DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

martedì 29 agosto 2017

IL CANALE FLUVIALE (MADE IN CHINA) TRA LA GRECIA E BELGRADO - UN PROGETTO CHE FAREBBE RISPARMIARE TRE GIORNI DI NAVIGAZIONE - LA COSCO CINESE CONTROLLA GIA' IL PORTO DEL PIREO (ATENE)


La Nuova Via della Seta promossa da Pechino starebbe partorendo un altro progetto rivoluzionario che si affiancherebbe alla progettata linea ferroviaria veloce dal Pireo a Budapest, che però sta subendo rallentamenti nella sua tratta a nord per iniziativa della UE che contesta alcune modalità contrattuali.
Si tratta di un canale navigabile dal porto fluviale di Belgrado sul Danubio all' Egeo, vicino a Salonicco.
Le ipotesi in questo senso hanno raggiunto la stampa e ne parla oggi l' inserto Libero Mercato (clicca QUI) evocando il rischio che l' Europa e l' Alto Adriatico vengano bypassati.
Riproduciamo l' articolo visto il potenziale interesse per un Porto come quello di Trieste.


Indubbiamente di fronte all' attivismo cinese è necessario evitare qualsiasi inerzia o rallentamento burocratico: la vicenda del porto di Taranto il cui terminal container è ormai abbandonato a favore del Pireo dopo un iniziale interessamento dei cinesi è un invito ad adeguarsi ai tempi rapidi dei mercati globali senza lasciarsi paralizzare dai bizantinismi burocratici.

PROGETTO DA 10 MILIARDI DI DOLLARI

Il canale greco (made in China) che fregherà l'Europa










Un paio di progetti redatti 44 anni fa sotto l' egida delle Nazioni Unite studiavano la possibilità di unire il Danubio all' Egeo attraverso una serie di fiumi e canali già esistenti regolati attraverso delle chiuse. Una nuova via di navigazione lunga 650 chilometri che all' epoca per la verità, attraversando Stati e territori perlopiù sottosviluppati e poco interessati alle economie di mercato, non faceva gola a nessuno.
Era più che altro l' approfondimento accademico di traiettorie che ai tempi degli antichi permettevano il trasporto via terra e poi via fiume e mare, dell' ambra dal mare del nord alle civiltà elleniche e romane. In questi 44 anni, però, molte cose sono cambiate, sia economicamente che politicamente e quel sogno di pochi potrebbe presto diventare una realtà concreta per tanti e addirittura un mezzo incubo per altri. Ne è interessato in primis Belgrado, ma anche Skopje, e forse nell' area balcanica ancora di più Atene.
L'interesse cinese -  Ma più di tutti, ed è questo il fattore che renderà il canale fattibile in brevissimo tempo, interessata è la Cina che proprio in Grecia sta già investendo molto, a iniziare proprio dai porti (il Pireo è già per il 67% in mano al colosso asiatico Cosco), e in Serbia sta aprendo nuove prospettive industriali e commerciali. Non può essere un caso che solo un paio di mesi fa il sindaco di Belgrado ha firmato a Pechino un accordo per la costruzione di un nuovo parco industriale a Smederevo, sulle rive del Danubio, e che almeno tre compagnie cinesi (una delle quali è intenzionata a produrre auto elettriche) hanno promesso investimenti in Serbia per miliardi nei prossimi anni.
Il canale permetterebbe alle merci cinesi di raggiungere le destinazioni balcaniche e più in generale dell' est Europa con un risparmio di tempo e di denaro considerevole. Le due vie utilizzate in questo momento infatti sono quella classica di Gibilterra con destinazione al porto di Rotterdam in Olanda, lunghissima e costosa, e l' altra più breve ma più complicata politicamente e doganalmente che passa attraverso il Bosforo, controllato interamente dalla Turchia, entra nel Mar Nero e risale il Danubio.
Rispetto a quest' ultima il canale farebbe risparmiare all' incirca 1200 chilometri, oltre tre giorni di navigazione e costi annessi.
Per Pechino, che già di fatto controlla i porti greci sarebbe una manna, per Atene una festa a discapito della Turchia ma soprattutto dell' Europa del Nord, specie dell' Olanda la cui importanza da questo punto di vista verrebbe considerevolmente ridimensionata. Per la Macedonia e la Serbia potrebbe addirittura essere l' occasione per far definitivamente decollare le rispettive economie.
Via libera - Tecnicamente il progetto, anche se ancora non è stato pubblicamente reso noto in tutti i particolari, sarebbe in stato avanzato, pronto a decollare come quello del canale (anch' esso cinese) in Nicaragua alternativo a Panama. Ci sarebbe uno studio di fattibilità già pronto condotto dalla ditta cinese China Gezuba Corporation, che il presidente serbo Tomislav Nikolic avrebbe approvato e presentato al suo omologo macedone. Anche Tsipras, attraverso La Hellenic Shortsea Shipowners Association avrebbe annunciato il suo pieno sostegno. In pratica il canale sfrutta i corsi dei fiumi Axios / Vardar, Morava e Danubio, parte da Salonicco e arriva dritto a Belgrado.
Pechino, per quella che è già stata battezzata "la nuova via della seta", prevede un investimento iniziale di 10 miliardi di dollari. Soldi ben spesi se si considera che grazie agli accordi di libero scambio tra i Balcani e la Ue, la Repubblica popolare potrebbe accedere direttamente al mercato di 800 milioni di persone aggirando le restrizioni commerciali che la Ue mette in atto.
di Carlo Nicolato

venerdì 25 agosto 2017

VISEGRAD, IL NUCLEO DURO DELLA CONTRO-EUROPA SOVRANISTA ( Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia ) - Un articolo di Affari Internazionali sul gruppo di paesi centroeuropei vicini a Trieste -


