DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

giovedì 29 novembre 2018

I BALCANI E IL FUOCO CHE COVA SOTTO LA CENERE un articolo di Mauro Manzin sul Piccolo


Ieri 29 novembre Il Piccolo ha pubblicato un interessante articolo di Mauro Manzin sulla situazione dei Balcani sulla quale non vi è sufficiente attenzione e intervento dell' Europa.
Inutile ricordare quanto le vicende dei Balcani si riverberino su Trieste non solo per motivi di vicinanza ma anche per questioni geopolitiche e infrastrutturali.
Ad esempio la progettata nuova linea ferroviaria veloce che nelle intenzioni della Cina dovrebbe collegare il porto del Pireo, controllato dalla cinese Cosco, a Budapest nel cuore dell' Europa Centrale bypassando i porti l' Alto Adriatico, subirebbe certamente contraccolpi negativi da un riaccendersi delle tensioni balcaniche.
Per chi non avesse potuto leggere l' articolo lo pubblichiamo  qui di seguito:


I BALCANI E IL FUOCO CHE COVA SOTTO LA CENERE
di Mauro Manzin


C’è del marcio nei Balcani, di cui l’Europa non avverte il forte odore assolutista che lo permea e di cui gli Stati Uniti hanno solo un vago sentore, ma che il super io di Donald Trump relega al disinteresse vero o tattico che sia.
I PROGETTI UE
Il progetto di Bruxelles di allargamento nei Balcani occidentali sta fortemente traballando perché nella regione si sta diffondendo la certezza che stia collassando il tentativo di creare un ordine basato sulle regole, rinforzando così di fatto la sfaccitaggine delle élite locali nei confronti di Ue e Usa. Una strategia per “impressionare” anche i nuovi interlocutori dell’area come Russia, Cina, Turchia e monarchie del Golfo. Facciamo solo tre casi: dazi doganali in Kosovo, fuga dell’ex premier macedone Gruevski in Ungheria (Paese Ue) e la presidenza del serbo Dodik in Bosnia. E, come scrive anche il politologo Jasmin Mujanović, i tre fatti sopra elencati sono solo in apparenza slegati tra di loro. Fatti che si inseriscono bene nella crisi più ampia del liberalismo occidentale iniziata con l’aggressione di Putin all’Ucraina, proseguita con la Brexit e conclusa dall’unilateralismo reazionario di Trump. I Balcani occidentali, comunque, non sono solo le vittime di tali eventi, ma sono abili manipolatori degli stessi per volgerli a proprio vantaggio. La fuga di Gruevski in Ungheria alla vigilia della sua carcerazione e l’asilo politico concesso all’ex premier di Skopje da Budapest coinvolge direttamente anche Bruxelles che si trova di fronte a una palese violazione dello Stato di diritto della Macedonia. E se Gruevski dovesse restare in Ungheria questo sarà un duro colpo alla credibilità Ue nella regione. Il Kosovo, sull’orlo della disperazione, ha innalzato del 100% i dazi per i prodotti serbi in risposta al blocco del suo ingresso nell’Interpol e contemporaneamente ha spalancato a Sud i confini a Tirana materializzando di fatto lo spettro della Grande Albania. O l’Ue decide di agire in modo equo, preparandosi così a incorrere anche nell’ira di qualcuno che agisce in malafede, oppure fingendo l’ignoranza di quanto sta accadendo vedrà la propria credibilità frantumata nei confronti di tutte le parti coinvolte. L’ultima provocazione è quella del neoeletto presidente Milorad Dodik alla presidenza collegiale bosniaca. Il leader della Republika srpska (entità della Bosnia secondo gli accordi di Dayton del 1995) ha dichiarato che in qualità di presidente di turno del Paese viaggerà col passaporto serbo. Potrebbe sembrare un colpo di teatro, invece altro non è se non l’ulteriore tassello del suo tentativo di instaurare a Banja Luka il governo del partito unico serbo puntando così a una modifica della Costituzione dell’entità, a militarizzare la polizia, a reclutare paramilitari addestrati in Russia, come conferma lo stesso Mujanović, e creare strutture di sicurezza parallele mantenendo forti legami politici e diplomatici con Serbia, Russia ma anche con territori occupati come l’Ossezia del Sud.
NON SOLO GIOCHETTI
Solo giochi? No, semplicemente i prodromi per la secessione. Il tutto mentre l’Ue non vede o non vuole vedere, l’Usa regala armi alla Croazia e lo stesso fa Mosca con la Serbia che vuole, a parole, diventare una stella d’Europa, ma contemporaneamente sbatte la porta in faccia alla Nato predicando un sospetto non-allineamento sulle orme di quello che fu il paradigma della politica internazionale del maresciallo Tito. Quanta Europa c’è in tutto questo? Quanto gli Usa ci sono o ci fanno? 23 anni dopo Dayton i Balcani occidentali tornano a essere carichi di dinamite e basta l’ultranazionalista di turno (ne navigano molti in questi tempi) ad accendere la miccia. –


