DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

giovedì 23 febbraio 2017

IL "GRANDE GIOCO" RINASCE NEL MEDITERRANEO - UN ARTICOLO DI LIMES IN ESCLUSIVA PER I NOSTRI LETTORI


Il caos euro-africano-mediorientale, gli interessi commerciali della Cina e le mosse strategiche della Russia materializzano nel Mare Nostrum una competizione fra imperi simile al Great Game ottocentesco fra Mosca e Londra.
di Mario Rino Me
Doppiato il XX secolo, definito dal filosofo Isaiah Berlin “il più terribile della storia dell’Occidente”, nel corso del XXI assistiamo a un momento storico di transizione per la ridefinizione dei ruoli e delle gerarchie del potere nei nuovi equilibri geopolitici.

Gli scenari del nuovo millennio confermano uno degli assunti del Novecento, secondo cui la sfida a una grande potenza non può che venire da un’altra aspirante allo stesso rango. Peraltro, alle tensioni indotte nelle dinamiche internazionali da crisi e conflitti, si aggiungono sfide di natura socio-ambientale.

Tra i primi tre grandi del pianeta per potere militare (Stati Uniti da una parte, Cina e Russia dall’altra) si è palesata una diversa visione del  mondo. Gli ultimi due sostengono una sorta di diritto di avvalersi nel relativo estero vicino di proprie sfere di influenza, ritenute invece superate dalle controparti occidentali. Questa diversità di vedute sottende dispute territoriali e, di conseguenza, situazioni di attrito molto difficili da superare con l’attuale dialettica dai toni da guerra fredda.

Queste forme di imposizione di sistemi politici o di controllo furono sdoganate a Yalta, dove nacquero, per poi consolidarsi nel tempo come consuetudine, gli equilibri del secondo dopoguerra. Per contro, con l’eccezione degli accordi di Dayton del 1995 sulla ex Jugoslavia, gli assetti geopolitici emersi dalla fine della guerra fredda non sono stati oggetto di trattati internazionali.

Nel primo caso si è vissuta una condizione di equilibrio strategico che Raymond Aron definiva “pace impossibile [ma] guerra improbabile”. Nel secondo, lo stato del mondo è caratterizzato da una crisi della capacità di gestione globale.

Su scala planetaria, la risoluzione delle dispute, sia pacifica che coercitiva, appare un miraggio di fronte alla polarizzazione e frammentazione degli attori. Anche perché l’impianto delle Nazioni Unite, come la sua antenata Società delle Nazioni, si regge sulla totale fiducia riposta sulla forza morale dell’autorità centrale onusiana. Purtroppo, non dotandola di un potere coercitivo articolato su una propria forza militare, si è finito col ripetere lo stesso errore del passato: il Consiglio di sicurezza e il segretario generale, condizionati dalla volontà degli Stati, sono bloccati in “una paralisi globale”.

Alle difficoltà socio-politiche-economiche di un’Unione Europea che perde pezzi (vedi il Brexit) fanno riscontro sponde meridionali e orientali tormentate da guerre civili. Libia, Iraq e Siria hanno riacceso i riflettori sull’arco storico delle crisi, che scuote una vasta area dall’Africa Occidentale all’Asia Centrale, comprensiva del sottostante hinterland dal Golfo di Guinea fino al Corno d’Africa.

In quest’area si è inserita una minaccia dichiarata, portata avanti dai militanti del fanatismo politico-religioso del sedicente Stato Islamico, con epicentro mediorientale ma con diramazioni mondiali, che il sistema internazionale stenta a debellare.

Viviamo dunque – e in base alle previsioni vivremo – anni strategicamente e storicamente intensi, che denotano la fine di un ciclo.

In seguito alle crisi economico-finanziarie di fine decennio scorso, si è determinato uno spostamento geopolitico verso l’Asia, dove ricompaiono gli eredi di quel mondo che il lungo dominio occidentale aveva messo in disparte dalla “grande storia”. La Persia dei Safavidi, l’India dei Moghul, la Cina dei Qing e l’impero ottomano erano potenze formidabili all’inizio del XVIII secolo, quando nasceva l’impero russo.


Nel frattempo aveva preso corpo una particolare fase di espansione delle potenze europee, sospinta dalle esigenze di accaparramento di risorse e mercati nonché da una sorta di missione civilizzatrice: il mondo del colonialismo, popolato anche da avventurieri, mercanti spesso organizzati in compagnie (come quella delle Indie) che riuscivano spesso a condizionare l’azione della madrepatria.

Oggi una serie di eventi dà l’impressione di un ritorno all’indietro delle lancette dell’orologio. Dopotutto, l’impresa di Cristoforo Colombo non era nata all’insegna del “buscar el levante por el poniente“? Dopo la conquista portoghese dello stretto di Malacca, nel 1512-15 il cronista lusitano Tomé Pires scriveva: “Il signore che possiede lo stretto di Malacca può prendere Venezia per la collottola”.

