DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

sabato 29 maggio 2021

CARI ITALIANI, DI VOI NON CI FIDIAMO - Cosa pensano gli USA del Porto di Trieste e degli Italiani. (da Limes rivista di geopolitica)

 


Cosa pensano gli USA del Porto di Trieste:

Ma come vi può essere saltato in mente di offrire ai cinesi il porto di Trieste? Chiedo scusa, ma avete dimenticato che quello scalo di Vienna su cui i rossi di Tito stavano per mettere le mani ve lo abbiamo restituito noi, nel 1954? E non avete la pazienza di studiare il collegamento ferroviario e stradale fra Vicenza (Aviano) e Trieste – ai tempi miei faceva abbastanza schifo, ma non importa – che fa di quel porto UNO SCALO MILITARE, all’intersezione meridionale dell’estrema linea difensiva Baltico- Adriatico?

E cosa pensano degli Italiani in genere:

"Siete un popolo di individualisti, pronti a cambiare casacca alla prima occasione. Ve lo ricorda chi ha perso il nonno sul fronte di Cassino, per liberarvi. Incredibili le vostre aperture ai russi e ai cinesi. Eppure Trieste ve la salvammo noi."

di Americanus pseudonimo di un alto funzionario dei servizi informativi americani.

Pubblicato in: IL TRIANGOLO SÌ - LIMES n°4 - 2021  10/05/2021

1. Ho tra le mani la lettera di nonno a papà, datata Palermo 27 agosto 1943. Quando capita – ormai di rado – che mi debba occupare di Italia, è la mia prima e definitiva fonte: «Mio caro Figlio, non avrei mai immaginato che un paese invaso potesse abbracciare con tanta passione chi entrava armato a casa sua. Un popolo che soffre la miseria più nera, con soldati vestiti di stracci e armati di fucili da museo, ci ha accolto come fossimo i salvatori. (…) Mi piacerebbe fosse così anche quando metteremo finalmente piede nella terra del bisnonno, ma ho il presentimento, conoscendoci, che non sarà esattamente così». 

Nonno Frankie non arrivò mai a Fürth. Colpa del fuoco amico, sul fronte di Cassino. Ma sono certo che sarebbe stata tutt’altra storia. Me lo confermarono i suoi commilitoni della 3a Divisione di Fanteria della Settima Armata, che nell’aprile 1945 dovettero spendere cinque giorni di feroci corpo a corpo per aver ragione dei nazi asserragliati attorno a Norimberga. Un giorno il vecchio generale «Iron Mike» O’ Daniel, che aveva comandato nonno ai tempi dell’Operazione Husky, recitò a me ragazzino la lista dei 130 caduti – e per ognuno aveva una parola – nella battaglia contro un esercito che aveva già perso la guerra. Ma che non voleva perderla «all’italiana». 

Il secondo ricordo legato all’Italia è di quando servivo nell’intelligence militare, in Afghanistan, durante quella stupida guerra. Più le cose andavano male, meno «amici e alleati» erano disposti a condividere con noi la gestione di quell’inferno. Non mi stupii perciò quando il mio omologo italiano – un poco spiritoso ufficialetto sardo – mi bussò alla porta, con aria sorprendentemente arrogante, per comunicarmi che Roma aveva deciso di riportare a casa un certo reparto e non aveva affatto intenzione di sostituirlo. Me lo disse nel suo «inglese» scoppiettante di consonanti, quasi fosse un ordine e non un preannuncio di ritiro. Sorrisi. Poi, guardando altrove, cominciai a carezzare la Colt M1909 del nonno, che tengo sempre poggiata sul tavolo, in bella mostra. Dopo una studiata pausa, osservai: «Ok, per noi è indifferente. Che ci siate o no, non cambia niente». Livido, l’ufficialetto sardo salutò e se ne andò senza chiudere la porta. «Well done, grandpa», sussurrai, e riposi la Colt nella fodera. 

Oggi che una rivista italiana di geopolitica – non so bene cosa sia la geopolitica, ma so di averla fatta nei miei lunghi anni in quello che adesso si usa chiamare (con mio orrore) Deep State – mi chiede di spiegare ai suoi lettori che cosa voglia l’America dall’Italia, la prima cosa che mi viene da rispondere, lisciando quel foglio spiegazzato per decifrare la scrittura di nonno, è: «Nulla che già non abbiamo». La seconda: «Ma gli italiani che accolsero papà a braccia aperte come un liberatore sanno che casa loro gliela abbiamo riconsegnata noi? E che se non ce l’avessimo fatta sarebbero governati dai nipoti del mio prozio, impenitente cofondatore del Partito nazionalsocialista in Baviera, che chissà quante volte avrà diviso il tavolo in birreria con Adolf Hitler? Non lo so. Sono però sicuro che gli avrebbero consegnato le chiavi dell’appartamento con meno entusiasmo ma con lo stesso servilismo». 