domenica 18 novembre 2018

ANCHE L' UNGHERIA, DOPO LA CINA E IL DUBAI, SI INTERESSA A TRIESTE COME SCALO PRINCIPALE DELLA MITTELEUROPA - RITIRATA LA PARTECIPAZIONE UNGHERESE AL RADDOPPIO DELLA FERROVIA CAPODISTRIA / DIVACCIA - NON C'E' ALCUN PERICOLO DI MONOPOLIO CINESE SUL PORTO FRANCO INTERNAZIONALE DI TRIESTE -


L' ottimo giornalista Mauro Manzin dà notizia sia della decisione ungherese di puntare sul Porto di Trieste, con cui ci sono già intensi rapporti e linee ferroviarie giornaliere, sia del disimpegno dall' indispensabile raddoppio della linea ferroviaria Capodistria - Divaccia che essendo ormai satura rappresenta la principale strozzatura allo sviluppo del porto sloveno che dista solo 6 chilometri da Trieste.

Ricordiamo che l' Ungheria è stato il primo paese della UE ad entrare nelle "Nuove Vie della Seta" firmando il "memorandum d' intesa" con Pechino (clicca QUI) e che Budapest doveva diventare il terminal ferroviario della linea ad alta velocità che avrebbe dovuto collegare il Porto del Pireo controllato dalla COSCO cinese all' Europa Centrale e che sta incontrando difficoltà tecniche e geopolitiche.
Questo progetto avrebbe tagliato fuori dal grosso dei flussi commerciali l' Alto Adriatico e Trieste in particolare.

E' pertanto molto significativo il suo interesse sul nostro porto e l' abbandono di quello di Capodistria ed è da valutare quanto abbiano contato su questa scelta i disaccordi e conflitti all' interno della UE. Trovano concreta conferma gli ottimi rapporti con l' Ungheria di cui parlava il Presidente Fedriga in un intervista rilasciataci un mese fa (clicca QUI).

Riportiamo sotto per intero l' articolo di Manzin sul Piccolo di oggi, mentre  proprio domani il presidente della Port Authority di Trieste e vicepresidente dei porti europei Zeno D’Agostino sarà a Budapest. 

Le paure seminate ad arte di un pericolo di "monopolio cinese" e di "svendita alla Cina” del Porto Franco Internazionale di Trieste sono irrealistiche. 
In realtà ci sono molteplici e concreti interessamenti per il Porto Franco Internazionale di Trieste che per la sua collocazione geopolitica è il vero porto dell’ Europa Centrale ed Orientale sulle Nuove Vie della Seta ed è lo snodo intermodale ideale tra nave e  ferrovia, ancora oggi come ai tempi di "Trieste porto dell' Impero" per evidenti motivi geopolitici, economici e di infrastrutturazione ferroviaria.

La DP WORLD importantissima compagnia emanazione dell’ Autorità Portuale del Dubai è concretamente interessata a un terminal a Trieste ed ha già iniziato trattative per ampliare e/o costruire un nuovo terminal (QUI una scheda).

Ormai è noto e dibattuto anche il concreto interessamento del colosso cinese CHINA MERCHANTS GROUP di cui già parla la stampa da giorni (QUI).


L’ esito auspicabile e probabile di questa situazione, e di questa benefica concorrenza tra grandi operatori internazionali, è che vi saranno due grandi terminal: uno per gli operatori cinesi e uno per gli operatori del Dubai.
Presumibilmente i Moli VII e VIII che insisterà sulla Piattaforma Logistica in costruzione.
E adesso si aggiunge l' interesse ungherese ad acquisire concessioni di infrastrutture a lungo periodo per attività logistiche.

Tutti gradiscono molto lo status di Porto Franco di Trieste perché è uno strumento che usano ampiamente con successo in patria sia in Cina (vedi la gigantesca Free Zone di Shanghai e non solo) sia a Dubai.
Tutti questi operatori hanno forte interesse non solo allo shipping ma anche alle ricadute industriali e produttive nel retro porto, cosa che hanno ben collaudato nelle Free Zones in patria e nel mondo.

Non c è contrapposizione fra porto ed industria, ma solo fra buon porto e cattiva industria.