VISEGRAD, IL NUCLEO DURO DELLA CONTRO-EUROPA SOVRANISTA 

di Andrea Carteny

L’estate 2017 ha portato nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica europea il gruppo dei quattro Paesi del club diVisegrad (V4): Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, che – rappresentando circa 65 milioni di europei – insieme hanno un peso di popolazione pari a quello della Francia all’interno dell’Unione europea (Ue). In piena discussione sul futuro dell’Europa dopo il referendum sulla Brexit, l’estate ha portato alla ribalta il V4 come area geopolitica di riferimento in senso sovranista. Che questo periodo di iperattività coincida con l’anno di presidenza ungherese è per di più non casuale, essendo Budapest particolarmente dinamica nel proporsi come punto di riferimento regionale ed europeo.
Sovranismo e flussi migratori
In tempi di migrazioni, il governo ungherese di Viktor Orbán esercita una sorta di attrazione particolare proprio sugli altri Paesi del gruppo di Visegrad: mentre con la Polonia governata dal PiS (“Legge e Giustizia”) di Jarosław Kaczyński, però, si sarebbe creato una sorta di “asse”, la Repubblica Ceca e la Slovacchia non seguirebbero Budapest e Varsavia sulla strada del sovranismo illiberale.
Come nel caso della lettera diffusa il 20 luglio e indirizzata al governo italiano sulla questione dei migranti, presentata come un’iniziativa del governo ungherese di Orbán condivisa da quello polacco, ceco e slovacco, la posizione del V4 richiamava l’Italia al rispetto delle regole sul controllo dei confini esterni dell’area Schengen. “Austria e Germania ne hanno avuto abbastanza”, è il presupposto della richiesta di chiusura dei porti ai migranti economici, con la disponibilità a cofinanziare hotspot in Africa per selezionare i richiedenti asilo prima del loro ingresso nel territorio dell’Ue.
In realtà, già qualche giorno prima una posizione analoga era emersa dalle parole del ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz: il leader popolare, aspirante al cancellierato nelle elezioni di ottobre, aveva ammonito l’Italia a non trasferire i migranti sulla terraferma e a mantenerli nelle isole, come Lampedusa, in attesa dei processi di identificazione e concessione di asilo. In pratica, pur con le inevitabili differenze e posizioni dei governi nazionali, su una questione come l’emergenza migranti il V4 si presenta come un bastione del rispetto delle frontiere e della difesa dell’identità europea.
Sebbene la lettera dei V4 sia stata recepita con forte irritazione in Italia, in altri Paesi la mossa politica ha riportato l’accento sull’isolamento italiano nella gestione dei migranti provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo.
Solidità all’indirizzo di Bruxelles
Nelle stesse ore, si evidenziava una certa capacità di iniziativa dei V4 nell’incontro promosso a Budapest con il capo del governo di Israele Benjamin Netanyahu. La conferenza ha promosso iniziative bilaterali dei V4 con lo Stato ebraico, nell’ambito delle tante opportunità “non” sfruttate di cooperazione dell’Europa con Israele. Netanyahu, proprio di fronte a un pubblico che in qualche modo avrebbe apprezzato la critica, credendo che i microfoni fossero spenti si lasciava andare a uno sfogo contro l’Ue “folle”, accusando Bruxelles di tentare di condizionare la politica di Israele (cosa che altri grandi paesi come Russia o India non farebbero).
Le condizioni economico-sociali simili, poi, che fin dall’inizio hanno caratterizzato i tre (con la Cecoslovacchia) e poi quattro (con Repubblica Ceca e Slovacchia) Paesi della fascia occidentale dell’ex blocco comunista, permettono anche a cechi e slovacchi di far forza sul peso del V4 per avanzare richieste a Bruxelles e al nucleo dei paesi fondatori dell’Unione. È stato ultimamente il caso del mercato del lavoro e della differenza del costo salariale, per cui la più bassa retribuzione dei lavoratori dei Paesi centro-orientali funziona come un fattore di “social dumping” nei confronti dei lavoratori dei Paesi della vecchia Europa.
Dopo un primo incontro con i leader del V4 svoltosi a fine giugno a Bruxelles, il presidente francese Emmanuel Macron ha tenuto un nuovo meeting sul tema il 23 agosto a Salisburgo – prima tappa di una tre giorni nell’Europa centro-orientale – con il cancelliere austriaco Christian Kern e i capi di governo ceco e slovacco Bohuslav Sobotka e Robert Fico: un’occasione in cui l’inquilino dell’Eliseo ha annunciato la volontà di rivedere la direttiva Ue sui lavoratori distaccati, che ad oggi è un “tradimento dello spirito europeo”.
Se la solidità del V4 sembra dunque incentrata su posizioni nazionaliste e sovraniste anti-migranti, questa stessa rigidità sembra non dispiacere più di tanto a vicini come l’Austria, la Slovenia e la Croazia, che vedono il V4 – come in occasione dell’ultimo meeting lo scorso 10 luglio – come punto di riferimento per la stabilizzazione e la cooperazione dell’intera area dei Balcani occidentali.
Analogie e differenze nel blocco
Di fatto, Budapest e Varsavia si presentano decisamente solide al proprio interno: il governo Orbán, in attesa di nuove elezioni nel 2018, è ben saldo al potere con il sostegno di 2/3 del Parlamento. Anche il governo polacco guidato da Beata Szydło non è impensierito dai movimenti di piazza e da quelli anti-establishment e anti-partitocrazia. Alcune analogie emergono nelle coalizioni di Praga e Bratislava, anche se di recente entrambe presentano crescenti difficoltà.
La Repubblica Ceca che si affaccia alle legislative di ottobre ha vissuto a maggio una crisi di governo fra i due maggiori partner della coalizione, il Partito social-democratico del premier Sobotka e la formazione Ano 2011 (“ano” significa “sì” ma è anche la sigla per “azione di cittadini insoddisfatti”), fondata dall’imprenditore multimilionario Andrej Babiš. Ano 2011, che in un paio di anni ha raccolto il 18% in più di consensi sulla base della critica all’euro e contro la burocrazia di Bruxelles, è adesso in testa ai sondaggi.
Anche in Slovacchia il governo di coalizione è guidato dai social-democratici di Smer (“Direzione”), che nelle elezioni dello scorso anno hanno mantenuto la maggioranza relativa, pur se coinvolgendo formazioni in partenza differenti per cultura politica: dal nazionalista Partito nazionale slovacco fino al movimento ungaro-slovacco Most-Híd (che significa in entrambe le lingue “ponte”, e raccoglie, con il 6,5%, la maggior parte dei consensi della comunità ungherese della Slovacchia meridionale, insieme a un bacino di voti slovacchi). Un’alleanza resasi necessaria anche per far fronte al preoccupante successo elettorale del Partito del popolo Nostra Slovacchia, formazione di estrema destra anti-rom, filorussa, contro l’Ue e la Nato. Nella Slovacchia a guida socialdemocratica, così come in Ungheria, le posizioni di sovranismo espresse dai governi sulla questione della ricollocazione dei richiedenti asilo godono di un generale consenso nell’opinione pubblica, non solo di destra, e sono finalizzate a non lasciare troppo spazio politico sul tema alle formazioni estremiste.
Il gruppo di Visegrad, in questi ultimi tempi, ha dunque evidenziato al proprio interno le sintonie di approccio e cultura politica e lasciato in secondo piano i contrasti (come sulle autonomie e sulla concessione della doppia cittadinanza per le comunità minoritarie interne agli Stati, noti ambiti di tensione tra Ungheria e Slovacchia): la resistenza al piano di ricollocazione dei migranti costituisce per i quattro paesi un tema di facile mobilitazione per le opinioni pubbliche nazionali e potrebbe, in qualche modo, anche risultare utile per tentare di evitare la pericolosa affermazione elettorale e di consenso di formazioni neonaziste e movimenti populisti all’interno della fascia geopolitica che va dal Baltico ai Balcani.

