori interni abituati alla grandeur sovietica.

Ripeto: Putin osserva che il mondo si è stancato dell’egemonia statunitense e che in un modo o nell’altro se ne libererà. E né la Russia né il Cremlino né Putin in persona sono costretti a fare il lavoro per il mondo intero.
Lo spazio post-sovietico
Sulla linea politica di Putin nello spazio post-sovietico facente parte della sua strategia globale avrei molto da scrivere e si capisce il perché: è qui che risiedono gli interessi nazionali della Russia. Nel presente articolo mi limiterò a evidenziarne i punti essenziali.
Nessuno dei paesi dello spazio post-sovietico (le ex repubbliche alleate che facevano parte dell’Urss) ha ancora fatto la propria scelta geopolitica definitiva. I motivi sono evidenti: la maggior parte di questi paesi dovrebbe impostare la propria politica estera partendo quasi da zero. Quasi tutti (a eccezione di Lituania, Lettonia ed Estonia) continuano a tentennare e a destreggiarsi tra la Russia, gli Usa e la Cina (quest’ultima rilevante in particolare per quanto riguarda i paesi dell’Asia centrale) e persino tra questi giganti geopolitici e la Turchia o l’Arabia Saudita. Putin ha bene in mente tutto questo, ma mantenendo la massima correttezza nei confronti dei regimi stabilitisi in quei paesi, di impronta in sostanza autoritaria, preferisce aspettare pazientemente di capire come verranno rotti gli indugi che, tra l’altro, vanno di pari passo con l’oscillante equilibrio delle forzi globali. Putin ha capito che prima o poi ciascuno di questi paesi sarà chiamato a fare una scelta e l’assenza di una pressione particolare da parte di Mosca – a fronte di alcune sconfitte tattiche – darà un giorno i suoi frutti e sarà più produttiva della pressione costante degli Usa e di altri attori esterni in chiave anti-russa, interessati alla ripartizione dell’eredità sovietica.
Per me è chiaro come la luce del Sole che tale linea strategica di Putin nei confronti di quei paesi verrà continuata.
Gli Stati baltici (Lettonia, Estonia, Lituania), come ho già scritto, anche su Limes [1], sono tutt’altra questione. Intervengono di continuo come provocatori consapevoli che fanno di tutto per inasprire i rapporti tra la Russia e gli Usa, la Russia e l’Unione Europea, già di per sé profondamente compromessi.
Ritengo possibile, se non necessario, rendere più severa la politica di Mosca nei confronti di questi paesi già infettati dai virus del razzismo (verso i russi che vivono nei loro territori) e del neonazismo (fatto che la democratica Unione Europea continua con ostinazione a ignorare). Penso però che Putin non voglia spingersi nei prossimi sei anni verso un irrigidimento delle posizioni, ma che consideri il comportamento di questi paesi un frutto derivato dai rapporti generali tra Usa e Ue da una parte e Russia dall’altra.
Infine, la questione dei russi che si trovano oltre i confini della Federazione Russa, una questione legata alla situazione in Lettonia ed Estonia, oltre che in Moldova, ma soprattutto in Ucraina.
Gli oppositori interni alla politica estera di Putin lo rimproverano soprattutto di mostrare troppa pazienza verso le angherie ai danni dei russi in molti paesi dello spazio post-sovietico, verso la distruzione sistematica della cultura russa, dell’istruzione in lingua russa e della lingua russa stessa. Anche io ritengo che la Russia dovrebbe agire in maniera di gran lunga più risoluta, dal punto di vista diplomatico, politico ed economico.
In questo momento la questione si impone con maggiore forza in Ucraina. Perciò è proprio qui che si dovranno attendere i maggiori cambiamenti nell’atteggiamento di Putin circa la «questione russa» al di fuori dei confini della Russia.