Resta il problema del collegamento ferroviario della nuova Piattaforma Logistica e del Molo VIII  e della necessaria nuova stazione di Servola che dovrebbe sorgere al posto dell’ “Area a Caldo” della Ferriera, fonte del più pesante inquinamento della città.

Giovedì scorso c'è stato un incontro tra L’ Autorità Portuale e Arvedi, proprietario della Ferriera, che ha dato inizio alle trattative anche su questo punto indispensabile per consentire la formazione di treni di 750 metri, che sono il nuovo standard europeo che sarà effettivo con l'apertura dei trafori del Semmering e della Koralpe, e che rappresenta la vera soluzione del problema dell’ inquinamento della Ferriera.

Ecco l' articolo di Manzin sul Piccolo:

Orban abbandona Capodistria «Accordi col Porto di Trieste»
L’Ungheria non parteciperà con i previsti 300 milioni di euro alla realizzazione del raddoppio della linea ferroviaria tra lo scalo del Litorale sloveno e Divaccia


Mauro Manzin / LUBIANA

Clamoroso “colpo basso” al governo della Slovenia. A mollare il pesante ko è il premier ungherese Viktor Orban il quale venerdì scorso durante l’incontro della diaspora magiara ha affermato che Budapest non darà un euro alla Slovenia per la realizzazione del raddoppio della traccia ferroviaria tra Capodistria e Divaccia, infrastruttura considerata strategica e imprescindibile per lo sviluppo dello scalo del Litorale da parte dell’esecutivo. Nel piano finanziario di realizzazione del raddoppio, peraltro molto lacunoso e oggetto del referendum sull’opera poi bocciato dal corpo elettorale per mancato quorum, la Slovenia aveva da anni dato quasi per certo e dopo molti abboccamenti con l’esecutivo di Budapest, l’arrivo di 300 milioni di euro. Certo non risolutivi ma comunque una fetta importante per portare a termine un’infrastruttura da quasi due miliardi di euro. Orban è stato chiarissimo e il ko ha messo al tappeto Lubiana perché il premier magiaro ha giustificato la decisione del suo governo in quanto l’Ungheria è interessata al dialogo con il porto di Trieste. E proprio domani il presidente della Port Authority del capoluogo del Friuli Venezia Giulia e vicepresidente dei porti europei Zeno D’Agostino sarà proprio a Budapest. Non si dovrebbe parlare di accordi ma è fin troppo chiaro che i “fuori onda” non mancheranno di toccare questo argomento. Orban ha affermato che le trattative partiranno con il Porto di Trieste, che dà in concessione a lungo termine alla logistica le proprie infrastrutture, e riguarderanno proprio la possibilità di collaborare nel settore logistico con i necessari investimenti da parte delle aziende ungheresi. Il ministro delle Infrastrutture della Slovenia Alenka Bratušek ha comunque più volte sostenuto che il Paese è in grado di portare a termine l’opera di raddoppio della linea ferroviaria Capodistria-Divaccia anche da sola, anche se non sarebbe contraria alla cooperazione dei Paesi contermini se questa dimostrerà di portare al progetto un valore aggiunto. Proprio di recente Lubiana ha tolto la qualifica di segreto alla documentazione esistente sui contatti avuti tra la Slovenia e l’Ungheria relativamente proprio alla cooperazione nel realizzare l’infrastruttura. «Non abbiamo ancora messo il punto nella collaborazione con l’Ungheria - ha detto di recente Bratušek - ma saremo noi che porremo i termini a Budapest o a chiunque altro per la cooperazione stessa». Il ministro ha aggiunto di essere pronta a sondare l’interesse di altri Paesi contermini che in una lettera avevano epresso un certo interesse. A tale riguardo, ha concluso sempre Bratušek, sarà presa una decisione ufficiale del governo entro la fine dell’anno. I media sloveni si “consolano” scrivendo che Orban non andrà a investire al Porto di Fiume nella “poco amica Croazia”. Insomma, è ko tecnico. —

Il progetto ora in difficoltà di linea ferroviaria ad alta velocità Pireo-Budapest


mercoledì 7 novembre 2018

IL PETROLIO DELL'IRAN, L'ESENZIONE DEGLI USA E IL POSTO DELL'ITALIA - PERCHE' L' ITALIA E' STATA ESENTATA DALL' APPLICARE SANZIONI ALL' IRAN - articolo di Lucio Caracciolo, direttore di Limes

Il premier italiano Giuseppe Conte in visita alla Casa Bianca dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, luglio 2018. 