mercoledì 23 agosto 2017

The Boat Pope: perché Francesco sfida sondaggi e governi sui migranti - Un articolo di LimesOnLine per i nostri lettori


La migrazione subsahariana e in generale dal Sud del globo si presenta come un poderoso, “provvidenziale” moto di evangelizzazione del Nord secolarizzato, a opera della demografia, nei luoghi dove avevano fallito le gerarchie. Perciò sulla questione ai democristiani europei il pontefice non lascia neanche una scialuppa di salvataggio.

“Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi”: lo ius soli tremila anni prima di Paolo Gentiloni e Matteo Salvini, direttamente dal libro del Levitico, il più politico e giuridico dei testi biblici.

Comincia così, strutturale e congiunturale, dogmatico e pragmatico, dalle profondità del tempo e dalle necessità del momento, il messaggio di Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato.

Rivolgendosi all’umanità nel suo insieme ma guardando contestualmente alla duplice ravvicinata vicenda elettorale, tedesca e italica, che da qui a primavera potrebbe incrinare o comunque modificare il profilo e la postura, forse la natura stessa della Mitteleuropa. Isolando il Vaticano e privandolo dell’asse, fatidico e neodemocristiano, fra Roma e Berlino. Motivo che, dopo i distinguo agostani all’interno della Cei e dell’universo cattolico, ha indotto il pontefice a intervenire in prima persona e non delegare a nessuno in sua vece.

In un ambito che, del resto, Bergoglio ha riservato deliberatamente a sé sin dagli esordi, avocandone il portafoglio ministeriale, con un passo senza precedenti nei percorsi costituzionali della monarchia d’Oltretevere: “Nell’istituire il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ho voluto che una sezione speciale, posta ad tempus sotto la mia diretta guida, esprimesse la sollecitudine della Chiesa verso i migranti, gli sfollati, i rifugiati e le vittime della tratta”.

