DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

domenica 16 ottobre 2022

"IN NOME DI DIO, FERMATE LA FOLLIA DELLA GUERRA" - L' APPELLO DI PAPA FRANCESCO E LA POSIZIONE DELLA CHIESA SULLA SITUAZIONE E LE ISTITUZIONI INTERNAZIONALI


 Anticipiamo un brano del libro che Papa Francesco pubblica alla soglia del decimo anno di pontificato. Nel volume «Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza», a cura di Hernán Reyes Alcaide (Piemme, in uscita martedì), il Pontefice lancia un appello universale a costruire insieme un orizzonte di pace, un mondo migliore.


-“Più di duemila anni fa il poeta Virgilio ha plasmato questo verso: «Non dà salvezza la guerra!». Si fa fatica a credere che da allora il mondo non abbia tratto insegnamenti dalla barbarie che abita i conflitti tra fratelli, compatrioti e paesi. La guerra è il segno più chiaro della disumanità.
 Quel grido accorato risuona ancora.
Per anni non abbiamo prestato orecchio alle voci di uomini e donne che si prodigavano per fermare ogni tipo di conflitti armati. Il magistero della Chiesa non ha risparmiato parole nel condannare la crudeltà della guerra e, nel corso del XIX e del XX secolo, i miei predecessori l’hanno definita «un flagello», che «mai» può risolvere i problemi tra le nazioni; hanno affermato che la sua esplosione è una «inutile strage» con cui «tutto può essere perduto» e che, in definitiva, «è sempre una sconfitta dell’umanità».

Oggi, mentre chiedo in nome di Dio che si metta fine alla follia crudele della guerra, considero inoltre la sua persistenza tra noi come il vero fallimento della politica.

La guerra in Ucraina, che ha messo le coscienze di milioni di persone del centro dell’Occidente davanti alla cruda realtà di una tragedia umanitaria che già esisteva da tempo e simultaneamente in vari paesi, ci ha mostrato la malvagità dell’orrore bellico.
Nel secolo scorso, in appena un trentennio, l’umanità si è scontrata per due volte con la tragedia di una guerra mondiale. Sono ancora tra noi persone che portano incisi nei loro corpi gli orrori di quella follia fratricida.
Molti popoli hanno impiegato decenni a riprendersi dalle rovine economiche e sociali provocate dai conflitti.

Oggi assistiamo a una terza guerra mondiale a pezzi, che tuttavia minacciano di diventare sempre più grandi, fino ad assumere la forma di un conflitto globale.
Al rifiuto esplicito dei miei predecessori, gli eventi dei primi due decenni di questo secolo mi obbligano ad aggiungere, senza ambiguità, che non esiste occasione in cui una guerra si possa considerare giusta.
Non c’è mai posto per la barbarie bellica.
Tantomeno quando la contesa acquisisce uno dei suoi volti più iniqui: quello delle cosiddette “guerre preventive”.
La storia recente ci ha dato esempi, perfino, di “guerre manipolate”, nelle quali per giustificare attacchi ad altri paesi sono stati creati falsi pretesti e sono state contraffatte le prove.
 Per questo chiedo alle autorità politiche di porre freno alle guerre in corso, di non manipolare le informazioni e di non ingannare i loro popoli per raggiungere obiettivi bellici.
La guerra non è mai giustificata. Infatti non sarà mai una soluzione: basti pensare al potere distruttivo degli armamenti moderni per immaginare quanto siano alti i rischi che una simile contesa scateni scontri mille volte superiori alla supposta utilità che alcuni vi scorgono

La guerra è anche una risposta inefficace: non risolve mai i problemi che intende superare.
Forse lo Yemen, la Libia o la Siria, per citare alcuni esempi contemporanei, stanno meglio rispetto a prima dei conflitti?
Se qualcuno pensa che la guerra possa essere la risposta, sarà perché sbaglia le domande.
Il fatto che noi a tutt’oggi ci troviamo ad assistere a conflitti armati, a invasioni o a offensive lampo tra paesi, manifesta la mancanza di memoria collettiva.
Forse il XX secolo non ci ha insegnato il rischio che corre tutta la famiglia umana davanti alla spirale bellica? Se davvero siamo tutti impegnati a porre fine ai conflitti armati, manteniamo viva la memoria in modo da agire in tempo e fermarli quando sono in gestazione, prima che divampino con l’uso della forza militare. E per riuscirci servono dialogo, negoziati, ascolto, abilità e creatività diplomatica, e una politica lungimirante capace di costruire un sistema di convivenza che non sia basato sul potere delle armi o sulla dissuasione.
E poiché la guerra «non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante» (lettera enciclica “Fratelli tutti”, 256), torno a ricordare lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, il quale diceva che oggi è imprescindibile compiere una «trasfusione di memoria» e invitava a prendere qualche distanza dal presente per udire la voce dei nostri antenati. Ascoltiamo quella voce per non vedere mai più le facce della guerra.
Infatti la follia bellica resta impressa nella vita di chi la subisce in prima persona: pensiamo ai volti di ogni madre e di ogni figlio costretti a fuggire disperatamente; a ogni famiglia violata; a ogni persona catalogata come “danno collaterale” degli attacchi, senza alcun rispetto per la sua vita.

Vedo contraddizione tra quanti rivendicano le loro radici cristiane ma poi fomentano conflitti bellici come modi per risolvere gli interessi di parte.
No! Un buon politico deve sempre puntare sulla pace; un buon cristiano deve sempre scegliere la via del dialogo. Se arriviamo alla guerra è perché la politica ha fallito.
E ogni guerra che scoppia è anche un fallimento dell’umanità. Per questo dobbiamo raddoppiare gli sforzi per costruire una pace durevole.
Ci avvarremo della memoria, della verità e della giustizia. È necessario che tutti insieme apriamo la via a una speranza comune. Tutti possiamo, e dobbiamo, prendere parte a questo processo sociale di costruzione della pace.
Esso ha inizio in ciascuna delle nostre comunità e si innalza come un grido verso le autorità locali, nazionali e mondiali. Infatti è da loro che dipendono le iniziative adeguate per frenare la guerra.
E a loro, facendo questa mia richiesta in nome di Dio, domando anche che si dica basta alla produzione e al commercio internazionale di armi. La spesa mondiale in armamenti è uno degli scandali morali più gravi dell’epoca presente. Manifesta inoltre quanta contraddizione vi sia tra parlare di pace e, allo stesso tempo, promuovere o consentire il commercio di armi. È tanto più immorale che paesi tra i cosiddetti sviluppati a volte sbarrino le porte alle persone che fuggono dalle guerre da loro stessi promosse con la vendita di armamenti. Accade anche qui in Europa ed è un tradimento dello spirito dei padri fondatori.

 La corsa agli armamenti fa da riprova della smemoratezza che ci può invadere. O, peggio ancora, dell’insensibilità.
el 2021, in piena pandemia, la spesa militare mondiale ha superato per la prima volta i 2.000 milioni di dollari. A fornire questi dati è un importante centro di ricerca di Stoccolma, ed essi ci mostrano come per ogni 100 dollari spesi nel mondo, 2,2 siano stati destinati alle armi.

