DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

sabato 9 novembre 2019

“Nuovi Orizzonti per Trieste a 30 anni dalla caduta del Muro” LUNEDI' 18, ORE 17, STAZIONE MARITTIMA - TRIESTE - con Lucio Caracciolo

 

Un nuovo grande evento LIMES a Trieste con Lucio Caracciolo e importanti relatori in occasione dell’ uscita del nuovo numero della rivista Limes dedicato al Trentennale della caduta del Muro di Berlino e con un' ampia sezione di sette articoli su Trieste e le sue prospettive:

“Nuovi Orizzonti per Trieste a 30 anni dalla caduta del Muro”

LUNEDI' 18, ORE 17, STAZIONE MARITTIMA - TRIESTE

Intervengono:
LUCIO CARACCIOLO
direttore di Limes
STEFANO PATUANELLI
ministro dello Sviluppo economico
GIUSEPPE BONO
amministratore delegato Fincantieri
ZENO D'AGOSTINO
presidente
Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale
DARIO FABBRI
consigliere ed analista di Limes
STEFANO VISINTIN
presidente spedizionieri del porto di Trieste
introduce:
LUCIANO LARIVERA S.I.
direttore del Centro Culturale Veritas

INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTI POSTI

Nel corso del convegno sarà presentato il nuovo numero di Limes e, in particolare, l' ampia sezione dedicata a Trieste.

Organizzato da Limes Club Trieste e Centro Culturale Veritas in collaborazione con Libreria Luigi Einaudi-Trieste
con il supporto della Associazione Spedizionieri Porto di Trieste

Segnalate la vostra partecipazione tramite
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venerdì 18 ottobre 2019

L' OFFERTA DI TRUMP ALL' ITALIA - IL VIAGGIO DI MATTARELLA NEGLI USA - da Limes On Line

TRUMP E L’ITALIA
Nel corso del colloquio con il presidente della repubblica Sergio Mattarella alla Casa Bianca, Donald Trump ha concesso che i dazi sull’import agroalimentare dall’Unione Europea hanno un impatto troppo duro sull’Italia. Ha poi detto che senza “il fardello [normativo] imposto dall’Ue e per nulla equo”, l’interscambio commerciale con lo Stivale sarebbe molto più ampio. In seguito, ha espresso soddisfazione perché gli italiani hanno posto freni agli investimenti cinesi nella penisola dopo un iniziale disaccordo.
Perché conta: L’Italia sta facendo pressione per rivedere i dazi approvati dalla Casa Bianca contro i paesi Ue in seguito al caso Airbus. Le tariffe entrano in vigore venerdì. Le nostre istituzioni intendono alleggerirle insistendo sul fatto di essere fra le economie più colpite dalle misure pur non facendo parte del consorzio.
Normalmente queste trattative non hanno grande rilievo geopolitico. In questo caso invece il commento di Trump sulla possibilità di aumentare i commerci italo-americano possiede un risvolto strategico. Largamente interpretato da media e commentatori come invito a Roma a proseguire la mediazione per arrivare a un accordo di libero scambio Usa-Ue, si tratta piuttosto di un’offerta al nostro paese a stemperare il vincolo con la filiera produttiva tedesca. In particolare quello del Nord Italia, che arriva a pensarsi mitteleuropeo, dunque ingranaggio della sfera geoeconomica germanica, vista sempre con sospetto oltreoceano.
Il commento sulla Cina palesa infine la necessità per un paese sorvegliato speciale come il nostro di valutare con la principale potenza d’Europa, nonché garante della nostra difesa militare e finanziaria, iniziative strategiche con altre potenze prima di aderirvi, non dopo averlo fatto. Anche perché Washington ha fatto dei rapporti tecnologici e commerciali con la Cina delle province del proprio impero una linea rossa.
Per approfondireQuale Italia vuole l’America



martedì 8 ottobre 2019

TRUMP, ERDOĞAN, I CURDI E LA SIRIA: LE REALTÀ DIETRO LA RETORICA - IL VIA LIBERA AMERICANO ALL' INVASIONE TURCA DEI TERRITORI DEI CURDI IN SIRIA, AVVERSARI STORICI DI ANKARA E FIERI COMBATTENTI CONTRO L' ISIS - Un articolo di Lucio Caracciolo.

L’annuncio della Casa Bianca fa chiarezza sui diversi (dis)interessi mediorientali di Stati Uniti e Turchia, presunti alleati Nato. Pentagono e intelligence faranno di tutto per ostacolare le decisioni astrategiche del presidente. Gli ultimi a poter alzare il dito sono gli europei.


L’annuncio con cui Trump lascia mano libera a Erdoğan per penetrare nella Siria nord-orientale e stabilirvi una “zona di sicurezza” a spese dei curdi rivela alcune realtà di fatto oscurate dalla retorica corrente.

Primo. Stati Uniti e Turchia sono alleati solo sulla carta. Poiché anche noi partecipiamo della stessa alleanza (Nato), ciò non dovrebbe lasciarci indifferenti – niente paura: lo siamo. Già il fatto che uno Stato “atlantico” come la Repubblica Turca si armi con missili russi di difesa antiaerea S400 è abbastanza dimostrativo di come entrambe le parti interpretino il vincolo che formalmente le lega. Mosca e Ankara, storiche nemiche, mai sono state tanto vicine. Non sappiamo per quanto.

Secondo. Nel caso siriano, la divaricazione fra americani e turchi è strutturale. Gli Stati Uniti, superpotenza mondiale, considerano il Medio Oriente sempre meno rilevante. Ne hanno percezione tattica, reattiva. Si contentano di preservare un precario equilibrio tra le potenze regionali e di assicurare l’esistenza di Israele. Punto. Dei curdi a Washington non può importare di meno. Servono, quando servono, per spostare di qualche grado l’angolo della bilancia mediorientale. Per esempio nella battaglia contro lo Stato Islamico, allegramente dichiarata vinta. Al resto provvedono le varie fazioni curde che sognando il Grande Kurdistan continuano a battagliare fra loro, in omaggio a quest’antica tradizione.

Terzo. Per Erdoğan l’operazione “Fonte di pace” non è invasione di un paese straniero. È polizia domestica. La carta mentale del presidente-sultano resta quella del Patto Nazionale, varato il 2 febbraio 1920 dall’ultimo parlamento ottomano. Quella Grande Turchia – minima rispetto alle ambizioni più sfrenate di Erdoğan, preoccupato di “comparire con la testa ben alta” alla presenza di Solimano il Magnifico, quando gli toccherà – comprende un’ampia fascia di territorio formalmente siriano e iracheno, lungo la direttrice Aleppo-Mosul-Arbil-Kirkuk. Il Kurdistan siriano e quello iracheno. Fino a ieri parte di Siria e Iraq. Oggi terre contese, stante che quegli Stati – come molti altri – esistono solo nelle carte politiche che pigramente o cinicamente continuiamo a ostentare. Ai curdi siriani non resterà forse che tendere la mano ad al-Asad, visto che di protettori esterni si è persa ogni traccia. Quanto ai “connazionali” sparsi nella regione, fanno come d’uso gli affari loro.

Quarto. Il pretesto avanzato da Ankara per annunciare l’occupazione di una parte della ex Siria è la necessità di allocarvi una quota dei 3,6 milioni di profughi siriani attendati in Turchia. Si tratta di coloro che la signora Merkel, quando ancora parlava a nome e per conto dell’Ue, volle assicurarsi non muovessero verso sponde europee e finissero per bussare alla sua porta. Per questo promise congruo indennizzo a Erdoğan. Il quale giudica ormai tale compensazione del tutto insoddisfacente. Quindi si appresta a muovere nella zona curda. Gli ultimi a poter alzare il ditino contro il sultano sono gli europei, tedeschi in testa, che pensavano di poter affittare Erdoğan quale guardiano di profughi. Neanche fosse Gheddafi.

Quinto. Trump dixit. Non necessariamente alle parole seguiranno fatti. Si è perso il conto dei ritiri annunciati di truppe americane dal terreno siriano. Un contingente significativo resterà comunque nell’area, disponendosi a semicerchio per assistere allo scontro turco-curdo dalle poltronissime di prima fila. Né il Pentagono né l’intelligence – oltre ad alcuni autorevoli senatori repubblicani – paiono sedotti dalla scelta di Trump. Interpreteranno molto liberamente l’uscita del presidente. Il quale ad ogni buon conto si è autopreparato il contrordine, via tweet della (pen)ultima ora: “Se la Turchia fa qualcosa che, nella mia grande e impareggiabile saggezza, io consideri sbagliato, io distruggerò e annienterò totalmente l’economia turca (l’ho già fatto una volta!).”