Così, mentre il parlamento italiano rinvia in autunno – e nell’intento dei più all’indomani del voto – la discussione sulla cittadinanza, il papa si sostituisce ai legislatori e scende in campo a “disciplinare”, con piglio garantista sino al dettaglio, i punti di maggiore attrito: dai ricongiungimenti familiari alla semplificazione dei visti, dai servizi di base alla libertà di movimento. Un testo e uno stile “surfistico”, lo definiremmo, da cui emerge e si erge provocatoria, di riga in riga, una volontà di sfidare l’onda montante dei sondaggi e sfiorare il point break: il punto di rottura con la pubblica opinione.

Accogliere, proteggere, promuovere, integrare: sono questi, secondo il Vicario di Cristo, i verbi che incarnano e declinano il Verbum Domini, all’inizio del Terzo Millennio. Quattro pietre angolari che, nella sua visione, dispiegano la geometria e sostengono la strategia per quadrare il cerchio, venendo a capo del tema – e problema – intorno al quale ruota – e si avvita – il pianeta.

In realtà, più che gli angoli del quadrato, le parole di Bergoglio sembrano evocare gli spigoli: quelli che i governi provano ad aggirare per non naufragare. Ma che l’autore al contrario prende di punta e non si perita di smussare.

Francesco allarga infatti una volta per tutte il concetto di “accoglienza”, senza distinzione tra i rifugiati che fuggono “dalle guerre e dalle persecuzioni” e i migranti economici che vengono spinti “dai disastri naturali e dalla povertà”. Né ammette che la “sicurezza nazionale” possa offrire pretesti alla chiusura delle frontiere, anteponendosi alla “sicurezza personale” di coloro che chiedono asilo.

Per tornare, a conclusione, allo ius soli. Slegato dai “requisiti economici e linguistici” e integrato con lo ius culturae, ossia con il diritto alla identità culturale. Fuori da tentativi o logiche di assimilazione forzosa.

Pochi testi al pari di questo hanno tracciato con altrettanta evidenza, per i posteri, le coordinate di un pontificato che individua nella deriva di masse umane l’orizzonte geopolitico, nonché il tratto caratterizzante del suo mandato storico. Identificando la barca di Pietro e i barconi dei profughi.

Dai boat people al boat Pope. Una scelta che, si badi bene – volendo laicizzare il ragionamento – qualunque amministratore delegato di una holding multinazionale opererebbe alla medesima stregua, seguendo i diagrammi statistici e riposizionando l’azienda “Chiesa” dove il mercato cresce.

L’annuario vaticano c’informa infatti che l’Africa, nell’azionariato mondiale del cattolicesimo, detiene ormai una quota d’anime del 17,3% (con un aumento dell’1,8 tra il 2010 al 2015), mentre l’Europa nello stesso periodo è calata dell’1,6 fino all’attuale 22. Proiezione che nell’arco di una decade o poco più rende prevedibile, inevitabile il sorpasso.

A leggerla in tale cornice, la migrazione subsahariana e in generale dal Sud del globo – includendovi l’emisfero americano e il confronto sul muro del Rio Grande – si presenta quindi come un poderoso, “provvidenziale” moto di evangelizzazione del Nord secolarizzato, a opera della demografia, nei luoghi dove avevano fallito le gerarchie.

Un discernimento che agli eredi del pescatore di Galilea e degli apostoli mostra tout court la rotta da intraprendere, con risolutezza, senza soste o tappe intermedie di navigazione.

Ma che ai democristiani europei, progressisti o conservatori di sorta, non lascia boe o basi di ancoraggio. Tanto meno scialuppe di salvataggio. Strattonati da Est e Ovest tra Brexit ed ex-comunismi, nazionalismi e revanscismi. Oppure sospesi fra Settentrione e Meridione. Tra il richiamo vitalista del populismo alpino e lo spasmo di morte del mulinello mediterraneo.



venerdì 18 agosto 2017

Il ballo del gallo decapitato: lo Stato Islamico a Barcellona -NO TINC POR - Un articolo di LimesOnLine sull' attentato di ieri.


NO TINC POR: non abbiamo paura. E' lo slogan gridato oggi a Barcellona, capitale della Catalogna che il prossimo ottobre voterà il Referendum per l' Indipendenza.
Proponiano l' articolo odierno della edizione on-line di Limes.


Il ballo del gallo decapitato: lo Stato Islamico a Barcellona

Indebolito sul terreno in Siraq e Libia, l’Isis rimane capace di colpire in Europa sfruttando l’ideologia e la sua capacità di veicolarla sui social media.


“Gli esecutori dell’attacco di Barcellona sono soldati dello Stato Islamico”. Così giovedì sera l’agenzia stampa Amaq, megafono ufficiale del sedicente Stato Islamico (Isis), ha rivendicato l’attentato terroristico nel cuore della capitale catalana.

Si legge nel breve comunicato circolato su Telegram e Twitter, prima in lingua araba e poi in spagnolo: “Una fonte di sicurezza all’agenzia Amaq: gli esecutori dell’attacco di Barcellona sono soldati dello Stato Islamico e hanno compiuto questo attacco in risposta agli appelli di colpire i paesi della Coalizione”. Per “coalizione” si intende la Global Coalition against Daesh, cui partecipa anche la Spagna con poco più di 300 soldati impiegati in Iraq in attività di addestramento delle forze irachene che combattono i seguaci di al-Baghdadi.

