DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

giovedì 25 giugno 2020

TRA USA E CINA, SINGAPORE PREFERISCE NON SCEGLIERE - La città stato portuale teme le ripercussioni del confronto fra le due potenze. ripercussioni che si sono già viste anche a Trieste - Un articolo di G. Cuscito su Limes



Posizionata sullo strategico Stretto di Malacca e votata al commercio, la città Stato ospita un avamposto militare americano ed è legata economicamente ed etnicamente alla Repubblica Popolare. Perciò teme le ripercussioni del duello tra Washington e Pechino.

di Giorgio Cuscito

Singapore teme il duello tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese.
Tale assunto trova riscontro nelle recenti affermazioni di Lee Hsien Loong, premier singaporiano e figlio del fondatore della città Stato. In un recente articolo su Foreign Affairs, Lee ha affermato che l’Asia “ha prosperato grazie alla Pax Americana” iniziata all’indomani della seconda guerra mondiale, basata sul libero commercio e sull’ombrello di sicurezza per i paesi della regione. Oggi questi ultimi “sono preoccupati in quanto vivono all’incrocio tra gli interessi di diverse grandi potenze, devono evitare di finire nel mezzo o di essere trascinate in scelte spiacevoli”. Secondo Lee, è necessario che la superpotenza e il suo sfidante trovino un modo di convivere, scindendo le aree di cooperazione da quelle di competizione.
Le parole del primo ministro riflettono la geopolitica di Singapore, collocata strategicamente sullo Stretto di Malacca, in cui transitano i principali flussi commerciali ed energetici tra Oriente e Occidente. È uno dei fulcri della finanza globale e il secondo porto al mondo per gestione di container. Ospita un avamposto militare americano e una corposa comunità cinese. E commercia intensamente con la Repubblica Popolare, dalla quale riceve crescenti investimenti nel settore tecnologico.
La guerra dei dazi e l’epidemia di coronavirus hanno pesantemente colpito l’economia di Singapore, che ha registrato una contrazione annuale del 2,2% nel primo trimestre del 2020 e dovrà affrontare nuove elezioni entro aprile 2021. Nel lungo periodo, la rotta di collisione sino-statunitense potrebbe deteriorare ulteriormente il commercio e la finanza globali e – nella peggiore delle ipotesi – generare un conflitto in Estremo Oriente. Tali dinamiche metterebbero in pericolo la stabilità regionale e gli interessi della città Stato, che ha bisogno di preservare le sue connessioni globali politiche ed economiche per proteggere la propria sovranità.
 La Città del Leone

La Repubblica di Singapore, essenzialmente priva di risorse naturali, si trova sulla punta meridionale della penisola malese, tra la Malaysia a nord e l’Indonesia a sud. Il suo territorio comprende 64 isole, di cui la più grande è quella omonima.

Nel XIV secolo, il principe malese Sang Nila Utama approda sull’allora isola di Temasek e fonda il regno di Singapuracioè Città del Leone, dopo aver visto un grande animale aggirarsi nella foresta. Probabilmente si trattava di una tigre malaysiana, ma da quel momento l’isola conserva il nome e il leone diventa parte dell’iconografia singaporiana.

Grazie alla sua posizione geografica, l’isola assume il ruolo di fondamentale snodo commerciale delle rotte marittime delle antiche vie della seta; un punto di approdo dei pirati; meta della prima ondata migratoria dalla Cina. La seconda avviene nel XIX secolo, dopo le guerre dell’Oppio. Oggi, dei 5,7 milioni di abitanti il 74% è di etnia cinese, mentre il resto è principalmente di origine malese e indiana.

Nel corso dei secoli diverse potenze prendono il controllo dell’isola: il sultanato di Malacca, il regno del Siam, quello di Giava, il Regno Unito, il Giappone e la Malaysia. La moderna Singapore si forma nel 1819, quando il britannico Thomas Stamford Raffles installa nel territorio all’epoca malese una base commerciale per conto della Compagnia delle Indie Orientali in cambio del sostegno allo sviluppo delle infrastrutture locali. È un passo decisivo per Singapore, che gradualmente diventa piattaforma dei traffici commerciali regionali, prima marittimi e poi aerei. Per questa ragione diversi luoghi della città sono tuttora intitolati a Raffles.

Singapore diventa parte della Federazione della Malaysia nel 1963. Ma le divergenze politiche con Kuala Lumpur, legate al trattamento privilegiato attribuito da quest’ultima ai malesi, degenerano in violenza. Al punto che due anni dopo Singapore, espulsa dalla Federazione, diviene indipendente sotto forma di repubblica parlamentare.

Da allora, il Partito d’azione popolare (Pap) fondato da Lee Kuan Yew guida incontrastato Singapore tramite un forte controllo sulla vita sociale del paese. L’opposizione, frammentata, non ha mai battuto il Pap. Negli anni successivi, il governo si concentra sulla formazione dell’identità nazionale, sulla protezione della sovranità singaporiana e sul commercio. Nel 1967, Singapore contribuisce alla fondazione dell’Associazione dei paesi del Sud-Est asiatico (Asean) con Indonesia, Malaysia, Filippine e Thailandia per consolidare la propria statura regionale e internazionale.

Dal 1984, nella città Stato vige il concetto di “difesa totale (militare, civile, economica, sociale, psicologica e digitale), basato sul presupposto che la migliore difesa dalla minacce interne ed esterne è collettiva. Il governo locale ha disposto un sistema legale particolarmente rigoroso, intransigente nei confronti della criminalità e della penetrazione di agenti d’influenza stranieri. E ha plasmato Forze armate all’avanguardia; la Marina singaporiana è tra le migliori del Sud-Est asiatico.

Singapore presta particolare attenzione alla propria identità nazionale, per evitare che i dissidi tra gruppi etnici (ciascuno legato alla rispettiva madrepatria) destabilizzino il piccolo paese. La Città del Leone infatti è dotata di ben quattro lingue ufficiali (malese, mandarino, tamil e inglese). Malgrado l’approccio autoritario, non mancano movimenti socio-politici: gruppi di attivisti cercano di far valere le proprie idee muovendosi lungo i confini posti dalla legge locale.