Il caso curdo-turco illustra come la lotta fra poteri e apparati americani stia ingolfando il motore della superpotenza. Trump ha sempre denunciato la prevedibilità del suo predecessore. Ma il confine tra imprevedibilità tattica e inaffidabilità strategica è linea sottile. Quasi invisibile.


mercoledì 2 ottobre 2019

HONG KONG, LA LINEA ROSSA DELLA CINA: un articolo di Lucio Caracciolo


La crisi nell’ex colonia britannica rivela la fragilità geopolitica della Repubblica Popolare Cinese. Un intervento armato di Pechino avrebbe conseguenze in tutto il mondo. Il più debole in questa fase è Xi Jinping.
di 
Il sangue scorre a Hong Kong.

Nel giorno in cui a Pechino si celebravano in pompa magna, con suoni, luci e larga esibizione di armi, i primi settant’anni della Repubblica Popolare Cinese, nella città in rivolta da mesi lo scontro fra polizia e manifestanti anti-regime ha cambiato dimensione.

Per le giovani avanguardie del movimento si trattava di mostrare che le proteste non sono destinate a spegnersi presto, anzi. Per le forze di repressione locali, che obbediscono alle direttive del governo centrale, occorreva segnare una linea rossa. Di sangue. Perché sia chiaro che Pechino non è assolutamente disposta a perdere il controllo indiretto – fra trent’anni previsto diventare totale – della porta principale fra la Cina e il mondo.

Le prossime settimane ci diranno se la possibile scalata della violenza, dai feriti ai morti alla strage, sia destinata a emulare la repressione di Piazza Tienanmen, nel 1989. Certo riportare il clima nell’ex colonia a sei mesi fa è ormai impensabile.

Qualsiasi cosa accada è evidente che Hong Kong non può essere “normalizzata” in tempi rapidi se non con la forza. Ciò che Pechino non ha interesse a fare, per le ovvie quanto incalcolabili conseguenze economiche e geopolitiche. Ma cui potrebbe sentirsi costretta, per impedire che la scintilla di Hong Kong incendi il paese. Ne metta in questione la stabilità.

La crisi di Hong Kong rivela la fragilità geopolitica della Repubblica Popolare. Quell’immenso territorio è attraversato da profonde linee di faglia. Di carattere economico e sociale: c’è ancora un abisso fra la Cina meridionale e orientale, relativamente ricca e affacciata sui mari, e le regioni interne del Nord-Ovest, assai più arretrate.

Soprattutto, le divisioni interne sono geopolitiche, culturali e antropologiche. Riguardano, oltre a Hong Kong, almeno Taiwan, Xinjiang e Tibet. Il “sogno cinese” di Xi Jinping significa anzitutto impedire che l’Impero del Centro si sfaldi, come nel secolo che intercorse fra le guerre dell’oppio e l’avvento di Mao.

La rivolta degli hongkonghesi evidenzia che il dogma «un paese, due sistemi», su cui dal 1997 si reggeva l’ambigua e limitata autonomia di quel territorio, è saltato. Se la protesta degli abitanti dell’ex colonia britannica dovesse davvero spingere Pechino all’intervento armato, tutto il sistema dell’Asia-Pacifico e dunque del pianeta entrerebbe in acuta fibrillazione.

Per esempio, Taiwan, dove l’11 gennaio 2020 si vota per il nuovo presidente, potrebbe prima o poi dichiararsi indipendente. Ne scaturirebbe automaticamente la guerra con la Cina. Gli Stati Uniti sarebbero costretti a rispondere, non fosse che per garantire i propri alleati regionali (Giappone e Corea del Sud su tutti) circa la credibilità del patto di protezione stretto con l’impero a stelle e strisce.

A Hong Kong, insomma, si decide molto più del destino di Hong Kong. Pechino, Washington, Mosca, Tokyo e tutti gli altri attori rilevanti ne sono perfettamente coscienti.

Chi rischia di più, in questa fase, è Xi Jinping. All’apparenza, dittatore assoluto. Nei fatti, è il leader oggi decisivo, ma le fazioni che da sempre lo ostacolano, e che hanno fatto fallire la sua iniziale strategia di riforme mascherata da “lotta alla corruzione”, sono pronte a eliminarlo se gli eventi precipitassero.

Nei palazzi del potere pechinese non si poteva immaginare scenario peggiore nel giorno delle grandi celebrazioni per il compleanno della dinastia rossa.

Articolo originariamente pubblicato su la Repubblica il 2 ottobre 2019.


martedì 1 ottobre 2019

IL MONDO VISTO DALLA CINA "COMUNISTA" - 1° OTTOBRE 70° della Repubblica Popolare Cinese - La carta geografica mostra come interessa da vicino Trieste


Come l’Impero del Centro guarda sé stesso e il globo.
carta di 

La carta inedita a colori della settimana, che riproduciamo integralmente sotto, è dedicata all’auto-percezione della Cina sul planisfero e alla sua effettiva proiezione intenazionale.

La mappa cartografa il Celeste Impero al centro del mondo, come potenza al contempo terrestre e marittima – un disegno sublimato dalle duplici nuove vie della seta (Bri).

Pechino fa perno su tale narrazione, all’interno e oltre confine, nel percorso di “risorgimento nazionale” culturale e geopolitico declamato dal presidente e uomo forte della Repubblica Popolare Xi Jinping.

Il fine è tornare a esercitare sullo scacchiere internazionale il peso che Pechino crede le spetti per il solo fatto di essere Zhongguo, l’impero al centro del globo dal retaggio millenario.

Da qui la rappresentazione della Repubblica Popolare quale perno del planisfero, in linea con le sue aspirazioni internazionali.

Dal Celeste Impero si irradiano le rotte terresti e marittime (anche tramite l’acquisizione del controllo di porti strategici) che puntano a connettere il resto del mondo a Pechino, attraverso, attorno e oltre l’Eurasia.

Vettori del nuovo attivismo della Cina – imperialistico e predatorio, stando agli Usa – le manovre e le rotte strategiche dell’Impero del Centro hanno difatti il potenziale per plasmare lo scacchiere globale “con caratteristiche cinesi” nei decenni a venire.

Dall’Africa all’Oceania, dal Sudest asiatico all’Indocina, dall’Asia centrale all’Europa, dal Sudamerica all’Artico. Dati la multidimensionalità dei progetti previsti o in corso di realizzazione, numero e geografia dei paesi coinvolti nella Bri e nelle rotte strategiche della Cina.

In gioco c’è anche la primazia globale degli Stati Uniti, impegnati difatti in un’offensiva anti-cinese a tutto tondo volta al contenimento delle ambizioni del Celeste Impero sui fronti economico-tecnologico, militare, di soft power.

Per approfondire
: Limes 11/18 Non tutte le Cine sono di Xi.


giovedì 26 settembre 2019

L'IMPATTO UMANO SUL CAMBIAMENTO CLIMATICO È MENO CHIARO DI QUANTO SI PENSI - Un articolo di Limes sull'attuale tema del cambiamento climatico

Sul legame tra riscaldamento globale, migrazioni e guerre l’Intergovernmental Panel on Climate Change non fa chiarezza. Sul tema della natalità, purtroppo e come al solito, glissa.
di 

Al nascere dell’agricoltura, circa 10 mila anni or sono, si calcola che la popolazione del pianeta fosse di qualche milione di abitanti. Supponiamo che si trattasse di 6 milioni di umani (come suggeriscono alcuni autorevoli studiosi) e che questi vivessero in piccole comunità – chiamiamole demoi, plurale di demos – costituite da mille persone l’una.

Qualora le terre emerse fossero state equidistribuite tra i demoi, ciascuno di essi avrebbe avuto in dote una quota di terra pari alla superficie della Sardegna (23 mila km²). Due secoli fa, agli inizi della rivoluzione industriale, con la popolazione giunta a un miliardo, la dotazione di ogni demos sarebbe scesa a 150 km², quanti ne conta l’isola di Milos nel Mar Egeo. E verso la fine di questo secolo la dotazione territoriale sarà scesa a poco più di 10 km² per demos, pari alla superficie dell’isola di Capri. In questa contabilità sono comprese le aree inabitabili, artiche, desertiche o montagnose.