Con la guerra ci sono milioni di persone che perdono tutto, ma anche pochi che guadagnano milioni.
È sconfortante anche solo sospettare che molte delle guerre moderne si facciano per promuovere armi. Così non si può andare avanti.
Ai responsabili delle nazioni, in nome di Dio, chiedo di impegnarsi risolutamente a porre fine al commercio di armi che causa tante vittime innocenti.
 Abbiano il coraggio e la creatività di rimpiazzare la fabbricazione di armamenti con industrie che promuovano la fratellanza, il bene comune universale e lo sviluppo umano integrale dei loro popoli.
 Al pensiero dell’industria bellica e di tutto il suo sistema, mi piace ricordare i piccoli gesti del popolo che, anche tramite atti individuali, non smette di far vedere quanto la vera volontà dell’umanità sia di liberarsi dalle guerre.
Ma al di là del problema del commercio internazionale di armamenti destinati a guerre e conflitti, non meno preoccupante è la crescente facilità con cui in molti paesi si può entrare in possesso delle armi denominate “di uso personale”, in genere di piccolo calibro, ma a volte anche fucili di assalto o di grande potenza.
Quanti casi abbiamo visto di bambini morti per avere maneggiato armi nelle loro case, quanti massacri sono stati perpetrati per il facile accesso che a esse c’è in alcune nazioni?
Legale o illegale, su vasta scala o nei supermercati, il commercio di armi è un grave problema diffuso nel mondo.
Sarebbe bene che questi dibattiti avessero più visibilità e che si cercassero consensi internazionali affinché, a livello globale, fossero poste restrizioni sulla produzione, la commercializzazione e la detenzione di questi strumenti di morte.

Quando parliamo di pace e di sicurezza a livello mondiale, la prima organizzazione a cui pensiamo è quella delle Nazioni Unite (l’Onu) e, in particolare, il suo Consiglio di sicurezza.
La guerra in Ucraina ha posto ancora una volta in evidenza quanto sia necessario che l’attuale quanto sia necessario che l’attuale assetto multilaterale  trovi strade più agili ed efficaci per la soluzione dei conflitti.
In tempi di guerra è essenziale sostenere che ci serve più multilateralismo e un multilateralismo migliore. L’Onu è stata edificata su una Carta che intendeva dare forma al rifiuto degli orrori che l’umanità ha sperimentato nelle due guerre del XX secolo.
Sebbene la minaccia che essi si ripresentino sia ancora viva, d’altra parte il mondo oggi non è più lo stesso, ed è dunque necessario ripensare queste istituzioni in modo che rispondano alla nuova realtà esistente e siano frutto del più alto consenso possibile.
 È divenuto più che palese quanto queste riforme siano necessarie dopo la pandemia, quando l’attuale sistema multilaterale ha evidenziato tutti i suoi limiti.
Dalla distribuzione dei vaccini abbiamo avuto un chiaro esempio di come a volte la legge del più forte pesi più della solidarietà.
Ci si prospetta, dunque, un’occasione imperdibile per pensare e condurre riforme organiche, volte a fare recuperare alle organizzazioni internazionali la loro vocazione essenziale a servire la famiglia umana, a prendersi cura della Casa comune e a tutelare la vita di ogni persona e la pace.
Ma non voglio addossare tutta la questione alle organizzazioni, che in definitiva non sono più – ma del resto neanche meno – che un ambito in cui gli stati che le compongono si riuniscono e ne determinano la politica e le attività. Sta qui la base della delegittimazione e del degrado degli organismi internazionali: gli stati hanno smarrito la capacità di ascoltarsi a vicenda per prendere decisioni consensuali e favorevoli al bene comune universale.
Nessuna intelaiatura legale può sostenersi in assenza dell’impegno degli interlocutori, della loro disponibilità a una discussione leale e sincera, della volontà di accettare le inevitabili concessioni che nascono dal dialogo tra le parti.
Se i paesi membri di questi organismi non mostra[1]no la volontà politica di farli funzionare, siamo davanti a un evidente passo indietro.
 Vediamo, invece, che essi preferiscono imporre le proprie idee o interessi in maniera molte volte inconsulta. Soltanto se sfruttiamo l’occasione del dopo pandemia per reimpostare questi organismi potremo creare istituzioni con cui affrontare le grandi sfide, sempre più urgenti, che ci si prospettano, come il cambiamento climatico o l’uso pacifico dell’energia nucleare.
In questo senso, così come nella mia lettera enciclica “Laudato si’” esortavo a promuovere una «ecologia integrale», allo stesso modo credo che il dibattito sulla ristrutturazione degli organismi internazionali debba ispirarsi al concetto di «sicurezza integrale». Vale a dire, non più limitata ai canoni degli armamenti e della forza militare, bensì consapevole del fatto che in un mondo giunto a un livello di interconnessione come l’attuale è impossibile possedere, per esempio, una effettiva sicurezza alimentare senza quella ambientale, sanitaria, economica e sociale.
E su questa ermeneutica deve basarsi ogni istituzione globale che cercheremo di riprogettare, invocando sempre il dialogo, l’apertura alla fiducia tra i paesi e il rispetto interculturale e multilaterale.

In un contesto contrassegnato dall’urgenza, e in un orizzonte di condanna della follia bellica e di esortazione a ridefinire la cornice internazionale delle relazioni tra stati, non possiamo ignorare la spada di Damocle che pesa sull’umanità sotto la forma degli armamenti di distruzione di massa, come quelli nucleari. Davanti a un simile scenario ci domandiamo: chi possiede questi armamenti? Quali controlli ci sono? Come si pone freno alla logica che fa perno sull’accumulo di testate nucleari a fini di dissuasione?

 In questo contesto faccio mia la condanna di san Paolo VI verso questo tipo di armamento, che dopo oltre mezzo secolo non è divenuta meno attuale: «Le armi, quelle terribili specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli».
Non c’è motivo di restare condannati al terrore della distruzione atomica.
Possiamo trovare vie che non ci lascino appesi a una imminente catastrofe nucleare causata da pochi. Forgiare un mondo senza armi nucleari è possibile, dato che ne abbiamo la volontà e gli strumenti; ed è necessario, vista la minaccia che questo tipo di armamento comporta per la sopravvivenza dell’umanità. Avere armi nucleari e atomiche è immorale.
Sbaglia strada chi pensa che siano una scorciatoia più sicura del dialogo, del rispetto e della fiducia, ovvero gli unici sentieri che porterebbero l’umanità alla garanzia di una convivenza pacifica e fraterna.
Oggi è inaccettabile e inconcepibile che si continuino a scialacquare risorse per produrre questo genere di armi mentre si profila una grave crisi che ha conseguenze sanitarie, alimentari e climatiche e riguardo alla quale nessun investimento sarà mai abbastanza.
 L’esistenza delle armi nucleari e atomiche mette a rischio la sopravvivenza della vita umana sulla terra.
E quindi qualsiasi richiesta in nome di Dio affinché venga frenata la follia della guerra comprende anche una supplica a estirpare dal pianeta quell’armamento.
Il reverendo Martin Luther King lo ha espresso con chiarezza nell’ultimo discorso che pronunciò prima di essere assassinato: «Non si tratta più di scegliere tra violenza e non violenza, ma tra non violenza e non esistenza». La scelta sta a noi.


Clicca QUI per il manifesto programmatico della manifestazione del 5 Novembre.




lunedì 27 giugno 2022

IL “CICLO DEL DOLLARO” E LA RADICE FINANZIARIA DEI CONFLITTI CONTEMPORANEI (UCRAINA COMPRESA) - Un articolo su LIMES del 2015 del gen. Qiao Liang aiuta a comprendere quello che sta succedendo -


Il  documento che segue è la trascrizione di un discorso pronunciato dal generale Qiao Liang nel 2015 presso l’Università della Difesa, la più importante scuola militare cinese, dove egli è responsabile del programma di studio per gli alti ufficiali, e ha ricevuto l’approvazione dei vertici delle Forze armate e del presidente Xi Jinping.