Singapore tra Usa e Cina

Singapore e Usa non sono ufficialmente alleati, ma la loro cooperazione militare è solida. In base a un accordo stipulato lo scorso settembre, le Forze armate americane preserveranno l’accesso alla base navale di Changi fino al 2035. Qui transitano aerei e navi a stelle e strisce per fare rifornimento in occasione delle operazioni attorno a Taiwan e alle isole cinesi negli arcipelaghi Paracel e Spratly. Anche le perlustrazioni e le esercitazioni bilaterali sono frequenti.

Il fatto che Singapore abbia ospitato lo storico summit tra il presidente Usa Donald Trump e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un nel 2018 conferma la sintonia tra Washington e la città Stato. E quanto quest’ultima consideri essenziale ospitare attività politiche di alto livello per affermare i propri interessi nazionali.

La Marina del Regno Unito ha conservato un’installazione logistica a Sembawang (nel Nord dell’isola), retaggio dell’esperienza coloniale. Il personale della struttura è composto solo da otto unità, ma basta a Londra per far approdare a Singapore le proprie navi transitanti per lo Stretto di Malacca. In più, la Città del Leone è membro del Commonwealth e ha siglato un accordo difensivo con Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Malaysia (Five Power Defence Arrangements), il cui scopo è il coordinamento militare.

Sin dai tempi di Deng Xiaoping, Pechino apprezza Singapore per il connubio tra approccio autoritario e modernizzazione economica. L’élite locale, come quella cinese, ritiene che le libertà individuali vengano dopo l’interesse della collettività. Eppure la città Stato è profondamente diversa dalla Repubblica Popolare, per dimensioni geografiche e demografiche. Soprattutto, il suo modello politico non è rigido e centralizzato come quello cinese.

Singapore non disdegna l’interazione con le Forze armate cinesi. Lo confermano il “programma sostanziale” bilaterale sottoscritto nel maggio 2019 e la successiva esercitazione congiunta, focalizzata su attività di antiterrorismo e soccorso.

La tensione tra i due paesi è tuttavia aumentata nel 2016, quando la Cina ha sequestrato veicoli armati singaporiani di ritorno dagli addestramenti bilaterali a Taiwan. La vicenda ha spinto Pechino a non invitare il primo ministro Lee al primo forum sulle nuove vie della seta l’anno successivo. Obiettivo: sottolineare che l’appoggio a Taipei è inammissibile, visto che il governo cinese vuole riconquistarla entro il 2049. La presenza di Lee alla seconda edizione dell’iniziativa svoltasi nel 2019 lascia intendere che le due parti abbiano quantomeno superato l’episodio.

Del resto, il rapporto sino-singaporiano è molto intenso sul piano economico. La Repubblica Popolare è il più importante partner commerciale della Città del Leone e la principale meta dei suoi investimenti. Il primato per quelli elargiti a Singapore spetta invece agli Usa.

Negli ultimi anni, colossi e start-up cinesi hanno accresciuto le proprie operazioni in loco. Huawei ha aperto un laboratorio per l’intelligenza artificiale e lo sviluppo della rete 5G. Baidu ha lanciato da poco il suo servizio cloud locale. Alibaba ha preso il controllo del 50% dell’Axa Tower. Ant Financial, suo braccio finanziario, potrebbe ottenere la licenza per offrire servizi bancari digitali alle imprese nell’ex colonia britannica.

L’obiettivo di queste imprese è eguagliare i rivali americani Facebook, Google e Amazon, già presenti nel Sud-Est asiatico. Inoltre, Pechino vuole integrare la rete 5G made in China con le arterie delle nuove vie della seta in fase di sviluppo in MalaysiaIndonesia, Myanmar e Thailandia. Nel lungo periodo la Repubblica Popolare punta a ridurre la dipendenza delle proprie operazioni marittime militari e commerciali dallo Stretto di Malacca pattugliato dagli Usa e allo stesso tempo smorzare l’influenza americana su questo collo di bottiglia.

Considerata la rilevanza di Singapore a livello regionale, la penetrazione cinese nei suoi gangli digitali si incardina logicamente nella tattica di Pechino. E nei prossimi anni potrebbe acuire la rilevanza della Città del Leone nel duello tra Usa e Cina.



Leggi anche l' articolo: 

TRIESTE PUO' DIVENTARE COME SINGAPORE: CONVERSAZIONE CON ZENO D' AGOSTINO PRESIDENTE DELL' AUTORITA' PORTUALE DI TRIESTE - Da  Limes marzo 2019:  Clicca QUI  o sull' Immagine








domenica 21 giugno 2020

#DibattitoPostCovid - INTERVISTA A PARAG KHANNA - Il Covid-19 ridisegna il mondo- I leader del mondo, chi vince e chi perde, secondo il politologo Parag Khanna, dalla sua casa di Singapore.

Parah Khanna è stato ospite del Limes Club Trieste dove ha presentato il suo libro "La Rinascita delle Città Stato"


INTERVISTA A PARAG KHANNA 
Il Covid-19 ridisegna il mondo- I leader del mondo, chi vince e chi perde, secondo il politologo indiano Parag Khanna, dalla sua casa di Singapore. 

di Orlando Trinchi *pubblicato sull’ ultimo mumero di East-West

‘‘La risposta pandemica ha messo in luce come alcune società quali Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore abbiano saputo esprimere quella valida combinazione di leadership affidabili, competenze indipendenti, consultazione pubblica, preparazione alla crisi e resilienza nazionale che ci aspettiamo dai migliori governi del mondo”.
Le parole del politologo indiano naturalizzato statunitense Parag Khanna – che attualmente vive a Singapore e, confida, avrebbe intenzione di continuare a viverci anche nel prossimo futuro – tratteggiano in maniera decisa e articolata il modello offerto dalle sofisticate e funzionali società asiatiche, al centro di suoi recenti lavori come “La rinascita delle città-stato”. “In che direzione dovrebbe andare l’Europa?” (2017) e “Il secolo asiatico?” (2019), editi in Italia da Fazi. 

