DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

giovedì 30 marzo 2017

LA LUNGA STORIA DEL JIHADISMO NEI BALCANI - TRIESTE E' SULLA "DORSALE VERDE" - Un articolo di limes a margine del progettato attentato al ponte di Rialto.


La lunga storia del jihadismo nei Balcani

di Matteo Pugliese

Febbraio 2015, parlamento di Priština. Chiedo a Daut Haradinaj, presidente della Commissione per la Sicurezza e Affari Interni, se stanno monitorando la minaccia jihadista in Kosovo.

Il deputato si irrigidisce e dà una risposta cortese ma estremamente elusiva, parlando di tolleranza religiosa e affermando che non c’è alcun rischio nel paese. Tuttavia, senza risalire ai legami tra alcuni settori dell’Uçk e al-Qaida, avvalorati dall’ex capo dell’intelligence di Tirana Fatos Klosi e da documenti dell’Fbi, si può parlare di un’ampia partecipazione di kosovari al terrorismo islamico.

Proprio in Siria si è fatto strada come comandante dell’Is Lavdrim Muhaxheri, un kosovaro responsabile di numerose atrocità, come l’esecuzione di un adolescente con un razzo anticarro Rpg. Una foto precedente lo ritrae mentre decapita un diciannovenne alawita. Desta preoccupazione il fatto che, prima di radicalizzarsi, Muhaxheri lavorò per la Nato in Kosovo, a Camp Bondsteel, e in Afghanistan. Un altro kosovaro che lavorò a Camp Bondsteel, Blerim Heta, nel marzo 2014 si fece saltare in aria a Baghdad, massacrando 52 agenti di polizia.

In questo caso il reclutamento avvenne nell’ambiente di Shefquet Krasniqi, imam della grande moschea di Priština, che infatti il 4 settembre venne arrestato per presunte attività di propaganda insieme ad altri religiosi, tra cui gli imam di Peć e Mitrovica. Nell’agosto dello stesso anno, le forze di sicurezza avevano già arrestato quaranta persone, ma alcuni analisti ritennero che questa operazione fosse più che altro mediatica.

Jabhat Al-Nusra mantiene una forte attrattiva per i balcanici, al pari dello Stato Islamico. Ma quanti sono i kosovari combattenti in Medio Oriente? Le stime più attendibili oscillano tra 200 e 300, cifra notevole per un paese di neanche due milioni di abitanti. Potrebbero costituire un reale pericolo per la missione Kfor della Nato, che dispiega ancora 4 mila uomini, di cui 564 italiani. All’inizio del 2015 il parlamento di Priština ha approvato una nuova legge antiterrorismo, che rafforza la normativa contro il reclutamento con pene dai 5 ai 15 anni.

Nel lungo report di Shpend Kursani per il Kosovar Center for Security Studies, emergono molti dettagli sulla radicalizzazione in Kosovo e Macedonia. In questa ricerca gli integralisti sono definiti takfiri, nella cui dottrina trova spazio la restaurazione del califfato. Il rapporto evidenzia il collegamento di alcuni imam di Skopje, in particolare la moschea Jahja Pasha, con l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Uno dei predicatori, Shukri Aliu, per sfuggire a una condanna in Macedonia ha vissuto sette anni in Kosovo, disseminando adepti tra  Priština e Gjilan, molti dei quali sono diventati combattenti o reclutatori per la Siria. Come Idriz Bilibani, a capo di una rete italo-kosovara con contatti a Siena, in Bosnia e nel Sangiaccato serbo. Occorre citare anche il caso di Restelica, remoto villaggio nell’estremo sud del Kosovo abitato dai gorani, slavi che parlano il dialetto serbo torlakiano e praticano l’islam sunnita.

I servizi di intelligence italiani e kosovari ritengono questo paese un centro di reclutamento, controllato dall’imam Sead Bajraktar, anche lui ospite del Centro islamico ‘Restelica’ vicino Siena. Si aggiungono i quattro arresti del dicembre 2015 della rete di Samet Imishti, tra il sud-est del Kosovo e Brescia. 

Kosovo e Bosnia potrebbero apparire due contesti scollegati, ma fanno parte della stessa trasversale verde, il cui anello di congiunzione è la regione serba del Sangiaccato, storicamente musulmana. Alcuni dei protagonisti del terrorismo in Bosnia vengono proprio da lì. La Serbia ha condannato 16 wahhabiti che progettavano attentati contro l’ambasciata Usa di Belgrado e lo stadio di Novi Pazar.