In questo intervento Qiao annuncia il nuovo pensiero strategico nazionale e definisce la natura economica e finanziaria della politica estera americana e dei conflitti dal 1971.
Verso la metà del suo intervento Qiao Liang parla dell’ Ucraina che nel 2014 è stata teatro di un rovesciamento del regime con i moti di Euromaidan,  l’ inizio della guerra civile del Donbass con l’ intervento di Kiev contro le repubbliche separatiste e l’ annessione russa della Crimea. Spiega le motivazioni finanziarie alla base della destabilizzazione di quell’ area europea che ha provocato nel 2014/15 la fuga di oltre 1.000 miliardi di dollari  dall’ Europa in seguito alle prime sanzioni alla Russia.
A otto anni di distanza quella crisi si ripete in  forma aggravata e con l’ intervento esplicito e anche militare di USA e alleati.
Rispetto ad allora la questione Ucraina  ha assunto una dimensione mondiale, ha spinto per forti aumenti dei costi di petrolio e gas, comporta l’ isolamento della Russia dall’ Occidente e una grave crisi incombente sull’ Europa e non solo.
E’ molto significativo che la Russia abbia chiesto il pagamento degli idrocarburi in Rubli, spezzando il monopolio del Dollaro, che venda idrocarburi alla Cina in yuan o rubli e che la stessa Arabia Saudita abbia accettato di vendere petrolio in yuan.
I Brics hanno appena annunciato di voler uscire dall’ egemonia del dollaro effettuando transazioni tra di loro con un paniere di monete locali.
Sono tutti fattori che depongono a favore della attendibilità ed esattezza delle tesi del gen. Qiao Liang e del fatto che è in corso una lotta esistenziale per l’ egemonia monetaria del dollaro  con l’ Europa a farne pesantemente le spese insieme ad altre aree del mondo.
Sarebbe importante avere i dati ufficiali sui flussi di capitali generati dalla attuale guerra in Ucraina, ma quelli parziali confermano quanto sostiene il gen. Qiao.
L’articolo è lungo ma ne vale la pena.

1. LA CONGIUNTURA GEOPOLITICA CINESE E IL CICLO DEL DOLLARO
del gen. Qiao Liang - Pubblicato in LIMES n.7 - 2015

Per la prima volta nella storia, la nascita di un impero finanziario

Esistono certamente esperti di finanza che meglio di me potrebbero parlare di economia. Tuttavia io ho intenzione di affrontare il tema da un punto di vista meramente strategico. Iniziamo dal principio. Con l’obiettivo di appropriarsi della leadership geopolitica e valutaria della Gran Bretagna, nel luglio del 1944 gli Stati Uniti promossero la nascita di tre sistemi globali: uno eminentemente politico, le Nazioni Unite; un altro commerciale, il Gatt (successivamente trasformato nel Wto); e uno monetario e finanziario, il sistema di Bretton Woods. Allora proposero ai paesi del globo di agganciare le varie monete nazionali al dollaro che, a sua volta, sarebbe stato agganciato all’oro con un prezzo fisso di convertibilità di 35 dollari per oncia. Nel tempo il modello di Bretton Woods realizzò la leadership del biglietto verde, ma proprio la commutabilità aurea, che impediva di stampare valuta ad libitum, riduceva il margine di manovra della Federal Reserve.

Peraltro, dopo la seconda guerra mondiale la superpotenza decise scioccamente di partecipare alla guerra di Corea e a quella del Vietnam, conflitti finanziariamente assai dispendiosi. In particolare quello vietnamita, che costò all’erario circa 800 miliardi di dollari. Così se nel 1944 gli Stati Uniti possedevano circa l’80% delle riserve auree mondiali, nell’agosto del 1971 queste erano scese a circa 880 tonnellate e i guai stavano per cominciare. Anche a causa delle manovre di alcuni leader internazionali. Come Charles de Gaulle che, sospettoso della tenuta della divisa Usa, ordinò al ministero delle Finanze e alla Banca centrale francesi di convertire in oro l’intero portfolio dacirca 2,3 miliardi di dollari. Molte nazioni emularono l’affondo di de Gaulle spingendo Washington a un passo dal collasso.

Per questo il 15 agosto il presidente Richard Nixon annunciò la fine del sistema aureo. Terminavano gli accordi di Bretton Woods e non era chiaro cosa sarebbe successo. Dopo essere stato usato come moneta di scambio e di riserva per quasi trent’anni, ora il dollaro non era più agganciato all’oro. Come misurare il valore delle merci negli scambi bilaterali? Come fidarsi delle altre valute? Molte nazioni sembravano spaesate. Tra queste Unione Sovietica e Cina, che si rifiutarono di riconoscere le rispettive monete e continuarono a usare il dollaro per i loro commerci. Un’inerzia globale che nell’ottobre del 1973 consentì agli americani di imporre la propria volontà ai membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec): da quel momento la vendita di greggio sarebbe stata effettuata in dollari.

Abbandonato l’oro, la Casa Bianca aveva agganciato la valuta nazionale alla risorsa energetica strategica per eccellenza. Era una mossa tanto semplice quanto razionale: giacché ogni nazione necessita di energia e dunque di petrolio, da quel momento non avrebbe potuto fare a meno del dollaro. Tramontato il sistema aureo, era quella un’altra svolta nella storia monetaria del globo, benché all’epoca se ne accorgessero in pochi. Ancora oggi molti economisti ed esperti di finanza non comprendono che l’evento più rilevante del XX secolo non è stato né la seconda guerra mondiale, né il crollo dell’Unione Sovietica, bensì proprio l’abbandono del gold standard. Nasceva allora l’impero finanziario statunitense che avrebbe attirato al suo interno l’intera umanità.

Per la prima volta, sostrato di una valuta non era più un metallo prezioso, ma la credibilità del governo Usa che se ne sarebbe servito per accrescere la propria influenza e sottrarre ricchezza al resto del mondo. Nel corso dei secoli gli esseri umani hanno realizzato profitti in molti modi – dalla manipolazione del tasso di cambio all’utilizzo di oro o argento, fino all’appropriazione di beni altrui attraverso la guerra – ma d’ora in poi il dollaro, quale semplice cartamoneta, avrebbe garantito a Washington un rapporto costi-benefici estremamente vantaggioso. Tuttora la diffusione all’estero del biglietto verde permette all’America di mantenere sotto controllo il tasso di inflazione, che altrimenti con la possibilità di creare moneta in quantità illimitata raggiungerebbe livelli pericolosi. A questa si aggiunge la frugalità della Federal Reserve, che in cento anni di storia – tra il 1913 e il 2013 – ha stampato «appena» 10 mila miliardi di dollari, proprio per limitarne il deprezzamento.

A partire dal 1954, da quando cioè ha coniato la nuova divisa, la Banca centrale cinese ha emesso invece 120 mila miliardi di yuan, che se convertiti in dollari a un tasso di cambio del 6,2 equivalgono a 20 mila miliardi. Non una grandezza esagerata. Pechino incamera un gigantesco volume di dollari che, a causa dei controlli sul mercato valutario, non possono circolare sul territorio nazionale ed è dunque costretta a stampare una somma di renminbi corrispondente a quella della divisa estera. In futuro però, dopo aver ottenuto il profitto desiderato, gli investimenti stranieri potrebbero volatilizzarsi, lasciando in circolazione una quantità sproporzionata di yuan. Già adesso Pechino ammette che sul territorio nazionale è presente gran parte dei 120 mila miliardi di renminbi stampati. Ecco perché è necessario occuparsi della questione successiva: l’internazionalizzazione della nostra moneta.

La relazione tra il ciclo del dollaro e l’economia mondiale

Con la diffusione globale del dollaro la superpotenza s’è liberata dell’inflazione. Visto che produrre un grande volume di denaro ne causerebbe la perniciosa svalutazione, essa emette buoni del Tesoro per spingerlo fuori dal paese. E quando questo rientra in patria attraverso la vendita del debito inizia un gioco diverso, con gli americani che da una parte producono moneta e dall’altra ottengono prestiti. In sintesi: fanno soldi con i soldi. Ma se è più semplice arricchirsi con la finanza piuttosto che con l’economia reale, chi è disposto a lavorare duramente in industrie dal basso valore aggiunto? Dopo il 15 agosto 1971 gli Stati Uniti hanno gradualmente abbandonato l’economia reale in favore di quella virtuale e sono diventati una nazione vuota. Nel frattempo il pil Usa ha raggiunto i 18 mila miliardi di dollari, ma la componente dell’economia reale non supera i 5 mila miliardi.

