L’arresto della vicepresidente di Huawei dimostra l’inconsistenza della tregua appena raggiunta da Usa e Cina in campo commerciale. Si tratta di una mossa inaudita, gravida di conseguenze ed esemplare dell’intensità dell’offensiva a tutto campo di Washington contro Pechino.
Meng Wangzhou è un pezzo da novanta dell’economia cinese. È figlia di Ren Zhengfei, fondatore del colosso delle telecomunicazioni, un’azienda centrale nella strategia di Xi Jinping per diminuire la dipendenza tecnologica dagli Usa, requisito necessario per dotarsi dello status di grande potenza. La reazione di Pechino, che ha chiesto “l’immediato rilascio della detenuta”, fa capire la sensibilità del soggetto.
Fermata dalle autorità canadesi a Vancouver su richiesta di Washington, Meng attende l’estradizione negli Stati Uniti. I motivi dell’arresto non sono stati ancora ufficializzati. Potrebbero riguardare la vendita di tecnologia sensibile all’Iran, in violazione delle sanzioni del Tesoro e del Congresso Usa, lo spionaggio industriale di cui la Repubblica Popolare è costantemente accusata oppure i timori per la sicurezza nazionale che ha portato l’amministrazione Trump ad ammonire circa la diffusione di prodotti Huawei in patria. Già quest’anno Washington aveva temporaneamente bandito l’azienda Zte, accusata di rifornire Iran e Corea del Nord.
L’arresto di Meng è l’apice di un’intensa campagna di contenimento dell’impresa cinese da parte degli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati. Quest’anno Washington ha bandito Hauwei dagli appalti governativi, Australia e Nuova Zelanda le hanno vietato di sviluppare le reti 5G nazionali e nel Regno Unito il gestore delle telecomunicazioni sta eliminando la tecnologia dell’azienda dalle reti 3G e 4G. Il Canada è l’ultimo membro dell’Anglosfera e dell’alleanza dei Five Eyes ad accodarsi. Nella sfida alla Cina, evidentemente gli Usa esigono disciplina dalle nazioni sorelle. Non è detto che qualora l’offensiva proceda anche al resto del mondo non siano imposte precise scelte di campo.
Il fatto che il fermo sia avvenuto il 1° dicembre, nelle stesse ore in cui Donald Trump e Xi Jinping siglavano la tregua di 90 giorni nella guerra commerciale, dimostra che a Washington si dibatte non se ma come fermare la Cina. Il messaggio è chiarissimo: gli Usa non hanno intenzione di allentare la presa. Non è altrettanto chiaro se il destinatario, oltre alla Repubblica Popolare, sia lo stesso Trump, cui lo Stato profondo comunica che non è il momento di desistere dal tentativo di far deragliare la locomotiva cinese.
Perché la posta in gioco di questa partita non è commerciale, tecnologica o limitata allo spionaggio. Cina e Stati Uniti si contendono il primato globale.
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