La rivendicazione ufficiale da parte dell’Isis è giunta alcune ore dopo che il furgone aveva falciato decine di persone su La Rambla, uno tra i luoghi a maggiore densità turistica nella capitale catalana. In passato, e in attacchi simili, l’Isis aveva già pronta la rivendicazione che iniziava a circolare entro un’ora o poco più dall’esecuzione dell’attacco.

Questa volta ci sono volute diverse ore. Un aspetto tecnico, che però mette in evidenza due fattori.

Primo: la macchina propagandistica dell’Isis, il suo ufficio stampa centrale, ha pesantemente risentito delle sconfitte subite sul terreno, in particolare in Iraq, Siria e Libia. In quest’ultimo paese l’attività mediatica dello Stato Islamico si è praticamente fermata dopo l’inizio delle operazioni militari che hanno costretto i seguaci di al-Baghdadi ad abbandonare Sirte, la loro capitale libica de facto.

Secondo: il fatto che siano trascorse diverse ore prima della rivendicazione sembra confermare che azioni come quella di Barcellona sono condotte da soggetti o cellule che si muovono autonomamente rispetto alla scala gerarchica dell’Isis e che compiono l’attacco in nome dell’ideologia e degli appelli lanciati dal cosiddetto Califfato. Il quale, se l’attacco appare utile a fini propagandistici, lo rivendica limitandosi a cambiare la data e il nome della città sul comunicato targato Amaq, divenuto un format. La frase è sempre la stessa: “Una fonte di sicurezza all’agenzia Amaq: gli esecutori dell’attacco a… sono soldati dello Stato Islamico e hanno risposto agli appelli a colpire i paesi della Coalizione”.

Dal punto di vista investigativo, le autorità spagnole, sostenute da quelle marocchine e probabilmente dagli altri apparati occidentali, stanno lavorando in queste ore per comprendere non soltanto i dettagli dell’azione ma chi siano i responsabili. Moussa, uno dei sospettati, sarebbe tornato dal Marocco una decina di giorni fa. Capire cosa abbia fatto in questi giorni e chi abbia incontrato potrà essere rilevante nelle indagini.

A prescindere dall’identità dell’autista del furgone – Driss Oukabir o suo fratello Moussa, entrambi marocchini – è evidente che l’attacco sia di matrice islamista violenta e che sia stato quantomeno ispirato dall’Isis e da precedenti azioni simili compiute in nome dell’Isis, come la strage a Nizza del 14 luglio 2016.

L’attentato di Barcellona è un attacco a tutta l’Europa e a tutto l’Occidente, ma anche ai paesi arabo-musulmani che contribuiscono alla lotta all’Isis. La Rambla è la via di Barcellona più frequentata dai turisti, non soltanto occidentali ma anche arabo-musulmani. Negli ultimi anni le autorità spagnole hanno smantellato diverse cellule jihadiste legate all’Isis, principalmente composte da elementi di origine maghrebina, in particolare marocchini.

Soprattutto negli ultimi mesi, sono state frequenti le visite dei funzionari spagnoli in Marocco, per rafforzare la già ottima cooperazione tra i due Regni nel campo della sicurezza e della lotta al terrorismo. Ciò ha permesso di sventare numerose azioni terroristiche – non quella di ieri.

Dal punto di vista operativo, è molto più complesso impedire a un soggetto alla guida di un veicolodi falciare dei pedoni piuttosto che sventare un’azione che richiede l’utilizzo di esplosivi, in quanto questa seconda opzione espone sicuramente a un maggiore rischio di cadere sotto la lente degli apparati di sicurezza. L’Isis lo sa e nella sua propaganda ha spesso fatto riferimento a operazioni simili. Lo sanno ancora meglio i suoi “lupi” che si muovono sul terreno.

Emulazione? Distorsione e strumentalizzazione della religione? Complotto? Piuttosto, terrorismo. Terrorismo psicologico che si autoalimenta sui social network. L’Isis, con tutte le sfumature, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano questa organizzazione, sta perdendo la sua battaglia militare sul campo, dalla Libia al Siraq.

Oggi è paragonabile a un gallo decapitato che “danza” ciecamente senza meta, convinto di non poter vivere a lungo senza una testa, dunque pronto a tutto perché sul terreno ha perso (quasi) tutto. Agli osservatori era noto che con le sconfitte militari dell’Isis sarebbe aumentata la minaccia di azioni singole e autonome con date e bersagli difficilmente prevedibili – ma sempre nel cuore dell’Occidente, in particolare nei paesi della Coalizione internazionale anti-Isis.

Indebolito sul terreno, lo Stato Islamico rimane forte nell’ideologia e nella sua veicolazione tramite le reti sociali. L’Isis è per i giovani radicalizzati islamici ciò che per i giovani occidentali sono i giochi di violenza proposti da Play Station o Xbox: un’alternativa alla realtà, in cui l’arma di riscatto è la violenza come espressione della propria forza e superiorità.

Un riscatto sociale che per i musulmani nati in Occidente da genitori emigrati trova spesso la sua naturale dirompenza nella religione, o meglio nell’interpretazione errata o quantomeno a senso unico del jihad, la lotta.