Ma veniamo al dunque. Il dunque che può stabilire un ufficiale a riposo, attivo in Italia alla fine della guerra fredda. Quando il vostro magnifico paese, quasi dalla sera alla mattina, precipitò d’un colpo nella gerarchia dei nostri interessi. Dalla strategia al turismo. Non era più spazio di frontiera fra noi e i sovietici, al quale dovevamo impedire di scivolare nel campo avverso. E dove quasi tutti, in pubblico e in privato – quanti rossi compresi! – non facevano che ripeterci quanto ci volessero bene (e giù liste di parenti e amici italoamericani). E quei pochi, ma non pochissimi, che sapevano di quale ramo dell’amministrazione fossimo, ce ne volevano ancora di più. Certamente ci volevano più bene, a noi dell’intelligence militare, di quanto ce ne volessero gli sbirri dell’Fbi che in quegli anni si davano da fare per occupare i nostri spazi, visto che con la fine della guerra fredda sarebbe scoccata la loro ora di gloria (continua ancora, in Italia, mi dicono i ragazzi in servizio che mi capita d’incontrare). 

Dunque vogliamo quel che abbiamo. Che cosa abbiamo? Il controllo militare e di intelligence del territorio, in forma pressoché totale. E quel grado, non eccessivo, di influenza sul potere politico – soprattutto sui poteri informali ma fondamentali che gestiscono di fatto il paese. Quello che voi italiani ci avete consegnato nel 1945 – a proposito, se qualcuno di voi mi spiegasse perché ci dichiaraste guerra, gliene sarei davvero grato – e che non potremmo, nemmeno volendolo, restituirvi. Se non perdendo la terza guerra mondiale. In quel caso si riaffaccerebbero dalle vostre parti quei miei cugini, che ricordano la battaglia di Norimberga soprattutto nella versione del Gauleiter Karl Holz. Non frequento questi parenti, ma da quel che nonno mi diceva di suo fratello, non credo di essermi perso nulla.

In concreto – e vengo, penso, a quella «geopolitica» di cui parlate mentre noi la facciamo – dell’Italia ci interessano tre cose. La posizione (quindi le basi), il papa (quindi l’universale potenza spirituale, e qui forse come cattolico e correligionario del papa emerito sono un poco di parte) e il mito di Roma, che tanto influì sui nostri padri fondatori. 

La posizione. Siete un gigantesco molo piantato in mezzo al Mediterraneo. Sul fronte adriatico, eravate (e un po’ restate, perché quelli non muoiono mai) bastione contro la minaccia russa, oggi soprattutto cinese. Ma come vi può essere saltato in mente di offrire ai cinesi il porto di Trieste? Chiedo scusa, ma avete dimenticato che quello scalo di Vienna su cui i rossi di Tito stavano per mettere le mani ve lo abbiamo restituito noi, nel 1954? E non avete la pazienza di studiare il collegamento ferroviario e stradale fra Vicenza (Aviano) e Trieste – ai tempi miei faceva abbastanza schifo, ma non importa – che fa di quel porto uno scalo militare, all’intersezione meridionale dell’estrema linea difensiva Baltico-Adriatico? E forse dimenticate che una delle più grandi piattaforme di comunicazioni, cioè di intelligence, fuori del territorio nazionale l’abbiamo in Sicilia, a Niscemi, presso lo Stretto che separa Africa ed Europa, da cui passano le rotte fra Atlantico e Indo-Pacifico?



Il papa. Noi cattolici americani siamo una corposa minoranza, ma sempre minoranza, mai troppo rappresentata nelle sfere del potere. Anche perché siamo americani prima, cattolici poi. Ricordo quando in famiglia – siamo quasi tutti militari, e siamo così fieri di aver servito la patria per generazioni – ci si raccontava di come in quanto cattolici fossimo guardati con un certo sospetto da alcuni comandanti. Pensavano che potessimo dar retta al papa su questioni che con la fede non c’entrano nulla, come il dovere di difendere l’America. Ma per noi – eccoci di nuovo alla geopolitica (o sbaglio?), la Chiesa di Roma era anzitutto Chiesa occidentale, solo dopo universale. E per questo eravamo, siamo e resteremo a Roma, anche con un papa argentino mezzo Perón e mezzo Che Guevara. E che ci detesta, ricambiato, e Dio sa quanto ne soffro.