Con l’emissione di bond un enorme volume di dollari circolante all’estero torna nei tre cruciali mercati statunitensi: quello azionario, quello dei futures e quello del debito. Il flusso di moneta in entrata e in uscita produce profitti e fa dell’America un impero valutario, oltre che il centro del sistema finanziario globale. Molti pensavano che con il declino dell’impero britannico si fosse conclusa l’esperienza colonialista, ma gli Usa utilizzano il dollaro proprio come malcelato strumento di espansione, controllando le altre economie e trasformandole in colonie. Esistono numerose nazioni – tra queste la Cina – che, seppur sovrane e indipendenti, dotate di una costituzione e di un governo, non riescono ad affrancarsi dal dominio del biglietto verde. La taglia della loro economia è comunque espressa in dollari e parte della loro ricchezza si trasferisce negli Stati Uniti attraverso il commercio e il flusso di valuta.

Possiamo comprendere il fenomeno attraverso lo studio del tasso di cambio del dollaro registrato negli ultimi quarant’anni. Nel 1971 lo sganciamento dall’oro consentì alla Federal Reserve di stampare liberamente moneta, così la circolazione del dollaro aumentò e il tasso di cambio rimase basso fino alla fine degli anni Settanta. Una dinamica senz’altro positiva per l’economia mondiale, poiché una maggiore disponibilità di dollari si tradusse in un aumento del flusso di capitali. Invece di restare in loco, gran parte del denaro si riversò all’estero. Soprattutto in America Latina, dove stimolò gli investimenti e produsse crescita. Fino al 1979, quando la Fed chiuse i rubinetti: il dollaro si rafforzò e la liquidità si ridusse notevolmente, tanto in patria quanto nel resto del globo.

In America Latina gli investimenti diminuirono, la disponibilità finanziaria si esaurì e l’economia entrò in crisi. Nel continente sudamericano ogni nazione provò a escogitare un sistema per mettersi in salvo. Anche l’Argentina, che negli anni Settanta era divenuta, in termini di reddito pro capite, un’economia sviluppata, ma che con lo scoppio della crisi era stata la prima nazione a scivolare in recessione. Giunto al potere in seguito a un colpo di Stato, il generale Leopoldo Galtieri, a totale digiuno di economia, pensò di risolvere la situazione con la guerra. Mise gli occhi sulle isole Malvine, un arcipelago posto a 600 chilometri dalle coste argentine e che da quasi duecento anni con il nome di Falkland Islands appartiene alla corona britannica. Deciso ad appropriarsi delle isole, Galtieri volle interpellare sul tema l’egemone continentale. Nel 1982 alcuni collaboratori del generale si incontrarono a Washington con il presidente Ronald Reagan che, pur consapevole dell’incombenza della guerra, si limitò a definire la questione un affare tra argentini e britannici. «Rimaniamo neutrali», annunciò. Galtieri interpretò l’ambiguità di Reagan come acquiescenza e poco tempo dopo lanciò la campagna delle Malvine che condusse alla veloce occupazione delle isole. Il popolo argentino festeggiò l’evento quasi fosse carnevale, ma la mancata accettazione del fait accompli da parte del primo ministro britannico Margaret Thatcher costrinse il presidente americano a schierarsi. Reagan si tolse la maschera e condannò duramente l’aggressione argentina, mentre Londra inviava nell’Atlantico meridionale la propria flotta che, dopo aver percorso 8 mila miglia marine, riconquistò le Falklands.

Nel frattempo il dollaro cominciò ad apprezzarsi e un eccezionale numero di capitali fece ritorno negli Stati Uniti. Lo scoppio della guerra delle Malvine persuase gli investitori internazionali che l’America Latina era in piena crisi e nel continente il clima economico si guastò. La Federal Reserve sfruttò il momento propizio per annunciare un aumento del tasso di interesse che innescò un massiccio trasferimento di capitali dal Sudamerica verso i tre mercati statunitensi (debito, futures, azionario). L’infusione di denaro generò il primo grande boom borsistico dalla fine del gold standard. Il tasso di cambio del dollaro, che fino ad allora era cresciuto di 60 punti, aumentò in pochi giorni di 120 punti. I mercati Usa non trattennero la nuova liquidità, piuttosto aumentarono i profitti acquistando asset di grande valore proprio in America Latina dove i prezzi erano crollati, saccheggiando ulteriormente le economie locali.

Se nella storia il fenomeno si fosse registrato una sola volta sarebbe da considerarsi una rara coincidenza, ma dato che si ripete con straordinaria puntualità deve trattarsi di un evento artificiale. Eppure al tempo di questo primo ciclo – dieci anni di dollaro debole e sei anni di dollaro forte – gli analisti non ne compresero la scientificità. Superata la fase acuta della depressione latinoamericana, a partire dal 1986 il tasso di cambio del dollaro cominciò a scendere di nuovo. Neppure le crisi finanziarie giapponese ed europea riuscirono ad arrestarne la picchiata. Fino a che, dieci anni più tardi, la divisa tornò ad apprezzarsi nuovamente. Ancora una volta il «dollaro forte» sarebbe durato circa sei anni.

A metà degli anni Ottanta l’Asia era una regione in grande espansione economica, con le cosiddette quattro Tigri a dominare la scena. Molti credevano che l’inedita prosperità continentale fosse il frutto del duro lavoro, dell’intelligenza e del senso per gli affari della popolazione locale. In realtà a stimolare la crescita era stato l’afflusso dei dollari e appena le economie locali divennero abbastanza prosperose, gli americani pensarono fosse giunto il momento di raccogliere quanto seminato. Così nel 1997, dopo dieci anni di dollaro debole, la Federal Reserve tagliò la disponibilità monetaria, causando un sostanziale apprezzamento della valuta nazionale. Numerose industrie asiatiche furono colpite dall’improvvisa assenza di liquidità e alcune non riuscirono a ricapitalizzarsi: erano i segnali del crollo. A dimostrazione che per causare sconvolgimenti non è necessario fare la guerra, ma può bastare una manovra finanziaria. Specie se l’obiettivo è appropriarsi di capitali altrui.

All’epoca centinaia di hedge funds e speculatori del calibro di George Soros, alla guida del Quantum Fund, cominciarono ad attaccare come lupi famelici le economie più deboli della regione (tra queste la Thailandia di cui colpirono duramente la divisa nazionale, il bath). In poco più di una settimana il contagio si estese gradualmente verso sud (coinvolgendo la Malesia, l’Indonesia, le Filippine e Singapore) e verso nord, fino alla Russia. Anche nel caso asiatico gli investitori stabilirono che convenisse abbandonare il continente e mentre la Fed aumentava i tassi d’interesse, trasferirono i loro capitali nei mercati statunitensi, che avrebbero vissuto una nuova stagione rialzista. Come in America Latina, gli Stati Uniti utilizzarono i risparmi accumulati per comprare asset asiatici a prezzi stracciati, mentre le economie locali apparivano devastate. Solo la Cina si salvò.