La terra è fissa, la popolazione cresce e ogni abitante in più porta con sé un’accresciuta capacità di consumo di energia, di materie prime rinnovabili e non rinnovabili – oltre a una nuova richiesta di spazio. Secondo l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), reso pubblico ad agosto, su 130 milioni di km² non coperti dai ghiacci la ripartizione della terra sarebbe la seguente (si tratta di stime molto approssimate): infrastrutture 1%; terre coltivate irrigate, 2%; coltivate non irrigate, 10%; pascoli intensivi 2%; altri pascoli 35%; piantagioni forestali 2%; altre foreste sfruttate per legname ed altri usi, 20%; terre con minimo o nessun intervento umano (inclusi i deserti), 28% [1].

Insomma, oltre il 70% delle terre è in qualche grado antropizzato. Una proporzione che tende a crescere in funzione dell’aumento della popolazione, che secondo le ultime valutazioni potrebbe aggiungere altri tre miliardi ai quasi otto attuali entro la fine del secolo.

L’estensione e l’intensificazione dell’antropizzazione pongono a rischio aree vitali per gli equilibri ambientali quali le grandi foreste pluviali e aree fragili come quelle costiere, rivierasche, o umide. La terra è un “pozzo” naturale che assorbe i gas serra – fattore del riscaldamento – mediante vari processi, quali la fotosintesi. Ma è anche produttrice di questi gas, quando la vegetazione brucia o si decompone. Secondo il rapporto citato [2], “circa il 23% delle emissioni di gas serra di origine umana proviene da agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo (Afolu)”.

Le emissioni sono prevalentemente dovute alla deforestazione, parzialmente compensate da imboschimenti e rimboschimenti e da altri usi del suolo.

“L’agricoltura è responsabile di circa la metà delle emissioni di metano indotte dall’uomo ed è la principale fonte di protossido di azoto, due gas ad effetto serra molto potenti. Allo stesso tempo, la biosfera terrestre assorbe quasi il 30% delle emissioni antropogeniche di CO2 grazie ai processi naturali. Tuttavia, questa funzione è vulnerabile agli impatti dei cambiamenti climatici (ad esempio a causa dell’aumento della siccità e degli incendi) e ad altre pressioni ambientali e umane”. I processi di antropizzazione possono alterare gli equilibri tra i vari ecosistemi, con effetti che possono essere negativi (per esempio, la deforestazione per espandere le terre coltivabili, per nuovi pascoli) o positivi (rimboschimenti).

Il rapporto analizza molti aspetti delle relazioni tra terra, clima e società in conseguenza del riscaldamento: la temperatura del globo, rispetto alla media del 1850-1900, è aumentata di quasi grado (Figura 1), che diventerà un grado e mezzo verso la metà del secolo. Il testo illustra i meccanismi del degrado dei suoli (Figura 2); indica le politiche da seguire per frenare o arrestare il degrado (la protezione delle foreste, i rimboschimenti in prima linea); suggerisce alcune modifiche alle dieta, in particolare un minore consumo di carni rosse (l’allevamento è responsabile di forti emissioni di gas serra) e maggiore consumo di vegetali e frutta.

Figura 1

Le ricadute sarebbero molto positive, dato che “una transizione diffusa verso diete più sane potrebbe liberare un’area compresa tra i 4 e i 25 milioni di km² al 2050… e avrebbe un potenziale di riduzione di emissione confrontabile alle emissioni generate dalla deforestazione mondiale”. Insomma i mutamenti delle abitudini alimentari possono rendere meno insostenibile l’aumento dei consumi prodotto dalla crescita demografica. Tuttavia a livello globale la tendenza va in direzione opposta, poiché all’aumento del reddito nei paesi poveri corrisponde un maggior consumo di carne, rendendo assai problematica la “transizione verso diete più sane” invocata dal rapporto in questione.

Nell’opinione pubblica i contenuti dell’ultimo rapporto sono stati veicolati in modo assai distorto. I dispacci di agenzie, i siti dei giornali e i blog hanno fatto a gara ad annunciare che il riscaldamento globale porterà un aumento delle malattie, della fame, delle migrazioni e dei conflitti nel mondo. Il lancio di un’agenzia nazionale di primaria importanza – ampiamente diffuso dai media – era: “Onu: il cambiamento climatico aumenterà fame e migrazioni”.

Peccato che il rapporto sfiori appena l’argomento delle migrazioni, avanzando solo ipotesi che però lo stesso Ipcc ritiene debolmente suffragate dai fatti. Per esempio: “c’è una corposa evidenza che indica che le decisioni migratorie sono motivate da un insieme complesso di motivazioni, tra le quali la desertificazione e il cambiamento climatico giocano ruoli minori” [3]. Oppure: “il legame tra degrado dei suoli e emigrazione si colloca nel più ampio contesto delle interazioni multilivello tra fattori ambientali e non ambientali” [4]Che è un modo criptico per dire che essendo tanti i fattori che determinano le migrazioni, ogni ipotesi circa il loro andamento futuro è debole (quando non campata in aria).

Stesso discorso per i conflitti: “c’è scarsa evidenza che il cambiamento climatico e la desertificazione conducano a conflitti violenti. C’è una moderata evidenza, e un basso consenso, circa l’ipotesi che il mutamento climatico e la desertificazione contribuiscano al potenziale conflittuale che già esiste” [5]. In parole semplici: il riscaldamento globale crea desertificazione e condizioni di maggiore stress per le popolazioni che vivono in queste aree (Africa, Asia) e che crescono rapidamente; questo maggiore stress può alimentare i conflitti che sono però generati da innumerevoli fattori.

Figura 2 e 3

Le considerazioni precedenti non significano certo che il riscaldamento globale non abbia conseguenze demografiche rilevanti. Sono circa 3 miliardi le persone che vivono in zone aride (il 38% della popolazione mondiale), prevalentemente in Asia e Africa, e si calcola che nel 2050 raggiungeranno i 4 miliardi. Si stima che circa un sesto della popolazione delle zone aride viva in zone nelle quali è in atto un processo di desertificazione (Figura 3). Inoltre tutte le popolazioni delle zone aride sono molto vulnerabili alla desertificazione e al cambiamento climatico perché la loro sussistenza dipende prevalentemente dall’agricoltura.

Il settore forse più colpito è quello della pastorizia e dell’agro-pastorizia. Non ci sono dati precisi sulla consistenza numerica di chi le pratica, ma la maggior parte delle stime si pone tra i 100 e i 200 milioni, e di questi tra 30 e 63 milioni lo farebbero in forma nomadica. Si tratta di serbatoi demografici rilevanti che i cambiamenti climatici possono rendere maggiormente propensi alle migrazioni. In un quadro dimensionale imprecisato.

Le indagini dell’Ipcc toccano anche le conseguenze del cambiamento climatico sulla salute [6]. Un ennesimo campo complicato, perché solo in pochi casi si può trovare una precisa rispondenza tra i due elementi (un fulmine che uccide una persona o un’onda anomala che provoca un annegamento). In sintesi, si segnalano cinque punti: l’aumento dei rischi per la salute dovuto a più intense ondate di calore e incendi; maggiori rischi di denutrizione per una diminuita produzione agricola in alcune regioni povere; minore capacità di lavoro e perdita di produttività in popolazioni vulnerabili; maggiori rischi per malattie causate da microbi diffusi per via aerea, idrica o da altri vettori. Inoltre le conseguenze negative sulla salute nelle aree più calde supereranno quelle positive che il riscaldamento potrà avere nelle regioni più fredde.

Una notazione finale: l’Ipcc, operando sotto l’egida delle Nazioni Unite, non include – tra i suggerimenti circa le vie da seguire per frenare il riscaldamento e mitigare le sue conseguenze – una raccomandazione, peraltro ovvia. Con serie ed efficaci politiche sociali non coercitive sarebbe possibile, nei prossimi decenni, accelerare l’attuale lenta transizione verso una natalità moderata di popolazioni ancora con altissimo tasso d’incremento, come quelle dell’Africa sub-sahariana. Secondo le ultime proiezioni delle Nazioni Unite, se nel 2050 i popoli subsahariani scendessero a 2,6 figli per donna (dagli attuali 4,7, anziché ai 3,1 previsti), conterebbero “solo” 850 milioni di abitanti in più rispetto a oggi, invece dei 1.124 in più previsti.

Ma la natalità è un tema politicamente sensibile che, pur se ben conosciuto da tutti, in sede Onu non può essere invocato.