Il mito di Roma. Ho letto sui banchi di scuola di quanto Washington e Jefferson, Madison e Hamilton o perfino quel mezzo francese di Benjamin Franklin si ispirassero al modello romano, alla repubblica ma anche all’impero, che poi sempre repubblica era. E per quella breve stagione di passaggio da un millennio all’altro in cui ci sembrava di essere soli in vetta al mondo – poi ci vennero le vertigini, e oggi ne sentiamo gli effetti – ci sentivamo la Nuova Roma. Purtroppo non ho potuto studiare il latino, che mio nonno masticava perché ai suoi tempi nei curricula delle migliori accademie era materia d’insegnamento. Eppure quante volte mi sono scoperto passeggiando fra le rovine di Roma, a tendere i sensi quasi potessi ancora ascoltare le voci di Bruto o di Cesare, di Augusto o di Virgilio. E quanto avrei voluto che gli eterni testimoni della Roma Antica mi spiegassero a che punto della parabola fosse la potenza della Nuova!

2. Ma torniamo a noi. Perché da qualche tempo sentiamo di non essere più soli in Italia. I nostri nemici di quasi sempre e di oggi, ma soprattutto di domani – insomma russi e cinesi – hanno messo gli occhi su di voi. Noi non possiamo permetterci il lusso di perdere l’Italia. O solo di concedere che diventi un caotico condominio le cui stanze dovremmo spartire con altri. Magari anche con quei cugini di Baviera. 

È questo il punto. È ormai chiaro che un paese al contempo così sgangherato e attraente sia diventato il ventre molle del nostro spazio di influenza, il luogo in cui si inseriscono – o vorrebbero inserirsi – i nostri principali sfidanti, compresa quella Germania che dopo la seconda guerra mondiale si vuole pressoché innocua. Noi siamo presi da molte altre questioni, sparse per il mondo, geograficamente distanti da quello che chiamano lo Stivale. Ma non possiamo abbassare la guardia in Europa, continente tuttora decisivo per ogni sogno di potenza, perla della nostra epopea, luogo d’origine di gran parte dei miei concittadini. 

Soprattutto in Italia, nazione bisognosa, sensibile alle lusinghe altrui, non soltanto economiche. Per questo abbiamo assistito con preoccupazione – ancorché nascosta – agli eventi degli ultimi anni. 

Mi riferisco alla firma apposta nel 2019 dal vostro governo sul memorandum per le nuove vie della seta. Per voi un semplice accordo commerciale, per noi il segnale d’uno scarrellamento, più o meno ingenuo, verso un campo ostile. Adesione mascherata a una globalizzazione alternativa alla nostra, cui si è aggiunta la possibilità di cedere a Pechino il controllo di infrastrutture sensibili. Insomma, che Roma fosse pronta a vendersi ai cinesi per un pugno di denari – peraltro una frazione della cifra sognata dall’opinione pubblica – mi fa rabbrividire. Come giustificare tanta disponibilità a trattare con il nostro principale nemico? Siete evidentemente immemori del fatto che fummo noi a restituirvi la libertà. 

Soltanto la conoscenza del vostro approccio alle cose del mondo, notoriamente leggero, ha stemperato la delusione – non foste italiani dovremmo parlare di alto tradimento. Eppure resta un campanello d’allarme. 

3. Lo stesso vale per la Russia. Nel corso della storia l’Italia ha conservato relazioni fin troppo amichevoli con Mosca, ma un ulteriore sviluppo negativo si è registrato di recente. Nel 2020, durante la prima ondata dell’epidemia, abbiamo seguìto con notevole emozione l’approdo a Pratica di Mare di centinaia di militari russi. Sotto i nostri occhi il Belpaese accoglieva una potenza che combattiamo da decenni, al di là della guerra fredda. Le immagini dei soldati del Cremlino che attraversavano la Penisola – dal Lazio fino alla Lombardia – per offrire il loro presunto aiuto alla popolazione assalita dal virus mi ha confermato quanto labile sia la condizione dell’Italia. Mi è tornato alla mente il periodo trascorso tra Roma e Milano, pochi mesi dopo la resa dei sovietici. 


Allora la Russia aveva perso ogni potere di influenza. Perfino l’Italia, che negli anni precedenti mostrava una popolazione per metà comunista, pareva immune dalla sua fascinazione, finalmente consapevole di appartenere soltanto al fronte occidentale.

Certo, in questo periodo noi americani manchiamo di solidarietà – l’amministrazione federale si sta dedicando quasi esclusivamente alla salute dei nostri cittadini – ma scambiare l’interessato intervento del Cremlino per sincera partecipazione ci ha lasciato perplessi. Fino a consigliare l’attuale Casa Bianca di colpire Mosca con nuove sanzioni per smascherarne le surrettizie intenzioni, per ricordare agli alleati – italiani compresi – la vera natura dell’Orso slavo. 