I fatti gli diedero ragione: nel Mediterraneo la Sublime Porta era subentrata sin dal 1453 all’impero bizantino e, in una sorta di continuità storica, Maometto II e i suoi successori avevano assunto anche il titolo di Kayser-i-Rûm (cesare dei romei). L’espansione della potenza ottomana verso la Siria, l’Egitto, fino allo Yemen consentì il controllo delle vie del traffico carovaniero e l’esercizio del monopolio sul proficuo commercio con le Indie e l’Estremo Oriente. Combinandosi con il riorientamento dei traffici dei paesi sull’Atlantico verso le distese oceaniche, ciò consentì l’accesso senza intermediari ai beni e alle terre agognate.

La conseguenza fu la marginalizzazione del Mediterraneo: mentre Genova reagiva diventando la più importante piazza finanziaria fino al sorpasso da parte di Amsterdam, per Venezia, passata l’euforia della vittoria a Lepanto del 1571, iniziò una lunga decadenza.

Oggi gli eredi delle predette nazioni asiatiche sono riemersi. E si inseriscono nei vuoti di potere lasciati dalla superpotenza statunitense, attualmente in una fase di riequilibrio all’insegna dello slogan America first. Mentre l’amministrazione Trump assume forme “isolazioniste” con i paesi del Vecchio continente, le correzioni di rotta su Cina, Giappone, Israele e Iran puntano verso la continuità della politica estera americana. Resta da vedere se e quanto tutto ciò durerà.

Anche l’Europa sta cambiando: oramai giunta a un punto di non ritorno e messa alla cappa da forti venti contrari, per sopravvivere discute se sia il caso di diventare un processo a geometria variabile. Il tema di grande dibattito è ora una possibile cooperazione strutturata permanente in materia di difesa: il sessantennale dei Trattati di Roma del marzo 1957 potrebbe dare l’avvio alla realizzazione di qualcosa di simile alla agognate Forze armate europee.

In Medio Oriente, l’opera di frantumazione da parte dello Stato Islamico dell’ingessatura frontaliera e le politiche neo-ottomane del presidente turco Erdoğan sembravano averci riportato all’epoca in cui quello spazio aveva confini molto più labili ed era dominato dalla Sublime Porta.

Poi l’irruzione della Russia in Siria, e, richiesta come mediatrice, in Libia
 ha impresso una svolta alla soluzione dei due conflitti. In questo nuovo quadro geopolitico, una troika inedita, composta da Iran, Russia e Turchia, convocando le parti della guerra civile in Siria ad Astana, ha inteso presentarsi come foro ristretto in sostegno all’azione delle Nazioni Unite.

Per la prima volta dal secondo dopoguerra, l’Occidente è escluso dalla cabina di regia. Come scriveva un nostro politologo un secolo fa, “tutto è fluido ed evanescente come il miraggio del deserto, la realtà di oggi, la menzogna di domani […] i confini si spostano in un incessante ondeggiamento di tribù e capi in perpetua lotta di tendenze religiose e ambizioni territoriali”.

Tutto ciò si combina con il revival cinese delle Vie della seta per restituire centralità e pertinenza al Mediterraneo, cosa che gli europei del Nord stentano a riconoscere. La gravità delle tensioni e delle guerre civili richiedono invece attenzione strategica, a partire dal fenomeno strutturale delle migrazioni. Laddove la strategia, oltre a coniugare i fini con le risorse a disposizione, è anche definizione di priorità e di orizzonte temporale per realizzarle. Per separare l’importante dall’accessorio, le funzioni vitali dai rami secchi. E individuare le opportunità da cogliere.

Nel grande spazio transmediterraneo si configura dunque una potenziale riedizione in chiave moderna di quel Grande gioco in cui, nella prima metà dell’Ottocento, la Russia zarista e la Gran Bretagna si disputarono i territori asiatici al confine dei rispettivi imperi.

Oggi la contesa verte sulla capacità di influenzare, con finalità non sempre disinteressate. Ma proprio nel “condominio” del Mare Nostrum i paesi rivieraschi dovranno ritrovare una convivenza, basata su un nuovo modo di relazionarsi e una condivisione dello spazio transmediterraneo.

Proprio con la rinascita della Via della Seta, il nostro Mediterraneo potrebbe aggiungere alla raffigurazione braudeliana di “mille choses à la fois” anche quella di snodo logistico, a due corsie, per le numerose imprese che ne potranno cogliere le opportunità.

Se nel 1976 si stabilì a Helsinki che la sicurezza del continente europeo non poteva essere disgiunta da quella del Mediterraneo, oggi proprio in questo “antico crocevia” si gioca il futuro dell’Ue e dei suoi membri.




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