Affabile, misurato nei modi, il 42enne esperto di politiche internazionali nonché fondatore e socio amministratore di FutureMap – società di consulenza strategica basata su dati e scenari – riflette sulle diverse modalità attraverso cui si sta affrontando, e, in alcuni casi, gradualmente arginando, la diffusione del Coronavirus, rimarcando la necessità, al riguardo, di un adeguato impiego della tecnologia, che non sia lesivo della privacy e si inscriva in un orizzonte culturale di equilibrio dei poteri e trasparenza democratica.

 Parag Khanna, in base anche a quella multipolarità asiatica da lei analizzata nel suo recente libro The Future is Asian, la Cina – da cui pure il contagio è partito – e la Corea del Sud hanno fornito entrambe risposte differenti ed efficaci all’emergenza. Cosa potremmo imparare dal loro approccio?
I governi di Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, Singapore e Giappone hanno fatto meglio in quanto possiedono sistemi di assistenza sanitaria molto efficienti e sono molto attenti alle fasce più anziane. Non bisogna dimenticare che, circa vent’anni fa, hanno avuto esperienza dell’epidemia di Sars.
I loro cittadini hanno fiducia nel governo, così che, quando i medici professionisti impartiscono istruzioni, abitualmente vengono ascoltati. Ricordiamo che uno ogni dieci o, al massimo, uno ogni venti membri del Parlamento di Singapore è un medico, quindi sa di cosa si sta parlando: la popolazione segue le loro logiche direttive, affidandosi in tal modo a esperti del settore. Mentre l’Occidente guarda all’Asia con una certa superficialità e sufficienza, penso che sia tempo di analizzare in modo adeguato le loro sofisticate società, cosa che ho fatto anche in alcuni miei lavori.
Abbiamo molto da imparare riguardo la gestione di talune problematiche attraverso quella che ho definito la “via tecnocratica”. In un mio libro del 2017, La rinascita delle città-stato (Fazi Editore), ho percorso il mondo alla ricerca delle migliori pratiche di governance inclusiva e reattiva e ho costruito un modello chiamato “tecnocrazia diretta”, che combina insieme un esecutivo a presidenza collettiva e un Parlamento multipartitico di tipo svizzero con un’amministrazione pubblica come quella riscontrabile a Singapore.

In un mondo sempre più interconnesso, anche le risposte a minacce come il Covid-19 dovrebbero essere globali, coerenti e ben strutturate? E, a suo avviso, quando si troverà una cura o un vaccino da impiegare contro il virus, sarà alla portata di tutti o prevarranno i diversi nazionalismi?
A mio avviso, in ambito internazionale non bisognerebbe perseguire il modello di una struttura centralizzata ma, al contrario, pensare a come sviluppare capacità a livello locale, a implementare la connessione di rete, la condivisione di informazioni attraverso i vari organismi preposti, in modo da permettere la diffusione di conoscenze e risorse e preparare ogni Stato a reagire in maniera efficace. Mi ero già soffermato sull’argomento in un mio libro pubblicato nel 2011, Come si governa il mondo (Fazi Editore). Per quanto concerne la disponibilità per tutti del vaccino quando se ne sia trovato uno, ritengo che essa dipenda dalla regolamentazione che ne normerà la produzione. Allo stato attuale, sono stati messi a punto test farmaceutici che possono fornire una lettura definitiva, positiva o negativa, in cinque minuti. Resta tuttavia da valutare il riscontro effettivo dei test, ovvero se, alla prova dei fatti, essi saranno o meno diffusi rapidamente in tutto il mondo. Credo che le industrie farmaceutiche siano ovviamente interessate a riscontrarne l’impatto all’interno del mercato internazionale, poiché esiste senza dubbio competizione fra i vari laboratori. Storicamente, la fase di ricerca di un vaccino è diventata sempre una questione mondiale: abbiamo assistito a partnership fra produttori nazionali e produttori generici, mentre i governi si mostravano impegnati ad assicurare che esso fosse ampiamente disponibile, come dimostra ad esempio il caso della penicillina. Nonostante il nazionalismo si riveli essere oggi un sentimento molto forte, non credo comunque che, in termini di soluzione del problema, avranno la meglio i diversi nazionalismi: è, infatti, in corso un’intensa condivisione di risorse, apparecchiature di test, ventilatori e mascherine chirurgiche.

Quanto hanno influito, per quanto concerne la situazione attuale, gli errori di comunicazione e le iniziali sottovalutazioni circa l’entità del problema?
Gli errori di comunicazioni hanno avuto una forte incidenza. Si è verificata un’attiva soppressione di informazioni da parte della Cina – e ciò è stato ampiamente criticato e continua a essere oggetto di critiche – ma, successivamente, anche nei governi nazionali si sono imposti errori di comunicazione che hanno alimentato la confusione: è quanto, con tutta evidenza, è accaduto negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in tutti quei Paesi in cui si stanno rincorrendo ogni giorno nuove comunicazioni che promuovono la quarantena, il lockdown, invitando i cittadini a stare in isolamento. Possiamo rilevare come, nei Paesi asiatici, il distanziamento sociale sia considerata la medicina migliore, il metodo più valido di prevenzione, che può essere attuato senza alcuna assistenza medica, semplicemente mantenendo le distanze per un paio di settimane e stando da soli: ciò ha depotenziato la rapida trasmissione del virus.