[1] IPCC, Climate Change and Landhttps://www.ipcc.ch/report/srccl/
[2] Più correttamente, secondo sua sintesi, disponibile nel sito italiano dell’IPCC, https://ipccitalia.cmcc.it/i-punti-essenziali-di-climate-change-and-land-il-rapporto-speciale-ipcc/
[3] Climate, cit, chapter 3, p. 39
[4] Ibidem, chapter 3, p. 57
[5] Ibidem, chapter 3, p. 39
[6] Ipcc, Global warming of 1.5 °C, https://www.ipcc.ch/sr15/

venerdì 6 settembre 2019

LE SECESSIONI PASSIVE: COSÌ IL REGIONALISMO PUÒ DISGREGARE L’ITALIA - COME VEDE IL REGIONALISMO IL NUOVO MINISTRO DEL SUD: UN ARTICOLO DI LIMES 2/19


L’‘autonomia differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna mina l’unità nazionale. Il principio è che alcuni italiani lo sono più degli altri. Serve il ricentramento delle funzioni strategiche, un’Agenzia nazionale per lo sviluppo e un Iri della conoscenza.

di Giuseppe Provenzano attuale ministro per il Sud Pubblicato in  Limes UNA STRATEGIA PER L'ITALIA - n°2 – 2019

1. Era  trascorsa meno di una settimana dalla chiusura della 69a edizione del Festival della canzone italiana e Sanremo, si sa, ha unificato il paese forse più di Mazzini, Cavour e Garibaldi. Ventate di orgoglio nazionale, diffuse via social network dagli esponenti del governo, accompagnavano la crisi diplomatica con la Francia. Eppure, in quegli stessi giorni, in gran segreto, nel pressoché generale silenzio dell’opinione pubblica e dei mass media, il Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana stava per sancire la fine dell’unità nazionale.

Formalmente, si discuteva di concedere l’«autonomia differenziata» a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. In sostanza, la Lega, al tempo in cui si fa nazionalista e raccoglie largo consenso al grido «Prima gli italiani!», sta per realizzare il suo sogno antico: una forma di secessione, la «secessione dei ricchi» 1.

La partita è ancora aperta. Ma le bozze di accordo fra Stato e Regioni che circolano alimentano l’allarme. Siamo uomini di questo mondo guasto, sappiamo bene che nascere a Treviso non è la stessa cosa che nascere a Canicattì. Ma gli italiani potrebbero vedersi certificare che i loro diritti dipendono dal luogo in cui gli capita di nascere, che lo Stato si rassegna a questa «cittadinanza diseguale», che la Repubblica lo sancisce per legge, malgrado il suo compito, come recita l’articolo cardine della costituzione, sia di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».

La costituzione va sempre richiamata con cautela, e tanto più in questo caso: a consentire la possibilità di un regionalismo a geometria variabile è proprio il suo titolo V, come rinnovato alla vigilia delle elezioni politiche del 2001 dall’allora centro-sinistra, nell’ansia di contendere voti alla Lega già federalista. Quella riforma costituzionale che, per tacer d’altro, aboliva il Mezzogiorno e ogni riferimento all’interesse nazionale, assegnava alle Regioni competenze irragionevoli su energia e grandi reti, all’articolo 116, terzo comma, prevedeva la facoltà di attribuire alle Regioni «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», attraverso una legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, «sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata» 2.

Malgrado diversi tentativi, il meccanismo in questione non era mai stato attivato prima d’ora. Lombardia e Veneto avevano celebrato, il 22 ottobre 2017, un referendum consultivo sull’autonomia che pareva una farsa di fronte al dramma secessionista della Catalogna che si consumava in quelle stesse settimane. All’esito del referendum, che con un diverso grado di partecipazione, molto alto in Veneto 3 e alquanto basso in Lombardia, registrava una maggioranza favorevole, le due Regioni hanno attivato la procedura per chiedere l’autonomia differenziata in tutte le materie previste dal 116.

Parzialmente diverso è il caso dell’Emilia-Romagna, che si è attivata senza svolgere alcuna consultazione referendaria e ha avanzato una richiesta motivata solo per alcune materie specifiche 4 e senza riferimenti impropri alle risorse. Su questo punto cruciale, mentre la Lombardia si è limitata a un generico riferimento «a ottenere l’assegnazione di idonee risorse per il finanziamento integrale delle funzioni che saranno attribuite alla Regione», il Veneto ha gettato la maschera che nasconde la secessione nell’autonomia. Nel progetto di legge trasmesso al parlamento ha esplicitato infatti la richiesta, peraltro dichiarata dal suo presidente, di utilizzare il 90% del gettito ricavato dalle imposte erariali (Irpef, Ires e Iva) nel proprio territorio, per lo svolgimento delle funzioni aggiuntive. Insomma, il Veneto chiede di trattenere le tasse riscosse all’interno del suo perimetro, come fosse quello di un nuovo Stato, di una nuova cittadinanza.

In effetti, proprio a questo potrebbe condurre la riedizione del Lombardo-Veneto. Definire indirizzi e programmi scolastici, assumere in proprio il personale docente (sulla base della residenza?), darebbe il colpo decisivo alla mitologia della scuola di De Amicis e del libro Cuore che faceva gli italiani. Affermare un proprio modello di sanità segnerebbe il definitivo smantellamento di quel Servizio sanitario nazionale che è stato il vanto dell’Italia ma che di nazionale ormai ha davvero poco. O ancora, offrire servizi per l’impiego differenziati ai propri cittadini (laddove un impiego da offrire almeno c’è), subentrare allo Stato come concessionario delle reti ferroviarie e autostradali (dopo mesi di chiacchiere sulle nazionalizzazioni). Esercitare tutte le competenze su energia e tutela dell’ambiente, regionalizzare proprietà e gestione dei beni culturali (che, ovviamente, richiederebbe molte risorse…). Tutte richieste largamente immotivate, ingiustificate se non con la massima che tutti i cittadini sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
2. Un pendolo impazzito sembra regolare, nel nostro paese, i rapporti tra centro e periferia, che oscilla negli ultimi decenni, alternando stagioni di forte autonomia (le riforme Bassanini sul decentramento degli anni Novanta, la riforma costituzionale del 2001, la legge Calderoli sul federalismo fiscale) a stagioni di ricentralizzazione (essenzialmente i governi degli anni della crisi, da Berlusconi a Monti, da Letta a Renzi, fino ad alcuni provvedimenti di Gentiloni, come l’inattuata clausola per il riequilibrio degli investimenti pubblici tra Nord e Sud).

Quel pendolo ha colpito, a distanza di pochi mesi, la stessa maggioranza politica: appena nel dicembre 2016, aveva proposto agli italiani una riforma costituzionale che, tra i pochi meriti, aveva quello di ricentralizzare alcune competenze strategiche, essenziali alla riaffermazione dell’interesse nazionale e alla definizione delle politiche di sviluppo, correggendo gli eccessi della riforma del titolo V e ripristinando la «clausola di supremazia» dello Stato; ora cedeva alle spinte più autonomistiche e potenzialmente disgregatrici dell’unità nazionale, perseverando nell’errore, già compiuto nel 2001, di pensare di contenere gli avversari inseguendoli sul loro terreno, al punto non solo di perdere, ma di perdersi. Così, il 28 febbraio 2018, siglava con le tre Regioni un accordo preliminare che già conteneva diversi elementi preoccupanti: la durata decennale di un’intesa da rivedere solo con il consenso di entrambe le parti e che per il parlamento sarebbe stata inemendabile (secondo l’interpretazione proposta, smentita da diversi costituzionalisti 5), come si trattasse di un patto tra Stati indipendenti e sovrani; la discussione sull’attribuzione delle risorse – che, con ogni evidenza, possono avere ricadute su tutti i cittadini italiani – demandata a una commissione paritetica tra lo Stato e la Regione interessata; soprattutto, nell’ottica del pur opportuno superamento del criterio della spesa storica, il riferimento per la definizione di «fabbisogni standard» al parametro del «gettito dei tributi maturati nel territorio regionale».

Ogni volta che si mette mano alle istituzioni, in Italiavolano parole grosse. Ora si parla di «secessione», poco fa s’era parlato di «deriva autoritaria». Il rischio più grande, mai abbastanza denunciato, è la «deriva confusionaria». Quale modello di rapporti tra Stato ed enti territoriali ci restituirebbe l’autonomia differenziata? Vediamo: cinque Regioni a statuto speciale, tre ad «autonomia differenziata», quasi tutte le altre che hanno fatto passi formali o informali per chiedere autonomia rafforzata nelle più disparate materie. È un café para todos, direbbero gli spagnoli, nei mille modi diversi in cui in Italia si ordina il caffè. Due Regioni soltanto sono rimaste paghe della loro ordinarietà, come quei signori distinti tra la folla al bancone che ordinano un sommesso «caffè normale»: un piccolo elogio di Abruzzo e Molise prima o poi bisognerà pur scriverlo. Ora, al di là degli aspetti finanziari, cosa resta dello Stato? 6. Peggio che lo Stato minimo, lo Stato «residuale». I ministeri a geografia variabile.