Ora è il nostro turno

Sei anni più tardi il dollaro tornò debole e, puntuale come la marea, nel 2012 la Federal Reserve ne ha segnalato l’imminente apprezzamento. Nel tempo il trucco è rimasto lo stesso: provocare crisi regionali a scapito delle nazioni indigene. Di recente lo abbiamo visto con l’incidente del Cheŏnan (la nave sudcoreana affondata nel 2010 forse da un missile di P’yŏngyang, n.d.t.); nella disputa per le isole Diaoyu/Senkaku tra Cina e Giappone; e in quella per l’isola Huangyan/Scarborough Shoal tra Cina e Filippine. Ma gli Stati Uniti, che giocavano col fuoco in casa propria, nel 2008 sono stati travolti a loro volta dalla crisi finanziaria. Ne è conseguito un ritardo nel rafforzamento del dollaro, mentre gli scontri per Hungyan e le isole Diaoyu non sembrano aver avuto un rilevante impatto finanziario. Perché tali incidenti sono avvenuti proprio all’inizio del decennale periodo di debolezza della valuta Usa?

Scrutando gli eventi attraverso il prisma del ciclo del dollaro, teso a distruggere le economie antagoniste, possiamo stabilire che è giunto il turno della Cina, da tempo divenuta un magnete per gli investimenti stranieri. La Repubblica Popolare è più di una nazione: la sua economia è grande quanto quella dell’America Latina (in termini di pil lo è perfino di più) ed è pressoché identica a quella dell’intera Asia orientale. Nell’ultimo decennio l’afflusso di capitali stranieri ha consentito a Pechino di crescere a una velocità sconvolgente e di diventare la seconda economia del mondo. Nulla di stupefacente dunque se ora l’egemone globale punta a guastarne il successo.

Per questo a partire dal 2012 si sono susseguite numerose dispute nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, fino allo scontro nel 2014 tra Cina e Vietnam per la piattaforma petrolifera hd-981 e il costituirsi a Hong Kong del movimento Occupy Central. Quando nel maggio del 2014 accompagnai a Hong Kong il generale Liu Yazhou, commissario politico dell’Università nazionale per la Difesa, la protesta appariva in fermento e sarebbe potuta deflagrare già allora, ma nulla è accaduto almeno fino ad agosto. Cosa aspettavano i manifestanti? Proviamo a confrontare la cronologia di Occupy Central con lo sviluppo di un altro evento: la cadenzata fine del quantitative easing (Qe) decisa dalla Federal Reserve. Per tutta l’estate la Banca centrale ha mantenuto il dollaro debole, rendendo inutile l’inizio delle proteste. Solo l’annunciata fine del Qe nel settembre successivo ha provocato il rafforzamento del biglietto verde e inaugurato Occupy Central.

La contesa per le isole Diaoyu, per Huangyan, per la piattaforma petrolifera hd-981, nonché le proteste a Hong Kong, sono quattro eventi potenzialmente esplosivi. Se anche uno solo di questi deflagrasse, il subcontinente cinese non apparirebbe più appetibile agli investimenti. Uno sviluppo che realizzerebbe la strategia di Washington, per cui quando il dollaro si apprezza una regione del globo deve essere investita dalla crisi. Questa volta però, la superpotenza si è schiantata contro la forza della Repubblica Popolare. I cinesi hanno usato il metodo del taijiquan per sventare ciascuno degli attacchi sferrati nella loro regione, con il risultato che quanto auspicato dagli americani non si è realizzato. La situazione è lontana dal punto di rottura e la Fed non può ancora permettersi di alzare i tassi d’interesse.

Eppure, malgrado le difficoltà, gli Stati Uniti non hanno intenzione di rinunciare all’impresa. In simultanea con il sostegno fornito a Occupy Central, hanno cominciato ad agire in altre aree geografiche. A partire dall’Ucraina. All’inizio del 2014 hanno pensato di colpire il paese guidato da Viktor Janukovyč, non certamente un modello di efficienza e trasparenza, perché costituiva un obiettivo facile. Inoltre, un intervento contro Kiev avrebbe arrestato l’avvicinamento in corso tra Unione Europea e Russia e avrebbe influito negativamente sul clima per gli investimenti. Di fatto, come prendere tre piccioni con una fava. Si è verificata così una rivoluzione colorata che si è spinta perfino oltre gli obiettivi dei suoi ideatori. Putin, l’uomo forte di Mosca, ha colto l’occasione per riconquistare la Crimea, ma la mossa è servita agli Stati Uniti per premere sull’Ue e sul Giappone affinché adottassero sanzioni stringenti contro la Russia, colpendo duramente anche l’economia europea.

Qual è il senso dell’offensiva americana? Spesso si tende a interpretare quanto accade soltanto con gli strumenti della geopolitica e non con quelli della finanza. La crisi ucraina ha provocato un netto deterioramento delle relazioni tra Russia e Occidente, mentre le sanzioni contro Mosca hanno rallentato l’afflusso di investimenti verso l’Europa e provocato una massiccia fuga di capitali. Secondo alcuni rilevamenti, negli ultimi mesi più di mille miliardi di dollari avrebbero abbandonato il Vecchio Continente. Tuttavia la duplice offensiva si è dimostrata solo parzialmente efficace. Impossibilitata a toglierli alla Cina, l’America ha sottratto capitali all’Europa. Questi però si sono diretti soprattutto verso Hong Kong. È evidente che gli investitori non credono nella ripresa statunitense e preferiscono affidarsi al Celeste Impero che, ancorché in frenata, può ancora vantare il più alto tasso di crescita del mondo.

L’anno scorso il governo di Pechino ha poi annunciato una sinergia tra le Borse di Shanghai e Hong Kong e gli investitori globali bramano per profittare della novità. In passato i capitali occidentali non osavano accedere al mercato azionario cinese, a causa dei severi controlli sugli scambi tra monete e della difficoltà ad abbandonare il paese. Ma con la creazione della Shanghai and Hong Kong Markets Communication ora possono investire in entrambi i mercati e ritirarsi quando vogliono. Non a caso, mentre più di mille miliardi di dollari si riversavano su Hong Kong, i manifestanti di Occupy Central si rifiutavano di mollare. Obama intendeva sfruttare fino all’ultimo la sommossa per i suoi scopi.

La dipendenza assoluta degli Stati Uniti dai flussi internazionali di capitali risiede nell’abbandono, avvenuto con la fine del gold standard, della produzione manifatturiera e dell’economia reale. Gli americani considerano «spazzatura» le imprese che producono beni dal basso valore aggiunto (sunset industries) e per questo le hanno gradualmente trasferite nei paesi in via di sviluppo, tra questi la Cina. Se si escludono industrie high-tech come Ibm, Microsoft ed altre, il governo Usa ha favorito l’esodo nel settore finanziario del 70% dei posti di lavoro. Divenuto industrialmente vuoto e privo dell’apporto dell’economia reale, il paese vive esclusivamente di economia virtuale. Riesce a produrre soldi soltanto con i capitali stranieri che accedono ai tre mercati interni e poi utilizza i profitti per spennare il resto del mondo. È questo ormai il suo unico sostentamento: chiamiamolo pure American way of life. La superpotenza ha bisogno di assorbire grandi quantità di capitale per sorreggere l’economia nazionale e mantenere il livello di benessere dei cittadini. Pertanto chiunque cerchi di interrompere il flusso in questione è da considerarsi un nemico strategico. Se non comprendiamo questo non possiamo valutare con lucidità la situazione attuale.

II. A CHI HA ROVINATO LA FESTA LA RAPIDA ASCESA DELLA CINA?

Perché la nascita dell’euro scatenò una guerra?