Per far fronte all’emergenza Coronavirus, alcuni Stati europei hanno quasi completamente chiuso le loro frontiere, in deroga agli Accordi di Schengen. Pensa che un tal modello di Stato chiuso basato sull’autosufficienza possa sopravvivere anche alla fine della situazione drammatica che stiamo vivendo?
Un mio libro del 2016, Connectography (Fazi Editore), era dedicato a spiegare come le infrastrutture e le catene di approvvigionamento costituiscano un nuovo livello di geografia funzionale che trascende la nostra geografia politica dei confini. Stiamo assistendo quotidianamente al modo in cui questa connettività consente tanto i flussi di merci quanto la diffusione di malattie, mentre l’attrito delle frontiere si pone a garante della nostra sicurezza. In questo caso, tuttavia, il punto non è bloccare le frontiere quanto comporre fra loro le varie politiche adottate. Se il mondo applica politiche di distanziamento sociale, e intendimenti di questo tipo vengono estesi in ogni Paese, allora non ci sarà bisogno di chiudere i confini perché la gente non avrà alcun bisogno di attraversarli. Credo che stiamo aderendo a una visuale dall’alto in basso, invece di adottare una prospettiva orizzontale. I governi avrebbero dovuto concordare nello stesso tempo di applicare questo genere di politiche, in modo da non dover sbarrare i confini, mentre, ora che alcuni focolai epidemici si sono dimostrati peggiori delle aspettative, alcuni leader, come quello spagnolo, hanno avanzato richieste di chiusura delle frontiere.

Potrebbe l’utilizzo della tecnologia delle reti mobili essere utile a fermare il progredire del contagio? Come potrebbe accordarsi con il diritto alla privacy?
Sì, assolutamente. Ciò che alcuni Paesi hanno fatto è stato identificare le persone basandosi sul riconoscimento di pattern, tracciare i loro spostamenti, per accertarsi che stiano seguendo i provvedimenti di quarantena e altre misure analoghe. Ritengo siano misure estremamente importanti per avere successo nella lotta al virus. Possiamo rilevare diversi modi in cui la tecnologia è stata usata in tal senso. A Singapore utilizziamo un’app chiamata Trace Together; è anonima e gli unici dati che vengono utilizzati, qualora una persona risulti positiva al test, permettono di determinare, attraverso l’uso della registrazione dei segnali Bluetooth, se tale persona si sia trovata nelle tue vicinanze nelle ultime due settimane: solo in questo caso verresti contattato, in quanto potresti essere stato esposto a un possibile contagio. Penso che sia un’applicazione molto utile e sensata: la tecnologia non dev’essere intesa, ovviamente, come un’infrazione nei confronti della privacy della gente quanto invece nell’ottica di protezione del bene comune. Tutti i dati ottenuti, infatti, verranno immediatamente distrutti nel momento in cui non saranno più necessari. Credo che, per quanto attiene all’uso delle tecnologie mobili, ciò crei il giusto equilibrio fra il bene pubblico e la privacy.

Riguardo l’uso di metodi di sorveglianza digitale annunciato dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, lo storico e scrittore Yuval Noah Harari ha dichiarato in un’intervista alla CNN: “Uno dei rischi di questa epidemia è che giustifichi misure di sorveglianza biometrica, che dopo la crisi rimangano con noi”. È d’accordo?
In termini di sorveglianza, dobbiamo evidenziare come dagli attentati dell’11 settembre 2001 la tecnologia abbia fatto molti passi in avanti: nel corso dei vent’anni successivi agli attacchi terroristici si sono diffuse in ogni dove telecamere di sorveglianza che permettono l’identificazione facciale e altri strumenti analoghi sono stati adottati nell’ambito della sicurezza. Contestualmente, si è manifestato il rovescio della questione, attraverso riflessioni sui privilegi e i poteri che i governi hanno o dovrebbero avere. Ciò riguarda anche quanto potrebbe avvenire in questo momento. Penso che la questione interessi la regolamentazione della tecnologia piuttosto che problematiche inerenti la salute, la sicurezza o l’economia. Chiaramente, tutto ciò chiama in causa la fiducia riposta nella tecnologia, e la fiducia nella tecnologia è costantemente aumentata perchè la tecnologia si è costantemente evoluta. Vi sono Paesi in cui è presente uno spiccato desiderio di autorità che altrove sconfina nell’abuso, ed è perciò necessario un dialogo molto determinato a livello nazionale che riguardi la cultura della democrazia, della trasparenza e dei meccanismi di equilibrio dei poteri, in modo da evitare possibili scorrettezze da parte dei governi. Molti Paesi ci stanno dimostrando proprio ora di non essere quel genere di posto.

I ricercatori del Global Preparedness Monitoring Board rilevano l’arretratezza delle tecnologie impiegate per la produzione di vaccini anti-influenzali, in quanto “sono costose e richiedono molto tempo”. Si deve fare di più al riguardo?
L’uso della tecnologia in campo medico segna un deciso discrimine fra il passato e il futuro. In passato, con tutta evidenza, non abbiamo fatto abbastanza sforzi nel produrre rapidamente vaccini, a causa del ritardo della tecnologia e delle relative conoscenze. Oggi, invece, la tecnologia conosce un maggiore utilizzo: vi è un rilevante ed esteso impiego dell’intelligenza artificiale nel campo della genomica mentre, all’interno dei laboratori, il lavoro è computerizzato e interessa la simulazione e la produzione di vaccini. Ciò ci è di grande aiuto in questa circostanza e potrà ovviamente continuare a esserlo in futuro. Si riscontra un diffuso apprezzamento circa il ruolo che le tecnologie mediche rivestono nell’alveo delle scienze biologiche e bisognerebbe senz’altro indirizzare ad esse maggiori investimenti.

L’ intervistatore Orlando Trinchi [ROMA] giornalista e illustratore, collabora con diverse testate nazionali, fra cui Eastwest.eu, Left e Il Dubbio. Fra i suoi libri, i saggi: La spettralità delle cose (Maremmi Editori, 2011) e Giorgio Manganelli e il mondo infero (Edilet, 2016).

