DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

venerdì 18 ottobre 2019

L' OFFERTA DI TRUMP ALL' ITALIA - IL VIAGGIO DI MATTARELLA NEGLI USA - da Limes On Line

TRUMP E L’ITALIA
Nel corso del colloquio con il presidente della repubblica Sergio Mattarella alla Casa Bianca, Donald Trump ha concesso che i dazi sull’import agroalimentare dall’Unione Europea hanno un impatto troppo duro sull’Italia. Ha poi detto che senza “il fardello [normativo] imposto dall’Ue e per nulla equo”, l’interscambio commerciale con lo Stivale sarebbe molto più ampio. In seguito, ha espresso soddisfazione perché gli italiani hanno posto freni agli investimenti cinesi nella penisola dopo un iniziale disaccordo.
Perché conta: L’Italia sta facendo pressione per rivedere i dazi approvati dalla Casa Bianca contro i paesi Ue in seguito al caso Airbus. Le tariffe entrano in vigore venerdì. Le nostre istituzioni intendono alleggerirle insistendo sul fatto di essere fra le economie più colpite dalle misure pur non facendo parte del consorzio.
Normalmente queste trattative non hanno grande rilievo geopolitico. In questo caso invece il commento di Trump sulla possibilità di aumentare i commerci italo-americano possiede un risvolto strategico. Largamente interpretato da media e commentatori come invito a Roma a proseguire la mediazione per arrivare a un accordo di libero scambio Usa-Ue, si tratta piuttosto di un’offerta al nostro paese a stemperare il vincolo con la filiera produttiva tedesca. In particolare quello del Nord Italia, che arriva a pensarsi mitteleuropeo, dunque ingranaggio della sfera geoeconomica germanica, vista sempre con sospetto oltreoceano.
Il commento sulla Cina palesa infine la necessità per un paese sorvegliato speciale come il nostro di valutare con la principale potenza d’Europa, nonché garante della nostra difesa militare e finanziaria, iniziative strategiche con altre potenze prima di aderirvi, non dopo averlo fatto. Anche perché Washington ha fatto dei rapporti tecnologici e commerciali con la Cina delle province del proprio impero una linea rossa.
Per approfondireQuale Italia vuole l’America



martedì 8 ottobre 2019

TRUMP, ERDOĞAN, I CURDI E LA SIRIA: LE REALTÀ DIETRO LA RETORICA - IL VIA LIBERA AMERICANO ALL' INVASIONE TURCA DEI TERRITORI DEI CURDI IN SIRIA, AVVERSARI STORICI DI ANKARA E FIERI COMBATTENTI CONTRO L' ISIS - Un articolo di Lucio Caracciolo.

L’annuncio della Casa Bianca fa chiarezza sui diversi (dis)interessi mediorientali di Stati Uniti e Turchia, presunti alleati Nato. Pentagono e intelligence faranno di tutto per ostacolare le decisioni astrategiche del presidente. Gli ultimi a poter alzare il dito sono gli europei.


L’annuncio con cui Trump lascia mano libera a Erdoğan per penetrare nella Siria nord-orientale e stabilirvi una “zona di sicurezza” a spese dei curdi rivela alcune realtà di fatto oscurate dalla retorica corrente.

Primo. Stati Uniti e Turchia sono alleati solo sulla carta. Poiché anche noi partecipiamo della stessa alleanza (Nato), ciò non dovrebbe lasciarci indifferenti – niente paura: lo siamo. Già il fatto che uno Stato “atlantico” come la Repubblica Turca si armi con missili russi di difesa antiaerea S400 è abbastanza dimostrativo di come entrambe le parti interpretino il vincolo che formalmente le lega. Mosca e Ankara, storiche nemiche, mai sono state tanto vicine. Non sappiamo per quanto.

Secondo. Nel caso siriano, la divaricazione fra americani e turchi è strutturale. Gli Stati Uniti, superpotenza mondiale, considerano il Medio Oriente sempre meno rilevante. Ne hanno percezione tattica, reattiva. Si contentano di preservare un precario equilibrio tra le potenze regionali e di assicurare l’esistenza di Israele. Punto. Dei curdi a Washington non può importare di meno. Servono, quando servono, per spostare di qualche grado l’angolo della bilancia mediorientale. Per esempio nella battaglia contro lo Stato Islamico, allegramente dichiarata vinta. Al resto provvedono le varie fazioni curde che sognando il Grande Kurdistan continuano a battagliare fra loro, in omaggio a quest’antica tradizione.