Non può passare inosservato il fatto che da quando i rapporti tra Russia e Ucraina si sono deteriorati nei suoi interventi pubblici Putin ha constatato sempre più spesso ciò che prima del colpo di Stato in Ucraina (Jevromajdan, per dirla all’europea) egli preferiva non ricordare, ovvero che il popolo russo è attualmente la nazione più grande e divisa d’Europa. Ed è proprio così poiché non meno di metà della popolazione ucraina è russa. Si tratta come minimo di 20 milioni di persone. La percentuale sale fino al 75-80% se prendiamo in considerazione le persone che parlano russo come prima lingua.
Come molti russi, non gravati da incarichi governativi, ho sempre detto che se il popolo tedesco ha avuto la possibilità (tra l’altro non senza l’aiuto della Russia) di riunificarsi in un unico Stato, non ne ha meno diritto il popolo russo. E prima o poi accadrà.
Sono sicuro che Vladimir Putin in qualità di presidente della Russia non presenterà pubblicamente la questione con una simile schiettezza né tantomeno lo considererà un obiettivo geopolitico del nuovo mandato presidenziale. Ma per me è chiaro che egli percepisce sempre di più la crescente pressione di tale questione. Questo a sua volta trasformerà in qualche modo la sua politica nei confronti dell’Ucraina nel caso vi rimanga l’attuale regime politico (poco importa con quali leader a capo).

Meglio della Crimea non si può fare. Ma toccherà farlo
Non è mia intenzione giudicare entro quali termini viene visto il problema ucraino a Roma, Berlino, Bruxelles o Washington, ma per la Russia è senza dubbio una questione strategica.
L’annessione della Crimea alla Russia è un risultato di politica estera e interna di Putin che possono valutare soltanto i russi e di cui è difficile trovare analoghi nella storia russa. Perciò dico: meglio della Crimea non si può fare! Lo dico nel senso che è difficile immaginarsi che cosa avrebbe potuto fare di meglio un presidente della Russia, o Putin stesso, se non questa incredibile, seppur rischiosa, vittoria.
Credo che Putin dovrà davvero spingersi oltre e decidere nei prossimi sei mesi di presidenza il problema della Novorossija (per dirla in parole povere l’attuale Ucraina russa e russofona, di cui il Donbas costituisce soltanto una parte). Non importa quanto a Kiev i nazionalisti ucraini e i loro patroni della Nato e dell’Ue ripetano che «non esiste alcuna Novorossija»: non si può scambiare un desiderio per la realtà.
Sono già quattro anni di fila che Putin, a costo di danneggiare la propria reputazione all’interno della Russia, fa il possibile per mantenere l’Ucraina nei confini del 1991 (senza l’autoproclamata Crimea, naturalmente). Gli sforzi congiunti del regime nazionalista di Kiev, capeggiato da Porošenko, Turčinov e Avakov e sostenuto dall’Occidente, spianano senza indugi la strada per il definitivo crollo dell’Ucraina. Inoltre le forze apertamente anti-russe dell’Occidente optano chiaramente per un tentativo di pressione armata da parte di Kiev sulle repubbliche di Donec’k e Luhans’k oppure di scatenare un altro scenario in cui la Russia sarà costretta a entrare in un conflitto diretto sul suolo ucraino. Queste forze, lentamente ma senza fermarsi, stanno ottenendo qualche risultato.
A partire da questa tendenza che non è contrastata da nulla, fatta eccezione per l’autocontrollo politico del Cremlino, sono costretto a ritenere che una guerra civile a tutto campo e il crollo definitivo dell’Ucraina (nel quale, come se non bastasse, sono coinvolti anche alcuni paesi dell’Ue che confinano con l’Ucraina) appaiono inevitabili. In questo caso Putin sarà costretto, al di là delle intenzioni personali, a prendere le dovute misure. Non avrà altra scelta.
(traduzione di Giulia De Florio ed Elena Freda Piredda - Pubblicato su LimesOnLine)