La decisione di Washington non è un regalo, ma una ricompensa per le scelte che Roma ha preso o dovrà prendere su Tap, Muos, F-35. Questo a livello tattico. Poi c’è il livello strategico.


L’esenzione per sei mesi dall’embargo sulle importazioni di petrolio iraniano non è un regalo di Trump all’Italia.

Primo, perché per un presidente che ragiona e agisce da uomo d’affari, nulla è gratis.

Secondo, perché in cambio di questo riguardo – che noi condividiamo con paesi della taglia di Cina e India, massimi acquirenti di idrocarburi persiani – gli Stati Uniti si aspettano contropartite molto concrete. In termini specifici, l’acquisto senza tante storie dei caccia F-35 e la preservazione del Muos, sistema satellitare avanzato ad alta frequenza e banda stretta installato in Sicilia, fondamentale per le comunicazioni militari Usa nel Mediterraneo, che parte del Movimento 5 Stelle vorrebbe smantellare.

Terzo, perché la temporanea tolleranza sul fronte iraniano è collegata alla decisione di Roma di dar via libera al gasdotto Tap, segnale della volontà italiana di diversificare le importazioni di gas, fortemente dipendenti dalla Russia.

Ma la mossa di Washington ha un significato geopolitico più ampio. L’amministrazione Trump apprezza lo smarcamento di Roma dall’ortodossia europeista, approva la sua retorica nazionalista. Quanto più ci allontaniamo da Berlino (e per quel molto poco che vale, da Bruxelles) tanto meglio. L’idea franco-tedesco-britannica di allestire sotto egida Ue un sistema che permetta di aggirare le sanzioni e condurre “legittimi affari” con l’Iran, continuando ad acquistarne petrolio e gas, probabilmente finirà nel nulla. Ma ad occhi americani è l’ennesima riprova che degli “alleati” europei non ci si può davvero fidare.

I considerevoli acquisti di titoli di Stato italiani da parte di alcuni fra i massimi fondi americani, avviati poco dopo l’avvento del governo Lega-M5S, non sono scattati solo per via degli algoritmi (semi)automatici ma anche per sostenere l’Italia nella sfida con la Germania e con le “formiche” del Nord Europa. Allo stesso tempo, Washington è consapevole che se l’Italia facesse bancarotta il rischio non riguarderebbe solo l’Eurozona ma il sistema finanziario mondiale. Risultato: la migliore Europa possibile è quella che resta faticosamente in bilico, dipendente dall’impero a stelle e strisce, senza avvitarsi nella spirale definitiva.

La crisi italiana conferma il potere oggettivo di ricatto di cui Roma dispone e che i nostri governi avevano finora deciso di non sfruttare, illudendosi che si potesse essere insieme filo-americani ed europeisti (leggi: filo-tedeschi). Come se la priorità geopolitica che obbliga gli Stati Uniti a stroncare l’affermarsi di qualsiasi centro di potenza in Eurasia fosse adattabile, magari revocabile, a seconda del colore politico dell’inquilino della Casa Bianca.

La peculiarissima coalizione tra rivali che da giugno guida l’Italia sta tentando, tra mille contraddizioni, di sfruttare la forza della sua debolezza. Forse senza rendersene perfettamente conto. Ecco il paradosso di un paese alla disperata ricerca di fondi che mentre si scontra con Germania e Francia apre contemporaneamente a Stati Uniti, Cina e Russia. Operazione di alta acrobazia.

Piaccia o meno, noi siamo da oltre settant’anni nella sfera d’influenza americana. Immaginare che Washington si disinteressi della crescente, pervasiva presenza cinese in Italia, non solo con le nuove vie della seta, è illusione. Lo stesso vale, in misura minore, per le sinergie russo-italiane, che fanno dello Stivale il migliore amico di Mosca in Europa, il più vocale assertore – in questo caso fin dal governo Renzi – del superamento delle sanzioni alla Russia.

Certo, le alleanze non sono quelle di una volta. Ai tempi della guerra fredda, se Roma avesse stretto rapporti così intimi con Mosca e Pechino sarebbe stata annichilita da devastante rappresaglia. La superpotenza a stelle e strisce non è onnipotente, i suoi poteri tutt’altro che unanimi, le sue priorità strategiche in Asia, non in Europa.

Ma dove siano le linee rosse che non potremmo valicare senza essere sanzionati dal nostro “protettore”, nessuno sa. Forse nemmeno Trump. Certamente non i litigiosi nocchieri che mentre si disputano il timone vorrebbero tenere a galla la barca italiana, zigzagando fra uno scoglio e l’altro.