Terzo. Per Erdoğan l’operazione “Fonte di pace” non è invasione di un paese straniero. È polizia domestica. La carta mentale del presidente-sultano resta quella del Patto Nazionale, varato il 2 febbraio 1920 dall’ultimo parlamento ottomano. Quella Grande Turchia – minima rispetto alle ambizioni più sfrenate di Erdoğan, preoccupato di “comparire con la testa ben alta” alla presenza di Solimano il Magnifico, quando gli toccherà – comprende un’ampia fascia di territorio formalmente siriano e iracheno, lungo la direttrice Aleppo-Mosul-Arbil-Kirkuk. Il Kurdistan siriano e quello iracheno. Fino a ieri parte di Siria e Iraq. Oggi terre contese, stante che quegli Stati – come molti altri – esistono solo nelle carte politiche che pigramente o cinicamente continuiamo a ostentare. Ai curdi siriani non resterà forse che tendere la mano ad al-Asad, visto che di protettori esterni si è persa ogni traccia. Quanto ai “connazionali” sparsi nella regione, fanno come d’uso gli affari loro.

Quarto. Il pretesto avanzato da Ankara per annunciare l’occupazione di una parte della ex Siria è la necessità di allocarvi una quota dei 3,6 milioni di profughi siriani attendati in Turchia. Si tratta di coloro che la signora Merkel, quando ancora parlava a nome e per conto dell’Ue, volle assicurarsi non muovessero verso sponde europee e finissero per bussare alla sua porta. Per questo promise congruo indennizzo a Erdoğan. Il quale giudica ormai tale compensazione del tutto insoddisfacente. Quindi si appresta a muovere nella zona curda. Gli ultimi a poter alzare il ditino contro il sultano sono gli europei, tedeschi in testa, che pensavano di poter affittare Erdoğan quale guardiano di profughi. Neanche fosse Gheddafi.

Quinto. Trump dixit. Non necessariamente alle parole seguiranno fatti. Si è perso il conto dei ritiri annunciati di truppe americane dal terreno siriano. Un contingente significativo resterà comunque nell’area, disponendosi a semicerchio per assistere allo scontro turco-curdo dalle poltronissime di prima fila. Né il Pentagono né l’intelligence – oltre ad alcuni autorevoli senatori repubblicani – paiono sedotti dalla scelta di Trump. Interpreteranno molto liberamente l’uscita del presidente. Il quale ad ogni buon conto si è autopreparato il contrordine, via tweet della (pen)ultima ora: “Se la Turchia fa qualcosa che, nella mia grande e impareggiabile saggezza, io consideri sbagliato, io distruggerò e annienterò totalmente l’economia turca (l’ho già fatto una volta!).”

Il caso curdo-turco illustra come la lotta fra poteri e apparati americani stia ingolfando il motore della superpotenza. Trump ha sempre denunciato la prevedibilità del suo predecessore. Ma il confine tra imprevedibilità tattica e inaffidabilità strategica è linea sottile. Quasi invisibile.


mercoledì 2 ottobre 2019

HONG KONG, LA LINEA ROSSA DELLA CINA: un articolo di Lucio Caracciolo


La crisi nell’ex colonia britannica rivela la fragilità geopolitica della Repubblica Popolare Cinese. Un intervento armato di Pechino avrebbe conseguenze in tutto il mondo. Il più debole in questa fase è Xi Jinping.
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Il sangue scorre a Hong Kong.

Nel giorno in cui a Pechino si celebravano in pompa magna, con suoni, luci e larga esibizione di armi, i primi settant’anni della Repubblica Popolare Cinese, nella città in rivolta da mesi lo scontro fra polizia e manifestanti anti-regime ha cambiato dimensione.

Per le giovani avanguardie del movimento si trattava di mostrare che le proteste non sono destinate a spegnersi presto, anzi. Per le forze di repressione locali, che obbediscono alle direttive del governo centrale, occorreva segnare una linea rossa. Di sangue. Perché sia chiaro che Pechino non è assolutamente disposta a perdere il controllo indiretto – fra trent’anni previsto diventare totale – della porta principale fra la Cina e il mondo.

Le prossime settimane ci diranno se la possibile scalata della violenza, dai feriti ai morti alla strage, sia destinata a emulare la repressione di Piazza Tienanmen, nel 1989. Certo riportare il clima nell’ex colonia a sei mesi fa è ormai impensabile.

Qualsiasi cosa accada è evidente che Hong Kong non può essere “normalizzata” in tempi rapidi se non con la forza. Ciò che Pechino non ha interesse a fare, per le ovvie quanto incalcolabili conseguenze economiche e geopolitiche. Ma cui potrebbe sentirsi costretta, per impedire che la scintilla di Hong Kong incendi il paese. Ne metta in questione la stabilità.