3. La fine dell’unità nazionale, si diceva. E la notizia può apparire alquanto esagerata. A pensarci bene, però, è anche un po’ datata. A 158 anni dall’Unità, l’unificazione economica è sempre lontana dal suo compimento 7. Oltre ai fattori economici, registriamo il consolidamento di un divario nel godimento dei diritti di cittadinanza 8. Nonostante una pressione fiscale superiore al Sud (per effetto delle addizionali locali), la garanzia di livelli essenziali di prestazioni concernenti diritti civili e sociali fondamentali: una «cittadinanza limitata (…) in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la persona adulta e per l’infanzia».
I Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), che secondo costituzione lo Stato dovrebbe uniformemente garantire su tutto il territorio nazionale, non sono fissati, e dunque non possiamo con precisione dichiarare di quanto la Repubblica sia venuta meno ai suoi doveri. Laddove invece sono fissati i Livelli essenziali di assistenza (Lea), come nel comparto sanitario, con certezza possiamo affermare che nessuna delle Regioni meridionali, sottoposte a piano di rientro sanitario (Molise, Puglia, Sicilia, Calabria e Campania) raggiunge gli obiettivi fissati dai Lea. In questo caso, una «cittadinanza negata».
Del resto, lo specchio del generale malessere del Mezzogiorno, ben oltre la mancanza di lavoro, è dato dalla ripresa dei flussi migratori interni ed esterni che negli ultimi quindici anni l’hanno svuotato di oltre mezzo milione di giovani. Si emigra già per godere pressoché di ogni diritto: nel solo 2016 oltre 114 mila meridionali si sono ricoverati nel Centro-Nord, la stragrande maggioranza proprio in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna (e Toscana); l’emigrazione universitaria riguarda 175 mila studenti meridionali che nel 2016-17 si sono iscritti al Centro-Nord. Scelta dettata dalle prospettive lavorative, ma che riflette anche il deterioramento del sistema universitario meridionale, sistematicamente penalizzato negli ultimi anni dietro parametri di presunta neutralità nell’attribuzione delle risorse, spesso incapace di garantire il diritto allo studio, persino l’erogazione delle borse di studio per coloro che risultano idonei. Non è difficile immaginare, alla fine del processo di autonomia differenziata, trasferimenti di residenza ancora più massicci verso quelle regioni: a quel punto, dovranno chiedere anche il controllo delle frontiere.
Potremmo continuare a tratteggiare i contorni di questa disuguaglianza nei diritti, se non conoscessimo l’obiezione: «Il Sud è inondato di soldi pubblici, vengono sprecati o ingrassano clientele, i dipendenti pubblici sono fannulloni, manca la voglia di lavorare». «Non lamentatevi, lavorate di più», dice dunque il ministro dell’Istruzione ai professori meridionali. «Accettate la sfida dell’autonomia, cialtroni», rilancia il governatore della Lombardia. Sprechi, inefficienze e malaffare certo non mancano al Sud, ma nemmeno al Nord: le stime sulla corruzione parlano di un’omogeneità territoriale. Gli affari delle mafie hanno unificato l’Italia più delle istituzioni.
Gli sprechi più gravi sono al Sud, per l’esiguità delle risorse a disposizione. Perché a dispetto dei luoghi comuni, la spesa pubblica è sensibilmente più bassa nel Mezzogiorno, e questo incide inevitabilmente sulla qualità dei servizi. Negli anni, per gli effetti asimmetrici dell’austerità, tale spesa si è molto ridotta al Sud e il trend decrescente non si è interrotto con la ripresa, mentre il Centro-Nord invertiva la tendenza. Anche al netto della spesa previdenziale, in molti settori cruciali dell’azione pubblica, dal lavoro alla formazione, dalla cultura alla ricerca&sviluppo, in cui le Regioni più avvantaggiate chiedono maggiore autonomia, il divario della spesa pro capite nel Mezzogiorno è di oltre 30 punti percentuali (dati Conti pubblici territoriali 2018).
Quanto al personale, anni di retorica scandalistica sull’impiego fisso al Sud e sui forestali siciliani e calabresi – resa solo appena più sopportabile dal genio di Checco Zalone, Quo vado? – hanno finito per celare il divario in termini di dotazione di personale della pubblica amministrazione meridionale. L’Istat registra che il rapporto tra dipendenti pubblici e popolazione residente è molto diminuito (la flessione si è concentrata sul Mezzogiorno, che rispetto al 2001 ne ha 214 mila in meno) ed è addirittura inferiore al Sud (4,7%) rispetto al Nord-Est (4,9%), per non parlare del Centro.
La distanza tra la realtà effettuale di questi numeri e quella percepita sulla base di un pregiudizio storicamente sedimentato non basta certo a rimettere in discussione il senso comune, ma almeno svela l’insostenibilità, per l’unità nazionale e per lo stesso bilancio dello Stato, della pretesa di «regionalizzazione delle imposte» del Lombardo-Veneto. Il paradosso è che una vera e seria attuazione del «federalismo fiscale», persino quello previsto dalla legge 42/2009, la cosiddetta legge Calderoli, che prevede il superamento della spesa storica, con la definizione non solo dei costi standard ma anche dei fabbisogni standard sulla base dei Lep per tutto il territorio nazionale, comporterebbe un deciso guadagno per il Mezzogiorno. Seppure ora alla fine del processo di autonomia differenziata non un solo euro di trasferimento dovesse venire meno alle altre Regioni e seppure gli attuali livelli di servizio dovessero essere preservati, avremmo comunque la cristallizzazione di una cittadinanza «diseguale». Se non la fine dell’unità nazionale, la fine dell’ambizione a perseguirla.