Dunque il nocciolo del problema non era Al-Qaeda ieri, non è l’Isis oggi e non sarà il gruppo che domani sostituirà l’Isis. Il nocciolo è rappresentato da diverse sfaccettature, in primis la convivenza di due sistemi culturali – occidentale e musulmano.

Quando la convivenza fallisce, produce delle bolle come l’Isis. Che strumentalizzano e alimentano questo contrasto rievocando nelle menti facilmente influenzabili di giovani musulmani disorientati l’idea che la loro unica forza e dignità sia nella versione oscurantista e violenta dell’Islam propagandata da una scuola di pensiero che rimane diffusa in ambienti radicalizzati, tanto in Occidente quanto nei paesi arabo-musulmani.

L’autore è direttore di Cosmonitor

lunedì 14 agosto 2017

I PRINCIPALI PARTITI ITALIANI NON HANNO PROGRAMMI ECONOMICI SOSTENIBILI : Un articolo di LimesOnLine


Proponiamo in escluiva un articolo pubblicato oggi da Limes in edizione On Line (clicca QUI)

I PRINCIPALI PARTITI ITALIANI NON HANNO PROGRAMMI SOSTENIBILI
Non è possibile mantenere la spesa pubblica e contemporaneamente abbassare le imposte. Eppure, malgrado il prevedibile aumento del deficit, il nostro paese dovrebbe scampare a un attacco speculativo sui mercati in vista delle prossime elezioni. Non per meriti non propri, naturalmente.


I programmi dei partiti principali in vista delle prossime elezioni politiche in Italia prevedono una spesa pubblica invariata e un taglio alle imposte.

La decurtazione delle spese non raccoglierebbe i voti di coloro che si immaginano penalizzati, ossia – in un mondo di individui sospettosi – tutti, mentre la riduzione della pressione fiscale sarebbe vista con favore dai contribuenti.

Proponendo piani simili, i grandi partiti pensano di garantirsi un maggior numero di voti. Ma così facendo alimentano la credenza che si possano avere gli stessi beni e servizi pubblici di prima, mentre il reddito a disposizione è aumentato.

Una spesa invariata a fronte di minori entrate genera infatti un deficit, che va finanziato con l’emissione di moneta o con l’emissione di obbligazioni, oppure con una combinazione di questi due strumenti.

Non tutti i partiti hanno le stesse idee sulla questione dei finanziamenti: c’è chi vuole emettere solo obbligazioni e chi spinge per emettere anche moneta, o meglio, un nuovo tipo di moneta.

La moneta non può essere l’euro, perché viene emesso dalla Banca Centrale Europea. Il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) italiano potrebbe perciò emettere titoli – i Certificati di credito fiscale (Ccf) – per finanziare l’aumento della spesa pubblica. Questi sarebbero utilizzabili dai privati per la risoluzione del contenzioso fiscale con lo Stato in sostituzione dell’euro, in un rapporto di uno a uno. Non sarebbe perciò possibile presentare i Ccf al Mef per l’incasso in cambio di euro. I Ccf sono, in fin dei conti, dei crediti illiquidi. Vale a dire, a differenza degli euro e dei Btp, non realizzabili in ogni momento sui mercati finanziari. Tralasciamo la nebulosa vicenda della moneta emessa a Roma oltre che a Francoforte e torniamo al dibattito precipuo.

Secondo il punto di vista dominante, la spesa pubblica dovrebbe restare invariata, mentre le imposte andrebbero tagliate, creando un maggiore deficit. Quest’ultimo sarebbe però compensato dalla maggiore crescita economica, a sua volta figlia del minor carico fiscale. Sentendosi meno “torchiati”, i privati tornerebbero infatti a consumare e investire, accrescendo il reddito nazionale che genera un maggior gettito anche con aliquote d’imposta minori.
Queste sono le idee che si imposero negli Stati Uniti con la presidenza di Reagan e che sono riemerse con quella di Trump. La proposta ultima del segretario del Partito democratico Matteo Renzi – rivedere le regole fiscali europee per avere, in assenza di tagli alla spesa, un deficit maggiore da utilizzare per ridurre le imposte – va in questa direzione.

I seguaci delle politiche keynesiane tradizionali pensano che questa politica sia un grave errore,  poiché il moltiplicatore (di quanto aumenta il reddito nazionale per ogni euro aggiuntivo di spesa o di taglio delle imposte) è maggiore di uno per la spesa pubblica per investimenti e inferiore a uno per il taglio delle imposte. Perciò, se si espande il bilancio in deficit per finanziare gli investimenti pubblici, il reddito nazionale cresce molto più di quanto avverrebbe col taglio delle imposte, lasciando la spesa pubblica invariata.

Anche ammettendo la bontà della tradizione keynesiana, si potrebbe obiettare che non si vincono le elezioni proponendo il rinnovo delle infrastrutture pubbliche diluito negli anni mentre si lascia la speranza di una riduzione delle imposte imprigionata in un lontano futuro.