Gli investigatori serbi hanno identificato il principale centro integralista del Sangiaccato nell’associazione ‘Furqan’ di Novi Pazar, dell’imam Adem Demirovic, una comunità che secondo i servizi conta cinquecento radicali.

Per capire l’odierno jihadismo bosniaco, occorre partire dal contesto storico dalla guerra civile tra il ’92 e il ’95. Pochi sanno che il primo attentato islamista in Europa avvenne proprio nei Balcani, a Rijeka (Fiume). Nel 1995 un’autobomba esplose davanti alla stazione di polizia della città croata, uccidendo l’attentatore e ferendo 29 persone. Si trattò di una rappresaglia –  organizzata da Hassan El Sherif, attivo nella moschea milanese di Viale Jenner, e rivendicata dal gruppo egiziano Jamaat Islamiya – per la extraordinary rendition di Abu Talal, leader del gruppo, catturato dai servizi di Zagabria e imbarcato dalla Cia per l’Egitto dal porto di Rijeka. Un’altra autobomba, nel ’97 a Mostar, ferì 50 persone davanti a una caserma di polizia, l’attentato fu organizzato da Ali Hamad, del Bahrain, e dal saudita Salim Zuhair.

È utile comprendere in quale contesto si sviluppò il radicalismo degli anni Novanta. La Dichiarazione Islamica, opera giovanile del presidente bosniaco Alija Izetbegović, offre un quadro. Sebbene il leader bosgnacco abbia sempre evitato derive estremiste [1], alcuni passaggi di quel manifesto dimostrano una profonda adesione ai valori della cultura islamica, con toni talvolta intolleranti e radicali. Come nel giustificare la lotta armata e il jihad in nome dell’unità dei musulmani, in quel caso contro Israele.

Nel dibattito del partito sul nome della loro componente etnica, sostenne l’opzione musulmani anziché bosgnacchi. Nel 1992 i paesi islamici erano divisi sull’intervento armato a sostegno di Sarajevo. Tra i favorevoli vi erano Turchia e Iran, mentre l’Arabia Saudita suggeriva prudenza. Questi tre paesi furono gli attori principali dell’ingerenza islamica nei Balcani. Prova ne è la pletora di  fondazioni ed enti islamici che si installarono a Sarajevo allo scoppio del conflitto.

Si contano più di 50 organizzazioni non governative, tra le quali spiccano le saudite International Islamic Relief Organization, la Saudi High Commission for Relief of Bosnia e la sudanese Third World Relief Agency. Questi enti, oltre a costruire moschee e diffondere l’ideologia salafita, fungevano da vere e proprie filiali di Al-Qaeda. Nel 2001, una perquisizione nella sede della Shc trovò materiale di propaganda jihadista e istruzioni per attentati contro gli Usa.

Questa non era che la punta dell’iceberg. Dal 1992 i musulmani di Bosnia iniziarono a organizzare un proprio esercito, i cosiddetti Berretti Verdi; affluirono i volontari arabi, desiderosi di difendere i loro fratelli bosniaci della Umma, la comunità dei credenti. Questi fanatici, talvolta veterani dell’Afghanistan, provenivano da Algeria, Egitto, Arabia Saudita, Turchia, Siria, Kuwait, Sudan, Yemen, Giordania, Marocco, Libano e Iran.

In principio fu loro assegnato un campo di addestramento a Poljanice, presso Mehurići, poi si insediarono nel villaggio di Orašac e dall’aprile 1993 fissarono il quartier generale nella città di Zenica. Non vi sono dati ufficiali, ma le stime più attendibili variano tra mille e 5 mila uomini. I servizi segreti algerini hanno parlato di almeno 60 combattenti del loro paese ancora residenti in Bosnia.

Questa notevole massa di stranieri divenne presto ingovernabile; il 13 agosto 1993 si decise di integrarli nell’esercito regolare, formando un battaglione conosciuto come Kateebat al-Mujahideen o El Mujahid. Tale unità, formalmente sotto il comando di un Corpo d’armata, si rifiutava di prendere ordini dalle autorità bosniache e godeva di ampia autonomia operativa. Era comandata da un Emiro, assistito dal Consiglio della Shura; combattè principalmente nel maggio 1995 a Zavidovici e a settembre presso Maglaj.

Il 14 dicembre, proprio mentre veniva firmato l’accordo di Dayton, reparti speciali croati vicino Žepče, sulla strada tra Zenica e Maglaj, uccisero cinque ufficiali di El Mujahid, tra cui l’egiziano Anwar Shaban, già imam a Viale Jenner.