4. «Pensavi solo ai soldi soldi/ Come se avessi avuto soldi», canta la canzone che ha vinto il Sanremo 2019. Anche questa vicenda dell’autonomia differenziata, checché ne dicano gli imbonitori, ruota tutta intorno ai soldi, a «mettere le mani sui propri soldi». Ma di chi sono questi soldi? Per capirlo, il concetto chiave è il «residuo fiscale». Coniato nel 1950 dal premio Nobel James M. Buchanan, questa definizione indicava la differenza tra il contributo che il singolo cittadino fornisce sotto forma di prelievo fiscale alle finanze pubbliche e quanto riceve sotto forma di spesa e servizi, per un’argomentazione tutta tesa alla redistribuzione e all’equità fiscale 9.
Col tempo, questo concetto ha subìto una forte torsione territoriale, è stato piegato a una dimensione regionale che ha finito per snaturarlo e rivoltarne il senso. Nella discussione pubblica, infatti, il «residuo fiscale» è diventato misura dei trasferimenti interregionali, della maggiore o minore «capacità fiscale» dei territori, alimentando egoismi e rivendicazionismi. Si tratta di un calcolo virtuale, perché virtuali sono i trasferimenti tra territori: l’azione redistributiva è compiuta dallo Stato verso i cittadini 10.
Al di là della difficoltà di stima del «residuo fiscale», il suo slittamento dalla dimensione del cittadino a quella del territorio lo rende un concetto alquanto discutibile, il più antinazionale e potenzialmente disgregante. Passata la sbornia regionalista, potrebbe condurre a scoprire che esiste un residuo anche tra la provincia di Milano e quella di Mantova, e che all’interno della provincia esiste un «residuo» tra il capoluogo e il paesino, tra l’area C di Milano e l’hinterland, tra il condominio di un quartiere residenziale e il palazzone di periferia. Insomma, conduce a scoprire la disuguaglianza sociale tra individui, che l’ideologia del territorio prova a malcelare.
Se esiste un «residuo fiscale» positivo in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e negativo in quasi tutte le altre regioni a statuto ordinario (per quelle a statuto speciale il discorso sarebbe diverso), è semplicemente per il fatto che nelle prime si concentra una maggiore quota di cittadini con redditi elevati, mentre nelle altre, specialmente nel Mezzogiorno, i redditi medi sono più bassi. Peraltro, l’ammontare del residuo fiscale, che si aggirerebbe complessivamente intorno ai 50 miliardi per il Nord, non solo è in costante riduzione dai primi anni Duemila ma è pressoché interamente destinato alla redistribuzione interna 11.
La contabilità di quanto ci guadagnano le tre Regioni e di quanto ci perdono (quasi tutte) le altre, compresa Roma capitale 12, risulta comunque falsata e parziale. Ai fini di una contabilità più equa, si dovrebbe considerare la prima voce di spesa pubblica, quasi sempre omessa dal calcolo, e cioè la spesa per interessi sul debito pubblico, che è sostenuta da tutto il paese mentre la sua titolarità si concentra per l’80% (secondo stime prudenziali) tra le famiglie e tra le banche del Nord 13.
In questa contabilità, poi, ma anche nella discussione, sono totalmente rimossi i consistenti flussi redistributivi interregionali «alla rovescia», da Sud a Nord, che si realizzano in molti modi, a cominciare da alcune politiche pubbliche 14. Mancano i flussi di capitali privati. Il credito nel Mezzogiorno registra costantemente un differenziale negativo tra impieghi e depositi. Ciò significa che il risparmio meridionale è impiegato dal sistema delle grandi banche (ormai tutte del Nord) per finanziare investimenti meno rischiosi e più redditizi nel Centro-Nord 15. E mancano i flussi di capitale umano: la migrazione dei laureati verso il Nord, che negli ultimi quindici anni ha svuotato il Mezzogiorno di circa 200 mila giovani qualificati, determina una perdita secca in termini di spesa pubblica investita in istruzione e non recuperata stimata in circa 30 miliardi (che equivale a più di un intero ciclo di programma di fondi europei) 16.
Secondo le stime Svimez, infine, dei 50 miliardi circa di residuo fiscale, 20 tornano direttamente al Centro-Nord sotto forma di attivazione di domanda di beni e servizi. Complessivamente, nel 2017 la domanda interna meridionale per beni di consumo e d’investimento ha dato luogo a una produzione realizzata nel Centro-Nord di 186 miliardi di euro, circa il 14% del pil. Tuttavia, la complessa rete di rapporti commerciali, produttivi, e finanziari non può ridursi a questa contabilità un po’ misera, di reciproca recriminazione. È la conseguenza del secolare processo di unificazione nazionale, delle correlazioni e dei condizionamenti tra le due aree, per cui i risultati economici e il progresso sociale di ciascuna dipendono dal destino dell’altra. Si parla di dipendenza del Sud mentre si dovrebbe più propriamente parlare di interdipendenza, dei reciproci vantaggi che si stabiliscono tra due aree strutturalmente differenti per molte ragioni ma strettamente integrate, che non sono sistemi a parte e storicamente tendono a crescere (e arretrare) insieme.
5. Tutto questo sfugge al «gioco delle secessioni», che è stato un formidabile diversivo in questi anni per un paese spesso privo di coscienza di sé. La teoria che il Sud dreni risorse dal Nord, frenando lo slancio della «locomotiva d’Italia», ha rappresentato un comodo alibi, con il quale la parte più ricca tendeva sostanzialmente ad autoassolversi dalle proprie responsabilità, nell’illusione che, liberandosi della «zavorra» meridionale, sarebbe tornata a crescere. Invece, se il Sud è come la Grecia, il Nord non è più da tempo come la Baviera.
Nella classifica europea delle regioni in base al reddito pro capite, quelle del Centro-Nord indietreggiano relativamente di più di quelle del Sud: tra il 2007 e il 2016 Lombardia ed Emilia Romagna perdono 11 posizioni, il Veneto 16, il Piemonte addirittura 36; mentre la Campania appena 9, comunque scivolando con il resto del Sud a fondo classifica. La Liguria crolla col suo ponte, il Lazio retrocede e, senza Roma Capitale, di cui pure è evidente la deriva, avrebbe un pil pro capite in linea con il resto del Sud, l’Umbria è entrata ormai a tutti gli effetti, secondo il lessico comunitario, tra le «regioni meno sviluppate». Tutta l’Italia si va facendo Mezzogiorno, nella prospettiva europea.
È stato questo declino del Nord 17 a riesumare, fuori tempo massimo, la questione settentrionale, trascinandosi tutto l’armamentario propagandistico che credevamo archiviato, a partire dal «sacco del Nord»? 18. Non ci resta che registrare il grande paradosso. Mentre la linea della Lega dilaga verso il Sud, ed è già molto oltre l’Abruzzo (dov’è primo partito), «la linea della palma» risale verso nord, avverando la previsione di Leonardo Sciascia, ed è già molto oltre Roma; mentre si ciancia di «interesse nazionale» i semi della discordia civile maturano all’improvviso nel più amaro dei frutti.
La narrazione ostile al Mezzogiorno, che ribalta tutte le ragioni fino al parossismo («è ora di smetterla con queste aree deboli che sfruttano quelle forti»!), ha contribuito a diffondere nei meridionali sentimenti di speculare ostilità. È un risentimento maturato dall’evidenza del Sud abbandonato al suo destino, per cui diventa insopportabile anche la predica moralistica di chi vorrebbe «affamare la bestia» per «responsabilizzarla». È condito di miti deteriori, come il neoborbonismo, e destinato nel migliore dei casi a un ripiegamento nel «rivendicazionismo», che rende inservibile un intero patrimonio culturale e politico maturato in un secolo e mezzo e rinnovato nel dopoguerra dai grandi partiti nazionali: il meridionalismo.
La quasi totalità del ceto professionale meridionale, vasti settori della sua intellettualità, specie giovanile, si nutre quotidianamente di un discorso antirisorgimentale, che mescola la storia di ieri con la politica d’oggi. Ora, di fronte a ciò che a tutti gli effetti potrà apparire come una «vendetta consumata sul Risorgimento, nella sua intenzione unitaria e democratica» 19, perpetrata da parte di chi ne ha avuto i maggiori vantaggi, e «senza nemmeno l’eroismo del brigantaggio», il rischio è che alla fine la secessione la invochi una parte del Sud. Un Sud che, dopo le file per il reddito di cittadinanza e i baciamano di Afragola, si ritroverà con il resto di niente, tra la collera e il disincanto.
La preoccupazione per la secessione «minacciata» al crollo della Prima Repubblica, che ha attraversato «strisciante» tutta la Seconda e «mascherata» ha inaugurato la Terza, ci ha fatto perdere di vista quella già avvenuta: la secessione «passiva», in cui si parlano lingue diverse, al Nord e al Sud, anche all’interno delle stesse parti politiche. Non a caso, le posizioni sull’autonomia differenziata oggi dividono tutti gli schieramenti. Così si smette di essere nazione 20, si consuma la rottura di una comunità politica. È la «territorializzazione della ragione», direbbe Franco Cassano, per cui è difficile tornare a ragionare.
Ragionare ad esempio sul fatto che, tra le cause del declino del Nord, vi è proprio il disinvestimento al Sud, l’affievolimento del motore interno dello sviluppo. È la lezione che avremmo dovuto apprendere dalla nostra storia migliore, quando nel dopoguerra l’intervento straordinario nel Mezzogiorno divenne funzionale allo sviluppo industriale dell’intero paese. O, ancor più, da un presente in cui le regioni del Nord, ex locomotive ora al rimorchio dell’Unione Europea a trazione germanica, al primo rallentamento del commercio internazionale e dunque delle esportazioni tedesche frena bruscamente, inchiodando il pil italiano a una stagnazione che già annuncia recessione.