A dirla tutta, potremmo imputare all’Italia anche d’aver abbracciato il trumpiano tentativo di dimostrare che le interferenze russe nelle elezioni presidenziali statunitensi fossero un’invenzione degli apparati, ovvero del mio ufficio. Allora Palazzo Chigi sfruttò il doloso atteggiamento del newyorkese per rilanciare la propria russofilia, senza curarsi dei nostri avvertimenti. Ma comprendiamo che l’occasione è stata fornita da un nostro impresentabile concittadino, dunque dobbiamo riconoscervi attenuanti speciali.

4. Addirittura più complicato è il dossier tedesco. Da molti anni la sopravvivenza economica dell’Italia dipende dalla terra dei miei avi, con la vostra manifattura esistente dentro la catena del valore teutonica. Sicché conviene interrogarsi sulla futura collocazione dello Stivale, adesso che Berlino prova a salvare l’Eurozona offrendo ai mercati la propria solidità finanziaria, mentre continua a flirtare con cinesi e russi, soggetti indiscutibilmente autoritari, nonostante i nostri richiami. 

Premetto: siamo lieti che la Repubblica Federale, dopo decenni di incomprensibile austerità, abbia deciso di spendersi per i suoi vicini, soprattutto per l’Italia. Ma sarebbe ingenuo non chiedersi quale sarà il prossimo passo. 

Forse la Germania difetta di acume geopolitico – mio nonno raccontava di un paese fatalmente incline all’autolesionismo – né pare mossa da una concreta brama di potenza, tuttavia si erge da tempo a perno del continente. Probabilmente siamo ossessionati dai tedeschi, sindrome causata dall’aver combattuto due guerre mondiali e (parzialmente) una guerra fredda contro di loro, oltre che dall’origine germanica della maggioranza degli americani, ma nel corso della storia la Germania ha spesso realizzato svolte inaspettate. Oggi una nuova metamorfosi berlinese trascinerebbe con sé l’Italia, tra l’inconsapevolezza dei suoi abitanti. Cosa potrebbe accadere se la cancelleria provasse a tramutare in strategica la sua sfera di influenza economica? Che effetto avrebbe sul continente e sulla Penisola? Cosa potrebbe chiedere in cambio per aver difeso la moneta che condividete? 

Sarebbe imperdonabile non contemplare una tale evoluzione che,
 unita ai movimenti delle altre potenze lungo lo Stivale, renderebbe l’Italia perfino meno affidabile del passato. Vero, l’avvento di Mario Draghi sta provocando la riscoperta di un ostentato atlantismo, con tanto di segnali avversi lanciati a cinesi e russi. Su tutti: l’utilizzo del golden power per preservare alcune strategiche aziende italiane e una maggiore attenzione alle infiltrazioni dell’intelligence moscovita. Ma abbiamo imparato da tempo quanto sia rischioso fidarci di voi.

Nonno Frankie mi ha insegnato che gli italiani sono sempre disposti a cambiare casacca, anche in modo repentino. La postura del Belpaese non può ritenersi definitiva, anche quando pare scolpita nella pietra. Troppo mutevole è la vostra natura. Siete eccezionali individualisti capaci di trascendere ogni collocazione, di smentire ogni definizione. Così la vostra complessa posizione geografica finisce per innescare improvvisi scatti in avanti, pericolosi flirt, rovinosi rinnegamenti. 

Specie nella congiuntura attuale, segnata dal galoppante declino economico, dalla necessità di agganciarsi a un treno altrui per rimanere in vita, dalla volontà di offrirvi al miglior offerente senza contemplare le inevitabili conseguenze geopolitiche, ritenute tollerabili in un clima da ultima spiaggia. 

Realtà che ci impone di restare vigili, anche adesso che, impegnati su molteplici fronti, vorremmo occuparci d’altro. Niente di più pericoloso di una nazione tanto affascinante quanto disperata, posta al centro del Mediterraneo, appesa al cuore d’Europa. Probabilmente stavolta non saremo chiamati a combattere la tirannia tra la Sicilia e le Alpi, né lo Stivale tornerà a informare la nostra politica estera. 

Ma intendiamo conservare quanto l’Italia ci offre sul piano strategico. Patrimonio conquistato da mio nonno e dai suoi commilitoni con straordinario sacrificio, da difendere contro vecchi e nuovi antagonisti, mentre guardiamo altrove. 

(traduzione di Guido Ancelotti)