Il politologo indiano naturalizzato statunitense Parag Khanna vive e lavora a Singapore. Specialista in relazioni internazionali, Khanna ha fondato FutureMap, una società di consulenza strategica basata su dati e scenari.

Tutti i video del nostro convegno con Parag Khanna cliccando QUI o sulla foto 
PARAG KHANNA e il Presidente ZENO D' AGOSTINO al nostro convegno del 28 novembre 2017


lunedì 15 giugno 2020

#DibattitoPostCovid - LA DOTTRINA DELL SHOCK PANDEMICO: così i big digitali usano il virus per conquistare il mondo - di Naomi KLEIN - Iniziamo un dibattito sul futuro post Covid-19


Iniziamo un dibattito sul futuro post pandemia e sulle conseguenze sociali e geopolitiche della medesima con un articolo della famosa studiosa Naomi KLEIN e pubblicato in Italia dalla rivista L' Espresso. In esso l' autrice sostiene delle tesi "forti" e preoccupanti ma notoriamente è tutt' altro che una "complottista" anzi ha evidenziato nel suo ormai classico "No Logo" di 20 anni fa linee di tendenza che vediamo realizzate. Proseguiremo poi con un articolo di Parag Khanna.

"La dottrina dello shock pandemico: così i big digitali usano il virus per conquistare il mondo"

Le grandi aziende della Silicon Valley come Amazon e Google stanno approfittando dell'emergenza per intrecciarsi con la politica e imporre un futuro a loro immagine e somiglianza. L'allarme della studiosa e attivista canadese

DI NAOMI KLEIN

Pubblicato su L’ Espresso dell’11 giugno 2020

Durante uno dei briefing sul coronavirus il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo per qualche fugace istante ha sostituito l’espressione triste che aveva da settimane con qualcosa che somigliava a un sorriso. «Siamo pronti e ci siamo con tutte le nostre forze», ha detto il governatore. «Siamo newyorkesi e siamo ambiziosi. Abbiamo capito che il cambiamento non è solo imminente, ma che può anche essere un’opportunità se realizzato nel modo giusto».

A ispirare queste parole insolitamente positive di Cuomo era stato un collegamento video con l’ex ad Google, Eric Schmidt, che si era unito al briefing del governatore per annunciare la sua nuova posizione nella commissione che dovrà reimmaginare la realtà dello Stato di New York post-Covid, con un’enfasi sull’integrazione permanente della tecnologia in ogni aspetto della vita civile. «Le nostre priorità», ha detto Schmidt, «sono focalizzate sulla sanità, sull’istruzione in remoto e sulla banda larga. (...) Dobbiamo individuare soluzioni già pronte che possano essere accelerate e che utilizzino la tecnologia per fare meglio». Per non lasciare dubbi su quanto siano solo benevoli gli obiettivi dell’ex top manager di Google, lo sfondo mostrava un paio di ali d’angelo dorate.

Proprio il giorno prima, Cuomo aveva annunciato una collaborazione analoga con la Bill e Melinda Gates Foundation per sviluppare «un sistema educativo più intelligente». Definendo Gates un «visionario», Cuomo ha spiegato che la pandemia ha creato «un momento nella storia in cui possiamo incorporare e far avanzare le idee (di Gates, ndr). Tutti questi edifici, tutte queste aule fisiche... che senso hanno, con tutta la tecnologia che potete mettere a disposizione?», ha chiesto, all’apparenza solo in maniera retorica.

C’è voluto un po’ di tempo perché prendesse forma, ma ora comincia a emergere qualcosa che somiglia molto a una vera e propria dottrina dello shock pandemico. Mentre i corpi ancora si accumulano, il futuro che prende forma - e che è molto più high-tech di quello innescato dalle catastrofi precedenti - considera le nostre settimane di isolamento fisico non una dolorosa necessità per salvare vite umane ma un laboratorio permanente e altamente redditizio di un futuro senza contatto fisico.

Anuja Sonalker, l’ad di Steer Tech, una società con sede nel Maryland che vende tecnologia per parcheggi automatizzati, ha riassunto il nuovo scenario rimodellato sul virus: «Cominciamo a osservare un marcato trend verso la tecnologia che non prevede il contatto tra gli esseri umani. Gli esseri umani sono a rischio biologico, le macchine no».

È un futuro nel quale le nostre case non saranno più spazi personali ma terminali di connettività digitale ad alta velocità. E così anche le nostre scuole, i nostri studi medici, le nostre palestre e, se così vorrà lo Stato, le nostre prigioni.

Naturalmente, per molti di noi, già prima della pandemia le case stavano diventando il luogo di lavoro dove non si stacca mai e la principale sede dell’intrattenimento. L’incarcerazione in comunità sorvegliate si stava già diffondendo a macchia d’olio. Nel futuro che si sta costruendo rapidamente, queste tendenze sembrano accelerare.

È un futuro nel quale ai privilegiati quasi tutto sarà consegnato a domicilio - virtualmente tramite streaming e tecnologia cloud o fisicamente tramite veicoli a guida autonoma - e il tutto poi sarà “condiviso” su una piattaforma gestita da qualcuno. È un futuro che impiegherà molti meno insegnanti, medici e autisti; che non accetterà contanti o carte di credito (con il pretesto di controllare i virus); nel quale il trasporto pubblico diventerà striminzito e l’arte dal vivo sarà sempre più scarsa. È un futuro che, si dice, sarà gestito dall’intelligenza artificiale, ma che in realtà sarà tenuto insieme da decine di milioni di lavoratori anonimi nascosti nei magazzini e nei data center, ammassati in uffici dove si moderano i contenuti o in fabbriche di elettronica, nelle miniere di litio, nei complessi industriali, nei mattatoi e nelle prigioni, esposti alle malattie e all’ipersfruttamento. È un futuro nel quale ogni nostra mossa, ogni nostra parola, ogni nostra relazione sarà rintracciabile, tracciabile, con una miniera di dati immagazzinati grazie a una collaborazione senza precedenti tra governi e giganti della tecnologia.