Portata al suo estremo, la proposta keynesiana classica suona così: si emettono obbligazioni che finanziano opere publiche, ossia obbligazioni “di scopo”. Queste sono acquistate anche dalla Banca Centrale. Avremmo un nuovo Quantitative Easing (Qe), l’acquisto di obbligazioni da parte della Banca Centrale, che però non si concentra sui titoli del Tesoro – che per loro natura sono “generici” – bensì sui titoli “dedicati”. Questa proposta è stata fatta tempo fa da Corbyn; il suo nome pop è Qe for the people.

Ideologicamente parlando, abbiamo così all’estrema destra il mantenimento del livello corrente della spesa contestuale al taglio delle imposte, con il deficit finanziato anche dall’emissione di moneta fiscale. E all’estrema sinistra il mantenimento del livello corrente delle entrate con l’incremento della spesa pubblica per investimenti specifici, finanziata con l’emissione di obbligazioni.

In mezzo ci sono i programmi effettivi dei partiti maggiori, simili tra loro, rispetto ai quali la scelta politica dell’elettorato non è mai riducibile a quella economica. Un elettore, infatti, non sceglie sulla base dei soli esercizi econometrici, che mostrano (forse) quale dei due succitati estremi o quale combinazione faccia crescere maggiormente l’economia. Un elettore potrebbe scegliere per ragioni politiche il programma che riduce il peso dello Stato per promuovere la libertà, oppure quello che lo amplia per aumentare l’eguaglianza.

Eccoci all’impatto finanziario delle elezioni. Lo scenario probabile è che nessuno vinca: i tre maggiori raggruppamenti hanno programmi economici simili e ciascuno un 30% dei voti, per di più in assenza di un premio di maggioranza.

I mercati finanziari dovrebbero, a cavallo delle elezioni, scommettere che si avrà una crescita trainata dalle minori imposte in grado di controllare il debito pubblico, che è di dimensioni ragguardevoli. Solo facendo questa scommessa i mercati non chiederebbero – per coprirsi dal rischio di un debito “galoppante” – un rendimento molto maggiore sui titoli in scadenza e di nuova emissione italiani.

Un eventuale maggior rendimento richiesto dagli investitori, frutto della mancanza di fiducia in soluzioni neo-reaganiane applicate a un paese dall’ingente debito pubblico, non avrebbe però un impatto devastante sui conti pubblici: il nostro debito ormai scade lentamente e la Banca centrale che lo ha accumulato non dovrebbe venderlo.
Durante la crisi del 1992 – quella della svalutazione della lira e della manovra monstre da 93 mila miliardi di lire varata dal governo Amato – il debito pubblico aveva una vita media piuttosto bassa, poco meno di tre anni, che alimentava la preoccupazione per i tempi stretti in cui il Tesoro trovava a rinnovare i propri titoli. Oggi la vita media del debito è di quasi sette anni. Via Venti Settembre si trova perciò in una situazione molto diversa, a differenza del passato, allineata agli altri paesi dell’Eurozona.

C’e chi ritiene che i rendimenti non potranno che salire qualora la Banca Centrale smettesse di acquistare obbligazioni. L’approccio “purista” afferma che la Bce compra obbligazioni quando necessario e, terminato il periodo che richiedeva questa politica straordinaria, realizza – ossia non rinnova e vende sul mercato – le obbligazioni in scadenza. In questo modo abbatte il proprio attivo che si era gonfiato e tutto torna come prima. Nel caso purista, il bilancio della Banca centrale torna “snello”, mentre s’ingrossa quello dei privati.

Il ritorno alla situazione ante-crisi non è indolore. Il settore privato, che ha acquisito una parte del debito emesso negli anni di crisi, dovrebbe assorbire anche quello acquistato nello stesso periodo da Francoforte. Il tutto in un contesto – si dovrebbe avere una ripresa dell’economia reale – di rialzo della curva dei rendimenti, ossia della disposizione per scadenze dei tassi e dei rendimenti. Il costo economico e politico per il bilancio pubblico di questa combinazione (rialzo dei tassi e vendita dei titoli della Bce) potrebbe rivelarsi troppo alto.

La conclusione è allora che la Banca centrale rinnovi i titoli in scadenza in modo che non si abbia una pressione sui portafogli dei privati. I titoli sarebbero perciò rinnovati, mentre le cedole in gran parte tornerebbero al Tesoro perché le Banche centrali, rafforzato il proprio bilancio, debbono rendere ogni surplus – ossia, i frutti del signoraggio – allo Stato. In altri termini, una soluzione che preveda il congelamento del debito pubblico acquistato dalle Banche centrali negli anni di crisi.

Se anche a cavallo delle elezioni ci fosse una crisi finanziaria non devastante – “non devastante” perché il debito pubblico ha ormai una vita media lunga e perché la Bce non vende i titoli del Tesoro che ha in portafoglio – avremmo lo stesso chi punterà il dito contro l’avida finanza e la parte politica asservita alle sue losche trame. Lo farà perché denunciare eroicamente i cattivi di fronte al popolo innocente è una retorica politica che elettoralmente paga. Il caso italiano mostra però come non si tratti di un “asservimento” del potere politico alla finanza, ma di una cessione di controllo.

Una volta il debito pubblico italiano era detenuto dalle banche italiane. Era facilmente governabile, perché le banche erano in gran parte pubbliche. Poi è passato nelle mani delle famiglie italiane, rimanendo facilmente governabile, perché in cambio di rendimenti molto elevati queste lo sottoscrivevano. Si aveva così un meccanismo di consenso molto semplice.