L’euro nacque il primo gennaio del 1999. Tre mesi più tardi, cominciò la guerra del Kosovo. Molti credettero che gli Stati Uniti e la Nato avessero unito le forze per combattere il regime serbo di Milošević che, con il massacro degli albanesi etnici, stava provocando una tragedia umanitaria. Poi, al termine del conflitto, gli americani ammisero che si era trattato di una campagna realizzata congiuntamente dalla Cia e dai media occidentali per colpire Belgrado. Ma la guerra in Kosovo fu realmente combattuta contro la Jugoslavia? Nei giorni del lancio della moneta unica, gli europei apparivano in preda all’euforia. Tanto da fissare a 1,07 il cambio con il dollaro e da partecipare massicciamente alla campagna dei Balcani. Solo quando, dopo 72 giorni di bombardamenti, il regime di Milošević crollò, a Bruxelles compresero che i conti non tornavano. Durante il conflitto l’euro si era deprezzato del 30%, raggiungendo quota 0,82 dollari. Per questa ragione quattro anni più tardi Francia e Germania si sarebbero veementemente opposte alla guerra in Iraq.

Sebbene molti analisti sostengano che le democrazie occidentali non si combattono fra loro, negli ultimi anni si sono registrate numerose guerre finanziarie ed economiche. Una di queste fu proprio quella del Kosovo, nociva tanto per la Jugoslavia quanto per l’euro. D’altronde con la sua nascita la moneta unica aveva rotto l’idillio del dollaro che prima del 1999 rappresentava l’indiscussa divisa globale, usata per l’80% delle transazioni internazionali (oggi lo è per il 60%). Con 27 mila miliardi di dollari l’Unione Europea era divenuta la regione economica più grande del mondo, maggiore della North American Free Trade Area (24-25 mila miliardi di dollari), ed era inevitabile che l’euro erodesse di almeno un terzo le transazioni effettuate dal dollaro (attualmente il 23% degli scambi mondiali avviene nella moneta unica europea). Quando gli Stati Uniti si accorsero che l’euro minacciava il primato del dollaro era già troppo tardi. Imparata la lezione, adesso intervengono per annientare preventivamente qualsiasi avversario.

Cosa vuole ottenere l’America con il suo ribilanciamento strategico verso l’Asia-Pacifico?

In questa fase la Cina costituisce il principale avversario della superpotenza. Gli scontri del 2012 per le isole Diaoyu e Huangyan non sono altro che gli ultimi tentativi di colpire un potenziale rivale. Entrambi gli eventi sono avvenuti nell’area geopolitica cinese e, nonostante non siano riusciti a innescare una fuga di capitali, hanno comunque raggiunto parzialmente gli obiettivi. Nello specifico hanno nuociuto gravemente al trattato di libero scambio dell’Asia nordorientale (Northeast Asian Fta). Se agli inizi del 2012 il negoziato tra Cina, Giappone e Corea del Sud appariva a un passo dalla conclusione (nell’aprile dello stesso anno Pechino e Tokyo avevano raggiunto un’intesa preliminare in tema di scambio di yen e buoni del Tesoro), le successive dispute per le isole hanno reso impraticabili entrambi gli obiettivi. A distanza di tre anni è stato a malapena completato il negoziato bilaterale tra Cina e Corea del Sud.

Gli Stati Uniti temono fortemente il Northeast Asian Fta perché questo, includendo Cina, Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Macao e Taiwan, diventerebbe con circa 20 mila miliardi di dollari di pil complessivo la terza area economica del mondo. Non soltanto. In futuro potrebbe inglobare anche l’area di libero scambio del Sud-Est asiatico e creare così un gigante da oltre 30 mila miliardi di dollari, l’economia più grande del globo. Se poi si unissero anche l’India, le cinque repubbliche dell’Asia Centrale e il Medio Oriente, raggiungerebbe i 50 mila miliardi di dollari di pil, più dell’Unione Europea e del Nafta messe insieme. Come accaduto al dollaro in Nord America e successivamente nel mondo, lo yuan diventerebbe la valuta utilizzata nelle transazioni di un immenso mercato comune.

L’internazionalizzazione del renminbi non avrebbe un significato esclusivamente monetario. Rappresenterebbe anche il volano della politica delle vie della seta che condurrebbe alla tripartizione tra dollaro, euro e yuan del primato valutario globale e alla divisione del mondo in tre blocchi commerciali. Gli americani ne sono perfettamente consapevoli e per questo hanno premuto su Giappone e Filippine affinché si scontrassero con la Cina. Del resto se il dollaro coprisse appena un terzo degli scambi globali, come potrebbero gli Usa mantenere la loro supremazia monetaria? Ancor più importante, come può una nazione priva di un’economia reale restare leader mondiale se perde l’egemonia monetaria? Per capire cosa sta succedendo dobbiamo riconoscere che dietro le recenti difficoltà della Repubblica Popolare si cela la longa manus di Washington, abituata a pensare nel lungo periodo e ora impegnata a disinnescare l’insidia cinese. È questa la principale ragione del perno asiatico, il cui vero obiettivo non è creare un pacifico equilibrio tra la Cina e le potenze locali, quanto stroncare sul nascere le nostre ambizioni.

III. SOLDATI AMERICANI COMBATTONO IN NOME DEL DOLLARO

La guerra irachena e la valuta utilizzata nella vendita del petrolio

Tutti concordano nel sostenere che il potere a stelle e strisce si regge su tre pilastri: denaro, tecnologia e Forze armate. Adesso però possiamo affermare che i pilastri sono soltanto quello monetario e quello militare, con il Pentagono impegnato a sostenere il dollaro. Fare la guerra è assai dispendioso, ma gli Stati Uniti sono in grado di guadagnare denaro combattendo, indipendentemente dalle dolorose sconfitte subite di recente.

Ad esempio: perché hanno invaso l’Iraq? Molti risponderebbero «per il petrolio», ma si sbagliano. Se gli Usa puntavano agli idrocarburi, perché mai dopo l’invasione del paese non hanno ottenuto neanche una goccia di greggio? Perché il prezzo al barile passò tra l’inizio e la fine della guerra da 38 a 149 dollari, gravando sulle tasche dei cittadini statunitensi? La ragione è molto semplice: Iraqi Freedom è stata pensata solo per il biglietto verde. Come ormai sappiamo, per mantenere la supremazia globale la superpotenza ha bisogno che il mondo usi la sua valuta. Per raggiungere tale obiettivo nel 1973 l’amministrazione Nixon si dimostrò scaltra nel costringere l’Arabia Saudita e le principali nazioni dell’Opec a utilizzare il dollaro per la vendita dell’oro nero. E quando gli Stati Uniti attaccano una nazione produttrice di petrolio, il prezzo del greggio schizza in alto e con esso anche la domanda globale della loro divisa. Con la Federal Reserve libera di adottare una politica monetaria espansiva.

C’è anche un’altra ragione per cui George W. Bush volle la guerra. Saddam Hussein non sosteneva al-Qā’ida, né nel paese vi era traccia di armi di distruzione di massa, ma il ra’īs negli anni precedenti aveva peccato di hybris. In particolare, nel 1999 Saddam aveva annunciato l’intenzione di vendere in euro gli idrocarburi iracheni. Una decisione presto emulata dal presidente russo Vladimir Putin, da quello iraniano Mahmud Ahmadi-Nejad e dal leader venezuelano Hugo Chávez. È proprio questo che irritò gli americani. Non a caso il primo decreto emesso dal governo di Baghdad nel dopo invasione stabiliva che l’esportazione del petrolio sarebbe stata effettuata in dollari.

La guerra in Afghanistan e il surplus nella bilancia dei pagamenti americana

Se il conflitto in Iraq fu ordito per mantenere il primato del dollaro, secondo molti osservatori lo stesso non si può dire della guerra in Afghanistan. Anche perché nel paese dell’Asia centrale non vi sono idrocarburi e la campagna fu lanciata immediatamente dopo l’11 settembre per punire al-Qā‘ida e i taliban. Cominciata circa un mese dopo il crollo delle Torri Gemelle, l’Operazione Enduring Freedom fu realizzata in tutta fretta. Il Pentagono non poté fare altro che attingere agli arsenali nucleari, rimuovendo mille testate atomiche dai missili Cruise e rimpiazzandole con testate convenzionali. Dopo rastrellò altri novecento missili e solo allora poté battere l’Afghanistan. Questa è la riprova che la preparazione era stata assai carente. Dunque perché scatenare la guerra tanto velocemente?