6. La critica sull’«autonomia differenziata» si è concentrata sui diritti di cittadinanza e i servizi pubblici, ma cosa ne sarebbe delle strategie di sviluppo del paese? A quasi cinquant’anni dall’avvio del regionalismo, è su questo aspetto cruciale che il bilancio appare del tutto fallimentare. Agli storici il compito di individuare i nessi di causa-effetto, che sono molti e assai intricati. Ma è un’evidenza che questo paese sia cresciuto e abbia compiuto il suo salto di sviluppo in una stagione di forte centralizzazione 21, nell’èra della «prefettocrazia» vituperata da Salvemini, affermandosi nel mondo come una grande potenza industriale, mentre con il regionalismo e il decentramento si sia fermato e, privo di una strategia nazionale di sviluppo, sia arretrato 22.
L’illusione, coltivata soprattutto a sinistra, che l’ente regionale avrebbe consentito l’avvio di una «programmazione democratica», più attenta ai bisogni collettivi che non a contrattare al centro il mantenimento dei privilegi in periferia, almeno al Sud si è rivelata drammatica e si è capovolta nel suo contrario. La «regionalizzazione» dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, con l’ingresso delle Regioni nella Cassa del Mezzogiorno, ha contribuito alla sua degenerazione, moltiplicando gli spazi di intermediazione impropria, burocratica e clientelare.
Negli anni Novanta, il processo di decentramento che ha interessato tutte le democrazie europee ha assunto in Italia una dimensione fortemente regionale. Non mancano esperienze virtuose di decentramento, a livello europeo. Quasi ovunque si è affermato un nuovo centralismo regionale. Non è un caso che a pagare le conseguenze dell’austerità, del taglio agli investimenti, in questi anni, siano stati soprattutto gli enti locali.
Oggi dovremmo chiederci: tutto questo processo ha davvero avvicinato i pubblici poteri ai cittadini e al loro controllo democratico? È stato funzionale allo sviluppo? L’evidenza generale è di una proliferazione dei livelli di governo, una sovrapposizione di funzioni e competenze (su cui la Corte costituzionale non smette di fare chiarezza) che ha drasticamente ridotto l’efficienza e l’efficacia dell’intervento pubblico, in particolare per lo sviluppo, e in qualche caso ha condotto alla paralisi. Il progressivo slittamento della Regione, da ente di programmazione strategica a ente di gestione, ha determinato un aumento dei costi della macchina pubblica, al di là di sprechi e malversazioni (con gli scandali che hanno unito il paese, da Sud a Nord). Insomma, esattamente l’opposto di ciò di cui l’Italia aveva bisogno e che la richiesta di federalismo del Nord esprimeva.
L’«autonomia differenziata» segnerebbe il compimento di questo processo degenerativo. Cosa significherebbe attribuire alle Regioni la competenza sulle opere infrastrutturali, o sull’energia, o sulle politiche industriali? Sono tutte materie in cui avremmo bisogno di quella strategia europea che purtroppo manca. E invece rinunciamo ad averla a livello nazionale?
Oggi questa «secessione dei ricchi» sembra in realtà l’ennesimo capitolo di una guerra di cortile tra ultimi e penultimi. Non una prova di forza del Nord, ma di debolezza. È una parte dell’Italia che in Europa si concepisce residuale, e avverando la profezia di Marcello De Cecco si mostra «rassegnata a sacrificare i propri residui centri organizzativi della produzione, integrando la propria industria con quella tedesca, come fornitrice efficiente di parti e componenti», in uno schema che taglia fuori il Sud, nel migliore dei casi destinato a diventare «un enorme parco turistico per le vacanze dei cittadini della Mitteleuropa» 23.

7. Difficile prevedere dove porterà questa autonomia differenziataforse da nessuna parte. Ma comunque ci allontana da ciò di cui avremmo bisogno, la ricostruzione dello Stato.
Il 14 agosto 2018, a Genova, con il crollo del viadotto Morandi che ha spezzato la vita di 43 persone, è caduto l’onore dello Stato italiano. Si dice spesso che questo paese si riscopre nelle grandi tragedie. Sempre più spesso, invece, scopre lo spappolamento delle sue istituzioni. Dopo decenni di sovranità autolimitata dall’ennesimo vincolo esterno, dopo lo smantellamento delle leve di intervento pubblico nell’economia, l’abiura dell’economia mista e la sua liquidazione che buttò via il bambino con l’acqua sporca, la minorità culturale e politica con cui le nostre classi dirigenti hanno interpretato il processo di integrazione europea, bisogna averne consapevolezza: preservare il ruolo di seconda manifattura d’Europa è impossibile senza uno Stato forte, né minimo né residuale.
Il nostro Stato è debole, per ragioni storiche e attuali, e in primo luogo per la mancata tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. Dunque, la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, è prioritaria rispetto a ogni discorso regionalista. La tutela dei Lep, peraltro, equivale a un interesse nazionale: è un presupposto per l’attivazione del «potere sostitutivo» dello Stato sugli altri enti (art. 120 della costituzione). Fin qui, questo non è mai stato realmente attivato, se non con la sanzione «facile» del definanziamento degli interventi, che finisce per far pagare due volte ai cittadini i costi delle inefficienze o delle malversazioni della periferia. Ben oltre il commissariamento, serve uno Stato che agisca, ove necessario, attraverso i suoi bracci operativi, con gli standard di efficienza e di efficacia che pretende siano garantiti da tutti gli organi di governo.
Bisognerà rimettere ordine in tutti questi organi di governo. Il processo di autonomie differenziate, oltre a non dir nulla su un ripensamento complessivo delle Regioni (e delle autonomie speciali, di cui si dovrebbe trarre uno specifico bilancio), aumenta la «deriva confusionaria» perché tace, ad esempio, sul destino delle città metropolitane e sull’incerta sorte delle province. L’abolizione fallita (e un po’ improvvida) di questo ente, oltre a creare un buco nero sul governo di materie fondamentali come la viabilità secondaria e le strutture scolastiche, per cui crollano i viadotti e cadono i cornicioni, ha favorito la proliferazione di una teoria di enti intermedi (Ato idrici e rifiuti, consorzi, autorità di bacino, unioni di Comuni) di cui non si viene a capo, e dunque di stazioni appaltanti, committenze pubbliche, senza nemmeno il personale capace di applicare il nuovo codice degli appalti o di stilare un bando. Abbiamo bisogno di ricentralizzare gli acquisti di beni e servizi da parte delle amministrazioni, per evitare sprechi e corruzione: non per preparare maxigare, che pregiudicherebbero un tessuto produttivo diffuso che vive ancora di committenza pubblica, ma per offrire standard di prezzo, di predisposizione di bandi pubblici, onde avviare un public procurementper orientare verso l’innovazione tecnologica, ambientale e sociale la produzione e i servizi.
Altro che assumere docenti e medici in proprio, come vorrebbe il Lombardo-Veneto. Avremmo bisogno di un investimento nazionale, per immettere risorse umane nella pubblica amministrazione, la più piccola, vecchia e povera di competenze della media Ocse, bistrattata dalle forze politiche di turno, anche per il depauperamento dei suoi corpi tecnici. Non è nostalgia di passato, ma di futuro. Chi si occupa della digitalizzazione, poche decine di persone di ufficio a Palazzo Chigi? Con chi lo costruisci uno Stato strategico, intelligente, innovatore (imprenditore, anche)?
Tutti parlano ormai di investimenti pubblici, e tutti continuano a tagliarli: il centro-sinistra nell’ultima legislatura li ha portati al livello più basso di sempre, i gialloverdi sono riusciti nel miracolo di far peggio, passando dalla follia europea dell’austerità espansiva a quella italica dell’indebitamento recessivo. Ma se persino dopo la stagione più fredda dell’austerità non riusciamo a realizzarli, è per la strutturale perdita di capacità realizzativa, progettuale e dirigenziale, a ogni livello di governo. C’è un problema diffuso di qualità della programmazione e di capacità di progettazione. L’aver «esternalizzato» la maggior parte di queste funzioni, soprattutto a livello regionale, attraverso un sistema di assistenze tecniche in cui si annidano non di rado commistioni improprie, non ha dato grandi risultati. Il governo, nell’ultima legge di bilancio, ha opportunamente recepito la proposta di una struttura nazionale di progettazione. Bisogna realizzarla. Abbiamo molti esempi di strutture, penso all’Agenzia per la coesione territoriale, mai davvero nate per mancanza di risorse (anche umane) adeguate.
Non abbiamo bisogno di politiche industriali e di innovazione diverse per Regione, ma al contrario la necessità di rafforzare il coordinamento strategico delle politiche di sviluppo. Non bastano le cabine di regia, a cui si ricorre ogni volta in cui non si sa bene che fare. Serve una grande agenzia nazionale per lo Sviluppo, che eviti le sovrapposizioni che non ci possiamo più permettere (Investitalia proposta dal governo, Invitalia che ha svolto in questi anni ampie funzioni e che diventa proprietaria della Banca del Mezzogiorno, Ice eccetera). E serve un «Iri della conoscenza» 24, sul modello della Fraunhofer-Gesellschaft tedesca, mettendo in rete le tante realtà pubbliche e private, che consentirebbe di centralizzare le spese per ricerca&sviluppo, presidiare vasti campi di ricerca applicata e trasferimento tecnologico, generare diritti di proprietà intellettuale (condivisi, diffusi e tutelati da un unico soggetto, con costi unitari più bassi).
Infine, un intero armamentario di strumenti di intervento pubblico sull’economia è stato ammassato in un grande magazzino chiamato Cassa depositi e prestiti. Ogni governo ha usato Cdp come una bacchetta magica senza libretto d’istruzioni, senza tracciare mai un percorso trasparente e coerente verso la trasformazione in una vera e propria banca pubblica degli investimenti. L’idea che circola è di una holding, sul modello francese. E servirebbe anche a capire come le grandi aziende partecipate, che peraltro ormai coincidono con le poche grandi imprese rimaste nel nostro paese, concorrano alle strategie di sviluppo nazionale, alla crescita della produttività e del lavoro qualificato. Anche perché l’Italia non può diventare un grande discount d’impresa, per di più gestito dagli altri.
Tutte le emergenze nazionali, dalle infrastrutture al riassetto del territorio, all’istruzione, alla formazione, alla ricerca del modello di specializzazione produttiva, devono essere affrontare con un ripensamento strategico dello Stato, facendo i conti con le diversità dei territori in una prospettiva unitaria e razionale. E solo in questo quadro potrà trovare la sua collocazione il Mezzogiorno utile allo sviluppo nazionale. Anche del Nord che, arrancando, con l’autonomia s’illude di aver trovato una scorciatoia. E può ritrovare un ruolo e uno status Roma Capitale, la cui deriva è il segno più eloquente della disintegrazione dello Stato.
Ricostruire lo Stato è la priorità, nel paese in cui si ciancia di «interesse nazionale» ma rischiano di venire meno le istituzioni che lo sappiano riaffermare in Europa e promuovere nel mondo. E non in chiave di chiusura razzistica e autolesionistica, come ci propone il sedicente sovranismo, ma di apertura, in primo luogo al Mediterraneo, per ridare una collocazione geopolitica ed economica all’Italia, all’altezza di quella che avrebbe per storia e geografia.