Se tutto ciò vi suona familiare, è perché già prima del Covid questo futuro fatto da app e lavori saltuari ci era venduto come conveniente, rilassante e personalizzato.

Molti di noi, tuttavia, erano preoccupati: per la sicurezza, la qualità e la disuguaglianza insite nella telesanità e nella scuola online o per come i dati sulla geolocalizzazione e il commercio senza contanti intaccano la nostra privacy e rafforzano la discriminazione razziale e di genere. Eravamo preoccupati sui dati nelle mani di piattaforme di social media senza scrupoli che avvelenano l’ecosistema informativo e la salute mentale dei nostri figli; per le “città intelligenti” piene di sensori che sostituiscono l’amministrazione locale; per i buoni posti di lavoro che queste tecnologie hanno spazzato via e per i brutti posti di lavoro che hanno prodotto in serie.

Soprattutto, però, eravamo preoccupati per la ricchezza e il potere, così minacciosi per la democrazia, che si stavano accumulando nelle mani di poche società della tecnologia molto brave ad abdicare da qualsiasi responsabilità rispetto alla distruzione che si lasciano dietro nei settori in cui dominano: i media, il commercio al dettaglio, il trasporto.

Oggi molte di quelle fondate preoccupazioni sono state spazzate via da un’ondata di panico e da una sempre più accettata distopia - al cui riposizionamento d’immagine si sta lavorando in fretta e furia. Di fronte a un contesto straziante di morti in massa, tutto ciò ci è riproposto con la dubbia promessa che queste tecnologie sono l’unica via possibile per salvaguardarci dalla pandemia e la chiave indispensabile per proteggere noi e i nostri cari.
Grazie a Cuomo e alle sue partnership miliardarie (tra cui una con Michael Bloomberg per testare e per tracciare i potenziali malati), lo Stato di New York è diventato lo scintillante showroom di questo cupo futuro, la cui reale portata va ben oltre i confini di uno Stato o un Paese.

Nel punto d’ombra di tutto ciò c’è Eric Schmidt. Ben prima che negli Stati Uniti si comprendesse l’entità della minaccia Covid-19, Schmidt aveva già intrapreso una aggressiva campagna di pubbliche relazioni e lobbying per promuovere proprio la visione di quella società alla Black Mirror, il potere di costruire la quale Cuomo gli ha appena affidato. Al centro di questa visione, che vuole che scuole, ospedali, studi medici, polizia e altri corpi militari deleghino molte delle loro funzioni principali a società della tecnologia private, c’è la perfetta integrazione dei governi con un piccolo numero di giganti della Silicon Valley.

La sta promuovendo Schmidt dal suo ruolo duplice di presidente del Defense Innovation Board, che consiglia il Dipartimento della Difesa sui modi per incrementare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in campo militare, e di presidente della potente Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale, la Nscai, che fa da consulente al Congresso sui «progressi nell’intelligenza artificiale e i relativi sviluppi nel machine learning e altre tecnologie associate» al fine di affrontare «esigenze di sicurezza nazionale ed economica degli Stati Uniti, incluso il rischio economico». In entrambi questi organismi siedono numerosi e potenti ceo e dirigenti della Silicon Valley e di aziende quali Oracle, Amazon, Microsoft, Facebook e, naturalmente, Google. Schmidt, che detiene più di 5,3 miliardi di dollari in azioni Alphabet (la società madre di Google), sta sostanzialmente “collaudando” Washington per conto della Silicon Valley.

Lo scopo principale è di ottenere un aumento esponenziale degli investimenti pubblici per la ricerca sull’intelligenza artificiale e le infrastrutture tecnologiche come il 5G, che andrebbero a beneficio diretto delle società nelle quali Schmidt e altri membri di questi consigli detengono ampie partecipazioni.

Dapprima a porte chiuse con i legislatori, poi nei dibattiti e nelle interviste pubbliche, l’argomento principale della tesi di Schmidt è che poiché il governo cinese è pronto a spendere illimitate risorse pubbliche per costruire una infrastruttura di sorveglianza ad alta tecnologia, la posizione dominante degli Stati Uniti nell’economia globale si sta avvicinando a uno sfaldamento. Il Centro per l’informazione sulla privacy elettronica (Electronic Privacy Information Center) è recentemente riuscito a visionare, grazie al Freedom of Information Act, una presentazione della Nscai di Schmidt di un anno fa, del maggio 2019. Le diapositive sottolineano in maniera allarmistica quanto la Cina stia tentando di superare gli Usa in una serie di settori, tra cui l’Ai per la diagnosi medica, i veicoli autonomi, le infrastrutture digitali, le città intelligenti, lo sharing nel trasporto e l’eliminazione di ogni contatto dalle transazioni commerciali.

Le ragioni che spiegherebbero il vantaggio competitivo della Cina vanno dal vasto numero di consumatori che fanno acquisti online fino al fatto che lì «non sussiste un settore bancario tradizionale» e ciò le ha permesso di saltare la fase dei contanti e delle carte di credito e di lanciare un gigantesco mercato dell’e-commerce e dei servizi con pagamenti digitali. Inoltre la grave carenza di medici ha spinto il governo a una stretta collaborazione con le aziende della tecnologia, quali Tencent, per promuovere la medicina “predittiva” che l’Ai abilita. La presentazione sottolinea anche come in Cina queste società siano «abbastanza forti da superare rapidamente barriere normative» mentre quelle statunitensi si impantanano nell’ottemperare alle leggi e nell’attesa di approvazioni.

Come principale fattore del vantaggio competitivo cinese, la Nscai indica la volontà della Cina di stringere partenariati pubblico-privati per la sorveglianza di massa e la raccolta di dati. La presentazione ne rimarca il «sostegno e coinvolgimento espliciti del governo cinese, per esempio, nell’implementazione del riconoscimento facciale», e spiega che «la sorveglianza è uno dei principali e migliori clienti dell’Ai» e che, inoltre, «la sorveglianza di massa è una fonte di dati fondamentale per il deep learning», uno dei sottosettori dell’intelligenza artificiale.