La crisi di Hong Kong rivela la fragilità geopolitica della Repubblica Popolare. Quell’immenso territorio è attraversato da profonde linee di faglia. Di carattere economico e sociale: c’è ancora un abisso fra la Cina meridionale e orientale, relativamente ricca e affacciata sui mari, e le regioni interne del Nord-Ovest, assai più arretrate.

Soprattutto, le divisioni interne sono geopolitiche, culturali e antropologiche. Riguardano, oltre a Hong Kong, almeno Taiwan, Xinjiang e Tibet. Il “sogno cinese” di Xi Jinping significa anzitutto impedire che l’Impero del Centro si sfaldi, come nel secolo che intercorse fra le guerre dell’oppio e l’avvento di Mao.

La rivolta degli hongkonghesi evidenzia che il dogma «un paese, due sistemi», su cui dal 1997 si reggeva l’ambigua e limitata autonomia di quel territorio, è saltato. Se la protesta degli abitanti dell’ex colonia britannica dovesse davvero spingere Pechino all’intervento armato, tutto il sistema dell’Asia-Pacifico e dunque del pianeta entrerebbe in acuta fibrillazione.

Per esempio, Taiwan, dove l’11 gennaio 2020 si vota per il nuovo presidente, potrebbe prima o poi dichiararsi indipendente. Ne scaturirebbe automaticamente la guerra con la Cina. Gli Stati Uniti sarebbero costretti a rispondere, non fosse che per garantire i propri alleati regionali (Giappone e Corea del Sud su tutti) circa la credibilità del patto di protezione stretto con l’impero a stelle e strisce.

A Hong Kong, insomma, si decide molto più del destino di Hong Kong. Pechino, Washington, Mosca, Tokyo e tutti gli altri attori rilevanti ne sono perfettamente coscienti.

Chi rischia di più, in questa fase, è Xi Jinping. All’apparenza, dittatore assoluto. Nei fatti, è il leader oggi decisivo, ma le fazioni che da sempre lo ostacolano, e che hanno fatto fallire la sua iniziale strategia di riforme mascherata da “lotta alla corruzione”, sono pronte a eliminarlo se gli eventi precipitassero.

Nei palazzi del potere pechinese non si poteva immaginare scenario peggiore nel giorno delle grandi celebrazioni per il compleanno della dinastia rossa.

Articolo originariamente pubblicato su la Repubblica il 2 ottobre 2019.


martedì 1 ottobre 2019

IL MONDO VISTO DALLA CINA "COMUNISTA" - 1° OTTOBRE 70° della Repubblica Popolare Cinese - La carta geografica mostra come interessa da vicino Trieste


Come l’Impero del Centro guarda sé stesso e il globo.
carta di 

La carta inedita a colori della settimana, che riproduciamo integralmente sotto, è dedicata all’auto-percezione della Cina sul planisfero e alla sua effettiva proiezione intenazionale.

La mappa cartografa il Celeste Impero al centro del mondo, come potenza al contempo terrestre e marittima – un disegno sublimato dalle duplici nuove vie della seta (Bri).

Pechino fa perno su tale narrazione, all’interno e oltre confine, nel percorso di “risorgimento nazionale” culturale e geopolitico declamato dal presidente e uomo forte della Repubblica Popolare Xi Jinping.

Il fine è tornare a esercitare sullo scacchiere internazionale il peso che Pechino crede le spetti per il solo fatto di essere Zhongguo, l’impero al centro del globo dal retaggio millenario.

Da qui la rappresentazione della Repubblica Popolare quale perno del planisfero, in linea con le sue aspirazioni internazionali.

Dal Celeste Impero si irradiano le rotte terresti e marittime (anche tramite l’acquisizione del controllo di porti strategici) che puntano a connettere il resto del mondo a Pechino, attraverso, attorno e oltre l’Eurasia.

Vettori del nuovo attivismo della Cina – imperialistico e predatorio, stando agli Usa – le manovre e le rotte strategiche dell’Impero del Centro hanno difatti il potenziale per plasmare lo scacchiere globale “con caratteristiche cinesi” nei decenni a venire.

Dall’Africa all’Oceania, dal Sudest asiatico all’Indocina, dall’Asia centrale all’Europa, dal Sudamerica all’Artico. Dati la multidimensionalità dei progetti previsti o in corso di realizzazione, numero e geografia dei paesi coinvolti nella Bri e nelle rotte strategiche della Cina.

In gioco c’è anche la primazia globale degli Stati Uniti, impegnati difatti in un’offensiva anti-cinese a tutto tondo volta al contenimento delle ambizioni del Celeste Impero sui fronti economico-tecnologico, militare, di soft power.

Per approfondire
: Limes 11/18 Non tutte le Cine sono di Xi.