Sebbene Richard Holbrooke avesse dichiarato che l’esercito musulmano, senza i mujaheddin stranieri, non avrebbe retto alle truppe serbe, pare che l’impegno militare di tale unità fosse alquanto limitato. Il Centro analisi e sicurezza dell’Esercito bosgnacco annotava che “soldati e comandanti di El Mujahid sono interessati a convertire i bosniaci all’Islam radicale piuttosto che a combattere”. Tra il 1994 e il 1995 i mujaheddin gestirono due campi di concentramento e tortura per prigionieri serbi nella municipalità di Zavidovici, a Kamenica e Gostovici.

Sono state raccolte testimonianze di sopravvissuti che descrivono un clima di autentico terrore, in cui la tortura era sistematica, fino all’arrivo della polizia militare bosgnacca. Alcuni prigionieri furono catturati dopo la cosiddetta ‘operazione Miracolo‘, così chiamata per l’inaspettato successo contro i carri armati serbi. Molti venivano picchiati a morte, torturati con l’elettroshock o decapitati.

La decapitazione è una pratica comune nella prassi jihadista di ieri e di oggi. Dopo il genocidio di Srebrenica, si diffuse una concezione manichea del conflitto e le responsabilità dei bosgnacchi non furono indagate a fondo. Tuttavia, nel 1993 il governo della Jugoslavia dispose la creazione di un Comitato per la raccolta di dati sui crimini contro l’umanità e il diritto internazionale. Le indagini del comitato jugoslavo non vanno screditate per la loro origine e occorre riconoscerle.

Nel 1995 il comitato di Belgrado pubblicò un inquietante rapporto sulle decapitazioni dei prigionieri serbi. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha accertato casi di decapitazione solamente in due recenti sentenze. In un caso i mujaheddin decapitarono tre soldati serbi e costrinsero altri prigionieri a baciare una testa. Il rapporto del Comitato espone altri 81 casi, circostanziati con testimonianze, date e autopsie.

Dopo Dayton, il governo bosniaco ricevette pressioni occidentali affinché i mujaheddin fossero allontanati. Ma nella proliferazione di passaporti concessi dalle autorità musulmane, oltre 1300 jihadisti ottennero la cittadinanza. Costoro si insediarono principalmente nelle aree di Zenica, Zavidovici e occuparono le case dei serbi nel villaggio di Donja Bočinja. Qui si verificarono alcuni episodi di tensione che coinvolsero generali dei caschi blu ed ex mujaheddin.

Nel 2000 cominciò lo sgombero degli occupanti abusivi (131 famiglie), permettendo il ritorno dei profughi serbi. Nel 2007 il governo bosniaco revisionò la lista delle cittadinanze concesse a fine anni Novanta e ne revocò circa 420. Si stima che attualmente duecento ex mujaheddin vivano in Bosnia. Un terreno fertile per il reclutamento di terroristi.

Alcuni degli sgomberati di Bočinja si stabilirono proprio nel villaggio di Gornja Maoča. Non è un caso che la comunità locale, circa trenta famiglie, viva sotto stretta osservanza della sharia.

Maoča, celebre per le bandiere dell’Is esposte dagli abitanti, è un remoto villaggio nel Distretto di Brčko. I primi tre arresti per terrorismo avvennero tra il 2005 e il 2007, mentre Maoča comparve nelle cronache dal febbraio 2010, quando una colossale operazione di polizia accerchiò il paese ed arrestò otto persone, tra cui Nusret Imamović, leader wahhabita legato ad Al-Nusra. Altre note località di reclutamento in Bosnia sono i villaggi di Ošve, Dubnica, Bosanska Bojna e Velika Kladuša. Mevlid Jašarević, il serbo del Sangiaccato che nel 2011 attaccò armato di kalashnikov l’ambasciata Usa di Sarajevo, prima dell’attentato fu ospitato proprio a Maoča. Un bosniaco che aiutò a pianificare l’attacco, Emrah Fojnica, nell’agosto 2014 si fece saltare in aria in un mercato di Baghdad. A settembre le autorità di Sarajevo arrestarono altri 17 wahabiti (operazione Damasco), tra cui il noto predicatore salafita Bilal Bosnić. Bosnić è un importante esponente dello Stato Islamico che fece parte del battaglione El Mujahid; a novembre è stato condannato a sette anni per reclutamento. 

Ad aprile 2014 è stata approvata una nuova legge bosniaca antiterrorismo che punisce foreign fighters e reclutatori con pene fino a dieci anni. Si stima vi siano 400 bosniaci con l’Is e Al-Nusra. Qualche decina è morta in combattimento in Siria, molti sono tornati in Bosnia, dove si registrano episodi di intimidazione e violenza. Nel febbraio 2015 l’imam di Trnovi, che si era più volte espresso contro le derive salafite, è stato aggredito per la quarta volta e ferito a coltellate da ignoti.