Una diapositiva intitolata “I dati detenuti dallo Stato: sorveglianza = città intelligenti” fa notare quanto la Cina, assieme al principale concorrente di Google, la cinese Alibaba, stiano bruciando le tappe.

Vale la pena di soffermarsi su ciò, perché la società madre di Google, Alphabet, ha promosso esattamente questa stessa visione tramite la sua divisione Sidewalk Labs scegliendo un lungo tratto del lungomare cittadino di Toronto come laboratorio e prototipo per una “smart city”. Il progetto Toronto è stato concluso dopo due anni di incessanti polemiche relative alla enorme quantità di dati personali che Alphabet-Google avrebbe raccolto.

Cinque mesi dopo questa presentazione, a novembre, la Nscai ha sottoposto al Congresso una bozza di rapporto che ha destato ulteriori preoccupazioni riguardo all’esigenza che gli Usa si adeguino al ritmo cinese quanto su queste tecnologie. «La nostra competizione è strategica, l’Ai ne sarà al centro. Sono in gioco il futuro della nostra sicurezza nazionale e della nostra economia», si legge.

A fine febbraio, Schmidt ha spostato il target della sua campagna sull’opinione pubblica, forse dopo aver capito che gli aumenti di budget richiesti non sarebbero stati approvati senza un maggiore sostegno generale. In un editoriale del New York Times intitolato “Dirigevo Google. Ora la Silicon Valley potrebbe perdere la gara con la Cina”, Schmidt, suonando ancora l’allarme contro il pericolo giallo, sollecitava «partnership tra governo e industria come non si sono mai viste». Secondo Schmidt la Cina è in corsa per diventare il primo innovatore al mondo. E l’unica soluzione perché gli Usa non perdano la sfida è l’investimento pubblico. Lodando la Casa Bianca per aver chiesto un raddoppio dei finanziamenti per la ricerca nell’Ai e nella ricerca quantistica, Schmidt scrive: «Il nostro piano dovrebbe prevedere un raddoppio dei finanziamenti in questi campi mentre costruiamo la capacità istituzionale nei laboratori e nei centri di ricerca. (...) Il Congresso dovrebbe soddisfare la richiesta del presidente di portare al massimo livello degli ultimi 70 anni il finanziamento della R&S nella difesa e il Dipartimento della Difesa dovrebbe capitalizzare su questa nuova ondata di risorse per costruire capacità di assoluta avanguardia nell’Ai, la quantistica, l’ipersonica e le altre aree di priorità tecnologica».

Ciò accadeva esattamente due settimane prima che l’epidemia del coronavirus fosse dichiarata pandemia, e in tutti quei documenti non c’era alcun accenno a un obiettivo di vasta portata dell’alta tecnologia riguardo alla protezione della salute dei cittadini Usa, ma solo la necessità di non lasciarsi superare dalla Cina.

Nei due mesi successivi, Schmidt, con un aggressivo esercizio di riposizionamento di immagine, ha riproposto le sue richieste: un’ingente spesa pubblica in ricerca e infrastrutture per l’alta tecnologia, numerosi «partenariati pubblico-privati» nel settore della Ai e un allentamento delle tutele della privacy e della sicurezza. Ora queste misure (e altre) sono presentate al pubblico come l’unica speranza di proteggersi dal virus che resterà tra noi per gli anni a venire.

Anche le altre società della tecnologia con le quali Schmidt ha profondi legami si sono tutte rifatte l’immagine come benefattori, protettori della salute pubblica e generosi difensori dei lavoratori essenziali ed “eroi quotidiani” (molti dei quali, peraltro, come i driver e gli autisti, perderebbero il posto di lavoro se queste aziende l’avessero vinta).

A meno di due settimane dall’inizio del lockdown a New York, Schmidt ha scritto un editoriale per il Wall Street Journal in cui chiariva che la Silicon Valley aveva tutte le intenzioni di sfruttare la crisi per una trasformazione permanente. Due settimane dopo la pubblicazione dell’editoriale, Schmidt ha descritto il programma di scuola a distanza durante l’emergenza sanitaria come «un gigantesco esperimento di apprendimento remoto». Durante lo stesso discorso (all’Economic Club di New York) ha anche richiesto più telemedicina, più 5G, più commercio digitale e il resto della sua lista dei desideri. Tutto in nome della lotta contro il virus. Schmidt ha poi aggiunto: «Il vantaggio delle corporation è che la loro capacità nella comunicazione, nella gestione della medicina, nel raccogliere informazione è profonda. (...) Le persone dovrebbero essere contente che queste aziende abbiano raccolto i capitali, fatto gli investimenti e costruito gli strumenti che ora stiamo usando e che ci hanno aiutato».

Fino a poco tempo fa contro queste società della grande tecnologia stava montando un movimento di opinione pubblica. I candidati presidenziali democratici parlavano apertamente di spezzettarle. Amazon aveva dovuto ritirare i piani per costruire un quartier generale a New York dopo una feroce opposizione locale. Il progetto Sidewalk Labs di Google passava da una crisi all’altra. In breve, è stata la democrazia - quello scomodo impegno pubblico teso a progettare le istituzioni e gli spazi pubblici critici - a rivelarsi il principale ostacolo alla visione che Schmidt porta avanti, prima dalla sua posizione al vertice di Google e Alphabet, poi da presidente delle due potenti commissioni consulenti del Congresso e del Dipartimento della Difesa. Dal punto di vista di uomini come Schmidt e il capo di Amazon, Jeff Bezos, questo scomodo esercizio di potere da parte dei cittadini e degli impiegati dei colossi della tecnologia, come rivelano i documenti della Nscai, ha rallentato marcatamente la corsa dell’intelligenza artificiale e tenuto lontane dalle strade flotte di auto e camion a guida autonoma, ha evitato che le cartelle cliniche delle persone diventassero un’arma nelle mani dei datori di lavoro contro i lavoratori, impedito che gli spazi urbani si tappezzassero da dispositivi e software di riconoscimento facciale e molto altro.
Ora, con la pandemia e nella paura sul futuro che essa ha provocato, queste aziende hanno individuato un nuovo momento favorevole per spazzare via l’impegno democratico, e ottenere lo stesso tipo di potere che hanno i loro concorrenti cinesi, che possono permettersi il lusso di agire senza ostacoli quali diritti civili o dei lavoratori.