Note:

1. G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, ebook gratuito, Roma-Bari 2019, Laterza. Per la Svimez, Adriano Giannola e Gaetano Stornaiuolo hanno prodotto uno studio sui gravi rischi e le incongruenze dell’«autonomia differenziata» a partire da un’analisi critica dei «residui fiscali»: A. Giannola, G. Stornaiuolo, «Un’analisi delle proposte avanzate sul “federalismo differenziato”», Rivista Economica del Mezzogiorno, n. 1-2, 2018.
2. L’autonomia differenziata può essere concessa in venti materie di potestà legislativa concorrente (art. 117, terzo comma: tra cui sanità, energia, infrastrutture, rapporti internazionali, credito, politiche industriali eccetera), e in tre materie di potestà legislativa statale (art. 117, secondo comma) tra cui l’organizzazione della giustizia di pace (lett. l), la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (lett. s) e le norme generali sull’istruzione (lett. n).
3. La Regione Veneto aveva presentato cinque quesiti referendari: il primo intendeva chiedere ai cittadini se volevano che il Veneto diventasse Regione a statuto speciale, gli altri tre quesiti avevano l’obiettivo di fare permanere all’interno della Regione una quota rilevante (80%) delle entrate fiscali riscosse nel territorio, solo l’ultimo faceva riferimento vago alla formula dell’articolo 116 terzo comma. La Corte costituzionale ha convalidando soltanto l’ultimo, bocciando i primi quattro.
4. Tutela e sicurezza del lavoro, istruzione tecnica e professionale; internazionalizzazione delle imprese, ricerca scientifica e tecnologica, sostegno all’innovazione; territorio e rigenerazione urbana, ambiente e infrastrutture; tutela della salute; competenze complementari e accessorie riferite alla gestione delle istituzioni e al coordinamento della finanza pubblica.
5. Riconduce alle modalità di approvazione delle intese con le confessioni religiose non cattoliche il Servizio studi del Senato della Repubblica, Il regionalismo differenziato e gli accordi preliminari con le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, Dossier n. 16, maggio 2018. La tesi sull’emendabilità della legge è invece sostenuta, tra gli altri, da M. Villone, «Autonomia, perché non si può blindare la legge», il manifesto, 12/2/2019.
6. Si interroga su questo criticamente E. Galli della Loggia, «Qualche dubbio sulla riforma. Gli errori del regionalismo», Corriere della Sera, 14/2/2019; vedi anche M. Ainis, «La fiera degli egoismi», la Repubblica, 15/2/2019.
7. Per usare una formula cara a P. Saraceno, L’unificazione economica italiana è ancora lontana, Bologna 1988, il Mulino.
8. Le informazioni e le citazioni contenute in questo paragrafo sono tratte dal Rapporto Svimez sull’economia e la società del Mezzogiorno, il Mulino 2018, a cui si rimanda per riferimenti e approfondimenti specifici.
9. Il saggio aveva un titolo eloquente: J.M. Buchanan, «Federalism and Fiscal Equity», American Economic Review, settembre 1950. Lo ricordano A. Giannola, G. Stornaiuolo, op. cit. Su questo vedi anche A. Lepore, «Il federalismo di Lilliput», la Repubblica, ed. Napoli, 9/2/2019.
10. Per un’esaustiva analisi critica delle questioni relative al «residuo fiscale» e alla ripartizione regionale della spesa pubblica, si veda G. Pisauro, Audizione del presidente dell’Ufficio parlamentare di Bilancio in merito alla distribuzione territoriale delle risorse pubbliche, V Commissione della Camera dei deputati, 22/11/2017. Anche il concetto altrettanto ambiguo di maggiore o minore «capacità fiscale» dei territori, introdotto all’articolo 119 della costituzione dall’infausta riforma del 2001, è mitigato dal riferimento «per abitante» ed è inserito nella norma che prevede la costituzione di un fondo perequativo. Di certo, come ha recentemente chiarito la Corte costituzionale con la sentenza n. 69/2016, non può essere la base per fissare precetti di giustizia fiscale e per riorganizzare le politiche pubbliche.
11. A. Giannola, C. Petraglia, D. Scalera, «Residui fiscali, bilancio pubblico e politiche regionali», Economia Pubblica – The Italian Journal of Public Economics, 2017. Vedi anche A. Giannola, C. Petraglia, D. Scalera, «Net fiscal flows and interregional redistribution in Italy: a long run perspective (1951-2010)», in Structural Change and Economic Dynamics, 39, dicembre 2016.
12. Una ricognizione delle stime e delle analisi sulle conseguenze negative per Roma Capitale dell’autonomia differenziata, A. Bassi, «Autonomia, lo Spacca-Italia che svuota Roma», il Messaggero, 2/2/2019.
13. Per A. Giannola, G. Stornaiuolo, op. cit., la spesa per interessi destinata alle famiglie residenti vale al Centro-Nord circa 15 miliardi di euro.
14. Come il saccheggio delle risorse per investimenti destinate al Sud, utilizzati in questi anni come un bancomat per le evenienze più disparate (è il caso, si ricorderà, dei famigerati fondi Fas con cui si pagavano le multe sulle quote latte degli allevatori del Nord, o persino la Scuola Europea di Varese).
15. Senza contare che le banche del Nord in crisi, in questi anni, sono state salvate con i proventi della Società per la gestione degli attivi (Sga), la bad bank del Banco di Napoli, la cui liquidazione meriterebbe storia a sé: una ricostruzione delle vicende della Sga si legga nel Rapporto Svimez 2017 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna 2017, il Mulino.
16. Secondo la Svimez, a questo si sommano i vantaggi indiretti, in termini prospettici di aumento della produttività dell’area, e nell’immediato per consumi pubblici e privati annui attivati dall’emigrazione studentesca nelle regioni del Centro-Nord, il cui valore è stimato in circa 3 miliardi di euro l’anno (causando una perdita di pari importo per le regioni meridionali).
17. Sulle vere cause del declino del Nord, è fondamentale la lettura di G. Berta, La via del Nord. Dal miracolo economico alla stagnazione, Bologna 2015, il Mulino.
18. Il riferimento è al saggio, che vorrebbe rendere «giustizia territoriale» ai territori «ricchi» del Nord e «sfruttati» dal Sud, di L. Ricolfi, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Milano 2010, Guerini e Associati.
19. La definizione è di Adriano Sofri, «Piccola posta», Il Foglio, 9/2/2019.
20. Di «post-nazione» ha parlato I. Sales, «Se il Sud rischia di diventare una post-nazione», Il Mattino, 13/2/2019.
21. Lo ricorda Guido Pescosolido, di cui si suggerisce da ultimo G. Pescosolido, La questione meridionale in breve. Centocinquant’anni di storia, Roma 2017, Donzelli.
22. Per inciso, proprio nel momento di maggiore investimento al Sud, che aveva innescato una dinamica di convergenza con benefici effetti per tutto il paese, i flussi redistributivi interni erano molto bassi: il «residuo fiscale» è esploso proprio dopo l’istituzione delle Regioni. Vedi A. Giannola, C. Petraglia, D. Scalera, Net fiscal flows and interregional redistribution in Italy: a long run perspective (1951-2010), cit.
23. M. De Cecco, L’oro di Europa. Monete, economia e politica nei nuovi scenari mondiali, Roma 1998, Donzelli, p. 23.
24. A. Aresu, G. Provenzano, «La politica industriale è tornata, ora serve un nuovo “IRI della conoscenza”», Rivista Giuridica del Mezzogiorno, 3, 2017, pp. 659 ss.