All’alba del XXI secolo gli Stati Uniti erano una nazione industrialmente nulla che per sopravvivere aveva bisogno ogni anno di assorbire dall’estero circa 700 miliardi di dollari. Gli attentati dell’11 settembre avevano guastato il clima per gli investimenti come mai accaduto prima e in circa trenta giorni oltre 300 miliardi di dollari avevano lasciato il paese. Il nocciolo della questione era fin troppo chiaro: se l’America non era in grado di difendere il proprio territorio, come poteva garantire la sicurezza finanziaria degli investitori? La guerra doveva dunque servire a riconquistare la fiducia dei mercati. E Washington centrò agilmente l’obiettivo. Quando i primi missili Cruise colpirono Kabul, l’indice Dow Jones guadagnò 600 punti in un solo giorno e al termine dell’invasione circa 400 miliardi di dollari fecero ritorno negli Stati Uniti.

Perché le portaerei saranno sostituite da sistemi globali di attacco rapido

Molti cultori della storia della Marina da guerra si aspettano grandi cose dalla portaerei cinese Liaoning, giacché una grande nazione deve necessariamente possederne almeno una. Tuttavia l’economia globale è sempre più incentrata sulla tecnologia finanziaria e la rilevanza delle portaerei appare in netto declino. L’impero britannico, che al suo apogeo vendeva manufatti in cambio di risorse naturali, necessitava di una Marina potente che garantisse la sicurezza del commercio globale e mantenesse praticabili le vie marittime. Lo sviluppo delle portaerei ottemperava perfettamente a questa funzione. Allora il motto era «la logistica è sovrana» e controllare il commercio via mare significava decidere della ricchezza globale.

Oggi però viviamo in un’èra in cui a regnare sovrano è il denaro. Centinaia, se non addirittura migliaia di miliardi di capitale si spostano da un luogo all’altro in pochi secondi con la semplice pressione di un tasto del computer. La portaerei che solca gli oceani può dominare la logistica, ma priva della stessa velocità, non è in grado di controllare i trasferimenti di valuta. Come fare dunque per stare al passo con la direzione, la grandezza e la velocità di tali flussi alimentati da Internet? Gli americani stanno sviluppando un sistema globale di attacco rapido che, dotato di testate balistiche e caccia supersonici cinque o dieci volte più veloci di un missile Cruise, può colpire qualsiasi luogo in cui si concentrano gli investimenti. Il Pentagono sostiene di poter realizzare in meno di 28 minuti un attacco militare in qualsiasi parte del mondo. E appena un missile Usa centra l’obiettivo scatta puntuale la fuga di capitali. Ecco perché i sistemi globali di attacco rapido sono destinati a sostituire le portaerei. Certo, le piattaforme marittime continueranno a proteggere il transito commerciale e a condurre missioni umanitarie, ma in futuro un armamento sarà valido solo se in grado di incidere sui flussi di denaro.

IV. LA AIRSEA BATTLE: IL NODO GORDIANO DEGLI AMERICANI

Nel tentativo di escogitare il sistema più efficace per contrastare la Cina, di recente il Pentagono ha coniato il concetto di AirSea battle, che a mio parere rappresenta un ineludibile dilemma. Annunciata al summit dell’Aeronautica e della Marina Usa del 2010, tale strategia palesa l’attuale declino delle Forze armate statunitensi. In precedenza la superpotenza era certa che un attacco condotto simultaneamente dal cielo e dal mare contro la Repubblica Popolare l’avrebbe posta in una posizione favorevole. Ciò nonostante, circa quattro anni più tardi la AirSea battle ha già cambiato nome per trasformarsi in «concetto di comune coinvolgimento globale e di mobilità congiunta».

Ora Washington afferma che i due rivali non si faranno la guerra per almeno dieci anni, anche perché studi recenti dedicati allo sviluppo delle Forze armate cinesi hanno dimostrato che le attuali capacità militari degli Stati Uniti non bastano per annullare i vantaggi acquisiti da Pechino nella distruzione dei sistemi spaziali e nell’attacco alle portaerei. Sicché in questa fase il Pentagono si sta industriando per realizzare un sistema di combattimento maggiormente sofisticato, che renda possibile un conflitto armato nel decennio successivo. Uno scenario che potrebbe non avverarsi e che non vorremmo affrontare, ma al quale dobbiamo comunque prepararci, sia sul piano economico che militare.

V. IL SIGNIFICATO STRATEGICO DELLE VIE DELLA SETA

Occupiamoci della passione degli americani per lo sport. Il pugilato in particolare riflette l’idea di forza che hanno: attacco frontale, colpi diretti, movimenti chiari, il knockout che sancisce la vittoria. Al contrario i cinesi, che apprezzano le sfumature e la sinuosità, non puntano a stendere l’avversario, quanto a comprenderne e ad annullarne le mosse. Nella Repubblica Popolare si pratica il taiji, un’arte nettamente superiore alla boxe. Il modello delle vie della seta riflette questo approccio. Storicamente è l’ascesa delle grandi potenze a innescare la globalizzazione: un processo discontinuo, legato a doppio filo all’epopea del soggetto geopolitico dominante. E se con l’impero romano o con quello Qin la globalizzazione mantenne un’estensione regionale, fu con la Gran Bretagna che raggiunse dimensioni realmente universali. Gli Stati Uniti, che si sono sostituiti al Regno Unito, hanno invece realizzato la globalizzazione del dollaro, così le vie della seta, piuttosto che segnalare l’integrazione della Cina in un sistema straniero, rappresenta la fase iniziale di un analogo processo indipendente. Presto il dollaro andrà in declino e la Repubblica Popolare, in quanto grande potenza, soppianterà l’egemone con un suo peculiare modello.

Quella delle vie della seta è di gran lunga la migliore strategia securitaria che Pechino possa adottare contro il ribilanciamento verso Oriente perseguito dal Pentagono. Qualcuno potrà obiettare che solitamente il contenimento di un rivale si fa nella sua stessa direzione, ma il modo più efficace per rispondere al perno asiatico è andare nella direzione opposta. Ovvero muoversi verso Occidente. Non per evitare il confronto, né per paura. Quanto per allentare la pressione esercitata su di noi a Oriente. Le vie della seta rappresentano un progetto composto da priorità diverse. Dal momento che la nostra Marina è ancora debole, dobbiamo competere via terra, con il continente come prima direzione d’attacco e i mari come traiettoria secondaria. In tale contesto l’Esercito cinese, che all’interno del territorio nazionale è di fatto invincibile, ricoprirà un ruolo cruciale e nostro obiettivo primario sarà espanderne le capacità di proiezione all’estero.

L’anno scorso ho affrontato questo argomento al Global Times Forum. Ho spiegato che nello scegliere la Cina come avversario, l’America ha commesso un grave errore. Soprattutto perché, in vista del futuro, il suo rivale è se stessa e finirà per autodistruggersi. Non comprende che il capitalismo finanziario è declinante e che, privilegiando l’economia virtuale, ne ha già drenato i benefici. Inoltre l’innovazione scientifica e tecnologica, nel cui ambito la Silicon Valley rimane l’indiscusso leader mondiale, spingerà all’estremo innovazioni come Internet, big data, cloud che, assumendo vita propria, si trasformeranno nei principali oppositori del capitalismo finanziario e annienteranno la superpotenza.