La politica governava il debito prima attraverso le “sue” banche, poi attraverso gli alti rendimenti. In questo modo non si poteva formare un giudizio di merito pubblicamente condiviso sul debito dell’Italia. Nel primo caso gli investitori erano “catturati”, nel secondo “sedotti”. In breve, il Principe non faceva fatica a ricevere il consenso degli elettori-risparmiatori, tanto più che il debito crescente si sarebbe scaricato sui “non nati” che, in attesa della cicogna, non votano.

Ma oltre venti anni fa è arrivato il momento del mercato, in doppia direzione: gli italiani possono investire all’estero e l’estero può investire in Italia. Si possono finalmente formare giudizi di merito: qual è il premio – il maggior rendimento richiesto – per detenere il debito italiano rispetto a quello tedesco?

Il Principe deve ora convincere che il debito è sottoscrivibile. Cambia la natura del rapporto: il Principe prima non faceva fatica a collocare il debito e non doveva persuadere nessuno sulla sua tenuta; al contrario, adesso s’affanna e deve dunque varare politiche coerenti nel tempo.



giovedì 10 agosto 2017

PERCHE' IL VENETO NON SI SENTE ITALIA - IN ATTESA DEL REFERENDUM DEL 22 OTTOBRE - Un articolo di Limes

Storia e geopolitica del venetismo, movimento fondato sull’esaltazione di un’identità anti-italiana. Łéngua vèneta, religione del lavoro e mito dell’’ognuno padrone in casa propria’. Aspettando il referendum.
Estratto dell’articolo “Benvenuti in Veneto, Texas d’Italia“ 
di Giovanni Collot

Partiamo dalle ragioni storiche. I territori veneti che furono sottoposti alla Repubblica Serenissima a partire dal XV secolo hanno beneficiato di un sistema sociale sui generis: la Serenissima lasciava ampi spazi di autonomia ai singoli territori nello Stato da tera, preferendo gettare il proprio occhio strategico sullo Stato da mar.

Creando però i presupposti affinché le élite dell’entroterra non si sentissero mai integrate nel sistema politico. A questo si sovrappone un sistema agricolo per secoli basato sulla mezzadria, dove il fatto che a ogni contadino fosse assegnato un podere in uso esclusivo da cui poteva trarre il 50% dei guadagni totali ha dato impulso, secondo la vulgata, allo sviluppo di una mentalità imprenditoriale nelle famiglie di mezzadri.

Con il crollo della Serenissima, la gestione dell’ordine locale è passata sempre di più a un sistema di potere basato su notabilato locale, Chiesa e famiglia: un sistema che tenta di autoregolarsi, lasciando la politica in secondo piano, in un continuo sentimento di ostilità e negoziazione con il centro.

Nelle campagne venete comincia così a germinare un capitale sociale fieramente antistatale e localista, dove il rispetto per l’ordine costituito e per la religione si accompagna a una diffidenza per tutto ciò che viene dal potere centrale. Si tratti di Roma o di Venezia.

Su questo sistema sociale si innesta, a partire dal dopoguerra, il miracolo economico. Tra gli anni Cinquanta e Settanta il Veneto si trova a passare rapidamente da regione sottosviluppata a una delle locomotive d’Italia, con una crescita media annua del pil del 5,5%. Improvvisamente, paesaggi contadini basati su tradizioni consolidate e in cui il tempo sembrava fermo da secoli si ricoprono di capannoni. I contadini tutti chiesa e famiglia, lavoro e indipendenza fiutano l’aria, smettono i panni agricoli per aprire le loro aziende: nasce la nuova figura del metalmezzadro.

Il Veneto fa la rivoluzione. Si tratta però di una rivoluzione solamente economica, che rende il Veneto centro della Terza Italia, nuova alternativa al triangolo industriale e al Meridione che fino ad allora avevano dominato l’immaginario nazionale. Per il resto, il nuovo benessere si adagia sulla stessa società di prima. Ne trae tutta la sua forza: la struttura sociale della rete, della famiglia e del culto per il lavoro è ciò che dà vita al «miracolo economico». Anzi, ora ne viene amplificata: se ha portato tanto successo, va celebrata. Ed esibita.

Rimangono però, sotto le crepe del benessere acquisito, gli stessi difetti di sempre: la chiusura all’esterno, l’eccezionalismo. Soprattutto, permane un senso di inadeguatezza nei confronti del potere centrale, della complessità del mondo esterno, misto a un forte desiderio di rivalsa. Cresce la raffigurazione e la consapevolezza di sé come «giganti economici, nani politici».

Il secondo grande asse per capire il venetismo è la geografia. L’area protagonista della rivoluzione veneta appena citata è infatti il territorio nella pianura a nord di Venezia e a sud delle Alpi, e che trova il suo cuore nel Veneto centrale, vero simbolo del Nord-Est.

Fare una ricognizione nel «centro senza centro» compreso nel pentagono tra Venezia, Treviso,Bassano del Grappa, Vicenza e Padova, con qualche capatina nella Sinistra Piave, equivale a fare un giro nell’anima veneta…