Le cose intanto si muovono rapidamente. Il governo australiano ha stipulato un contratto con Amazon per immagazzinare nel suo cloud i dati della controversa app di tracciamento del coronavirus. Anche il governo canadese ha stipulato un contratto con Amazon per la fornitura di attrezzature mediche, sollevando dubbi sul perché non l’abbia fatto con il servizio postale pubblico. In una manciata di giorni, all’inizio di maggio, Alphabet ha rilanciato una iniziativa del Sidewalk Labs per rifare l’infrastruttura urbana con 400 milioni di dollari di “seed capital”. Josh Marcuse, il direttore esecutivo della Commissione per l’innovazione nella difesa Usa (quella presieduta da Schmidt) ha annunciato che lascerà l’incarico per assumere il ruolo di responsabile della strategia e l’innovazione per il settore pubblico globale a Google: in altre parole, per aiutare Google a capitalizzare su alcune delle opportunità che lui e Schmidt hanno creato grazie al loro sforzo lobbista.

Che sia chiaro: la tecnologia è certamente una parte fondamentale di come nei prossimi mesi e anni si proteggerà la salute pubblica. La domanda, tuttavia, è: tale tecnologia sarà soggetta alla disciplina della democrazia e del controllo pubblico o sarà lanciata nel bel mezzo della frenesia dello stato di eccezione, senza lasciare il tempo per un dibattito sulle questioni cruciali che modelleranno la nostra vita per i decenni a venire? Per esempio, se stiamo effettivamente constatando quanto sia importante la connettività digitale in tempi di crisi, le reti e i nostri dati devono davvero stare nelle mani di attori privati quali Google, Amazon e Apple? Se il pubblico sborsa notevoli risorse per buona parte della connettività, non dovrebbe anche possedere con e controllare le reti e i dati? Se Internet è essenziale nella nostra vita, come chiaramente è, non dovrebbe essere considerato alla stregua degli altri servizi pubblici e non avere scopi di lucro?

Se da una parte non c’è dubbio che la possibilità di comunicare in teleconferenza sia stata un’ancora di salvezza in questo periodo di blocco, è anche doveroso un dibattito sul fatto che a lungo andare forse la migliore protezione sia quella delle persone. Si prenda l’istruzione: Schmidt ha ragione nel dire che le aule sovraffollate rappresentano un rischio per la salute, almeno fino a quando non avremo un vaccino. Perché allora non assumere un numero doppio di insegnanti e dimezzare le classi? Perché non garantire che ogni scuola abbia un infermiere? Ciò creerebbe posti di lavoro indispensabili in una fase di crisi.

I risultati del periodo di apprendimento remoto inoltre sono stati tutto fuor che rassicuranti. Oltre all’ovvia discriminazione sociale che ha colpito i bambini che a casa non hanno accesso a Internet o a un pc, sussistono domande importanti su quanto l’insegnamento remoto sia valido per molti bambini con disabilità, come richiesto dalla legge. E non esiste una soluzione tecnologica al problema di fare scuola in un ambiente domestico sovraffollato e-o abusivo.

Il quesito non è se le scuole debbano cambiare di fronte a un virus altamente contagioso. Il problema, come sempre in questi momenti di shock collettivo, è l’assenza di un dibattito pubblico sulla forma che dovrebbero prendere questi cambiamenti e chi ne dovrebbe beneficiare. Le società della tecnologia private o gli studenti?

Le stesse domande devono essere poste sulla sanità. Evitare gli studi medici e gli ospedali durante una pandemia è di buon senso, ma la telemedicina ha enormi limiti. Occorre discutere, sulla base di informazioni documentate, quali siano i pro e i contro del destinare le scarse risorse pubbliche alla telemedicina, invece di investirle negli infermieri per qualificarli e dotarli di dispositivi di protezione. E forse più urgente ancora è trovare il giusto equilibrio tra le app di tracciamento dell’infezione e l’idea di un corpo sanitario di comunità che darebbe lavoro a milioni di persone garantendo che tutti dispongano delle risorse materiali e del supporto necessario per tenere in quarantena in sicurezza le persone.

In entrambi i casi, affrontiamo scelte reali e difficili. Si tratta di scegliere se investire nelle persone o nella tecnologia. Perché la brutale verità è che, così come stanno le cose, è improbabile che si possano fare entrambe le cose. Le scuole, le università, gli ospedali e i trasporti sono davanti a scelte esistenziali.

Traduzione di Marina Parada
Pubblicato su L’ Espresso dell’
11 giugno 2020


·         Chi è Naomi Klein, link biografia: https://it.wikipedia.org/wiki/Naomi_Klein

·         I libri di Naomi Klein pubblicati in Italia:

No logo. Economia globale e nuova contestazione, Milano, Baldini & Castoldi, 2001. ISBN 88-8490-007-7; 2002. ISBN 88-8490-254-1; Milano, BUR Rizzoli, 2010. ISBN 978-88-17-04390-8
·         Recinti e finestre, Milano, Baldini & Castoldi, 2003. ISBN 88-8490-298-3
·         Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri, Milano, Rizzoli, 2007. ISBN 978-88-17-01718-3
·         The Take, film, 2004
·         Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile (titolo originale: This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate), Milano, Rizzoli, 2015. ISBN 978-88-17-07927-3
·         Shock politics. L'incubo Trump e il futuro della democrazia, Milano, Feltrinelli, 2017. ISBN 8807173263.