Alcuni segnali sono già visibili. Ad esempio, l’11 novembre 2014, il giorno che in Cina corrisponde a San Valentino, lo shopping online su Alibaba’s Taobao ha toccato i 50,7 miliardi di yuan, mentre negli Stati Uniti nei tre giorni successivi alla festa del ringraziamento si sono registrate vendite online e di persona per un totale di 40,7 miliardi di yuan. Uno scarto significativo, ottenuto senza tenere conto di siti quali Netease, Tencent, Jingdong, o degli incassi dei centri commerciali. È fin troppo chiaro che una nuova èra è iniziata e che alla Casa Bianca non ne sono consapevoli. Peraltro, su Alibaba tutti gli acquisti sono stati effettuati attraverso il sistema di pagamento diretto Alipay: di fatto la moneta è già stata estromessa dalle transazioni. Che succederà agli Usa, un impero costruito sulla valuta, se il dollaro diventa inutile? È questa la domanda che dovrebbero porsi i nostri interlocutori.

Anche la stampante 3D rappresenta una svolta e causerà una rivoluzione nel settore industriale. E se il commercio e i sistemi di produzione si stanno evolvendo, anche il mondo è destinato a cambiare radicalmente. La storia dimostra che solo le innovazioni determinano un reale mutamento. Fu ai tempi dell’imperatore Qin che il popolo cinese, guidato da Chen Sheng e Wu Guang, cominciò a ribellarsi e in duemila anni di storia si sono registrate decine di rivolte. Ma benché questi movimenti abbiano prodotto numerosi cambi di regime, non sono riusciti a trasformare la natura della società rurale, né i sistemi di produzione o il modo di commerciare.

Lo stesso è accaduto in Occidente con Napoleone, che pur conducendo la Francia a conquistare l’Europa, una volta sconfitto a Waterloo non poté impedire il ripristino dell’ancien régime e della società feudale. Al contrario la rivoluzione industriale, innescata dall’invenzione del motore a vapore, sconvolse il mondo provocando un aumento della produzione, un surplus di manufatti e con questi l’avvento del capitale e dei capitalisti.

Oggi proprio con il tramonto delle valute materiali e l’emergere della stampante 3D l’umanità appare prossima a entrare in una nuova èra. Washington e Pechino partono pressoché alla pari in tema di Internet, big data e cloud. Il punto è stabilire chi saprà muoversi meglio in questa nuova fase storica, anziché prevedere chi riuscirà a sopraffare l’altro. Poiché il suo principale nemico è se stessa, l’America ha individuato nella Cina il rivale sbagliato. Eppure non comprende l’errore. È troppo bramosa di mantenere la propria solitaria leadership e non ha intenzione di condividere la governance mondiale con le altre nazioni. Mentre affrontare insieme questa nuova epoca, piena di incognite e di barriere sconosciute, appare del tutto necessario.

(traduzione di Dario Fabbri attuale direttore di Domino e collaboratore di Mentana su La7)

Il generale Qiao Liang è famoso e molto studiato anche in Occidente per il suo libro “ Guerra senza Limiti-  L'arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione” in cui già nel 1999 prefigurava le guerre contemporane e per il suo recente “ L’ arco dell’ impero - con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità” entrambi nell’ edizione italiana con la prefazione del generale Fabio Mini (disponibili per i nostri lettori alla convenzionata Libreria Einaudi di Trieste).



 

venerdì 10 giugno 2022

PERCHE' LO STOP ALLE AUTO A BENZINA/DIESEL NEL 2035 E' AUTOLESIONISMO EUROPEO - Un articolo di Limes

 


2035: STOP ALLE AUTO A BENZINA/DIESEL 
[di
 Mirko Mussetti]

Il Parlamento dell’Unione Europea ha votato a favore di una proposta della Commissione europea per il divieto totale di nuovi veicoli a benzina/diesel dal 2035. A essere escluse sarebbero anche le auto ibride. 

Il provvedimento non è ancora legge, ma il voto conferma la posizione di Bruxelles per i prossimi negoziati con i paesi dell’Ue sulla norma finale.


Perché conta
: Bruxelles sceglie/impone la deindustrializzazione del Vecchio Continente in assenza di concreti vantaggi ambientali.
La rincorsa a traguardi quasi irraggiungibili mostra una carenza intellettuale delle élite europee, a vantaggio di nazioni in forte espansione tecnologico-industriale, Cina in primis. A rischio non sono solo decine di migliaia di posti di lavoro, ma la stessa autonomia manifatturiera dell’Europa. La parte iniziale della nuova filiera produttiva è infatti controllata dalla Repubblica Popolare sia per quanto riguarda le materie prime (di cui Pechino è monopolista) sia per quanto riguarda il know how correlato. Presentando il programma 863, nel 1986 l’architetto del “socialismo con caratteristiche cinesi” Deng Xiaoping era stato alquanto cristallino: «I paesi arabi hanno il petrolio, la Cina ha le terre rare». La rivoluzione dei rapporti geoeconomici tra Occidente e Impero del Centro accelera sensibilmente in favore del concorrente orientale.

L’auto completamente elettrica è ecologica solo se ci si sofferma al tubo di scappamento, senza una più ampia visione della filiera produttiva. In realtà, ogni prodotto si suddivide in tre macro fasi: produzione, utilizzo, smaltimento.


Produzione. Fabbricare un auto elettrica è di gran lunga più inquinante della realizzazione di un auto a combustibile fossile. Questo è dovuto principalmente alla costruzione di batterie che richiedono grande quantità di terre rare e lo sbancamento di vasti territori. Rispetto al possessore di un veicolo classico, uscendo dal concessionario con una vettura elettrica l’autista “green” è intestatario di una quota maggiore di inquinamento pregresso da ammortizzare in svariati anni.


Utilizzo. L’obsolescenza del veicolo elettrico è maggiore di quella di un’auto con motore a scoppio. Significa sostituire più spesso l’auto (o la sua batteria), finendo inevitabilmente per inquinare di più. La maggiore pesantezza dell’auto elettrica (dovuta alle batterie) impone l’emanazione di maggior quantità di energia per muovere.
Ma da dove viene tutta l’elettricità necessaria? Non necessariamente (anzi, quasi mai) da fonti rinnovabili. Se si ricaricano le batterie con elettricità proveniente da centrali a carbone (che riaprono a causa della crisi del gas), si sposta solo l’inquinamento da valle a monte. Inoltre, a differenza del motore a scoppio che sprigiona in modo efficiente l’energia solo nell’atto del suo impiego, il trasferimento di elettricità dalla centrale alla batteria di un’auto “ecologica” sconta una fisiologica dispersione: uno spreco di energia per la cui produzione si è comunque inquinato. Pensare di attingere da pale eoliche e pannelli solari energia sufficiente per un nuovo parco auto di milioni di unità significa dimenticare che la produzione di tecnologia green ha un costo sull’ambiente a causa delle sue componenti nocive/inquinanti. A questo si aggiunge una forma di inquinamento di cui l’auto a benzina/diesel è sostanzialmente aliena: l’inquinamento elettromagnetico. Con l’invecchiamento delle batterie aumenta il rischio di dispersione di onde.


Smaltimento. Mentre di un’auto classica può essere recuperato, rigenerato o smaltito in modo particolarmente semplice quasi ogni componente, al momento per il veicolo elettrico resta l’enorme problema del disfacimento delle insalubri batterie esauste. L’impatto ambientale rischia di essere enorme, sopratutto per quei paesi più deboli designati come “discarica” dalle nazioni più avanzate (e dalle ecomafie). Non è scontato che tra qualche generazione un’Europa impoverita sia in grado di scaricare i propri rifiuti speciali in altri continenti.


L’Europa rischia dunque di deindustrializzarsi passando dalla dipendenza verso gli idrocarburi (acquistabili su più mercati) all’esposizione pressoché totale verso una Cina monopolista nella vendita di terre rare.
Magari inquinando un po’ di più, magari causando diffusi conflitti regionali per il controllo di preziosi elementi.


per approfondire
: Heavy metal