Il 27 aprile 2015, Nerdin Ibrić ha fatto irruzione nella stazione di polizia di Zvornik gridando Allahu Akbar e ha sparato contro gli agenti, uccidendone uno e ferendone due. Il movente sarebbe la vendetta per la morte del padre, tra i 750 bosgnacchi massacrati a Zvornik da militari e poliziotti serbi nel 1992. Ma l’arresto di due complici tornati dalla Siria ha messo in evidenza una rete salafita, che in questo caso ha istigato l’attentatore, con presunti campi di addestramento presso Cerska, Osmaci e Potočari.

A giugno, il network di propaganda del califfato ha diffuso un video dal titolo “Honor is in Jihad: a message to the people of the Balkans“. Il filmato con sottotitoli in inglese è finalizzato al reclutamento e mostra numerosi jihadisti bosniaci, kosovari, macedoni e albanesi che invitano i connazionali a partire per la Siria. 

La Croazia occupa una posizione marginale nel fenomeno del jihad balcanico, ma è stata sconvolta ad agosto dal caso di Tomislav Salopek, geofisico rapito in Egitto dallo Stato Islamico nel Sinai e decapitato. Inoltre la Croazia è interessata da due casi di donne convertite e radicalizzate.

Dora Bilić, 27enne di Zagabria, dopo il matrimonio a Londra con un salafita si è trasferita a Raqqa, risulta ferita in un bombardamento della coalizione. Irena Hodak Aminah, di Bjelovar, sposò Anwar Al Awlaki, leader di Al Qaeda nella Penisola Arabica, poi ucciso da un missile Usa nel 2011, lei scrive sulla rivista qaedista Inspire e potrebbe trovarsi in Yemen.

Sarà interessante monitorare in questo e in altri paesi balcanici le conseguenze del transito di profughi e le possibili interazioni con le comunità islamiche locali.

Proprio a dicembre l’ex generale Sakib Mahmuljin, che comandava il 3° Corpo d’armata bosgnacco e almeno formalmente il battaglione el-Mujahid, è stato incriminato per non aver impedito l’uccisione di cinquanta prigionieri serbi da parte degli jihadisti.

I fatti di ieri e quelli odierni sono dunque legati nell’attualità balcanica. Croazia, Serbia e Macedonia iniziano a collaborare nello scambio di intelligence, ma in Bosnia la procura generale ha dichiarato di non avere risorse adeguate per le indagini antiterrorismo, problema che si somma all’attrito nello scambio di informazioni tra Republika Srpska e autorità di Sarajevo.

In nome della sicurezza, i Balcani occidentali dovranno mettere da parte i vecchi rancori e lavorare insieme.

lunedì 27 marzo 2017

ALTA TECNOLOGIA A TRIESTE, IN PORTO VECCHIO - I DRONI SUBACQUEI DELLA SAIPEM AL PUNTO FRANCO "ADRIATERMINAL"




L' Adriaterminal, tuttora Punto Franco in Porto Vecchio, ospita  una Base strategica della SAIPEM , leader mondiale nel settore delle perforazioni sottomarine, dove vengono assemblati e testati i più recenti prodotti dell' alta tecnologia subacquea, con importanti ricadute economiche e commesse ad aziende del territorio.

Ad esempio vi sono i robot che verranno usati nei prossimi mesi in Egitto per il più grande giacimento di gas mai scoperto.


La SAIPEM ha posto una Base a Trieste grazie al particolare regime di Porto Franco che consente liberamente e senza burocrazia le operazioni " estero su estero" che sono tipiche della sua attività.


Venerdì scorso il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo, che riportiamo sotto, sul più recente prodotto ipertecnologico: un drone per gli interventi subacquei chiamato HYDRONE che "
è in fase di test a Trieste".

Guardando dal Molo Audace verso Porto Vecchio si vede chiaramente la Base della SAIPEM: è dove sono posizionate le grandi gru gialle e azzurre.
Quello è l' Adriaterminal dove è ospitata anche la GMT (Genoa Metal Terminal) che fa anche attività di "borsa metalli e materie prime" grazie al regime di Punto Franco che tuttora permane sulla fascia costiera di Porto Vecchio che ospita non solo magazzini fatiscenti e bloccati da vincoli architettonici ma tuttora anche vitali attività d' avanguardia e finanziarie.

La SAIPEM sarà presente al nostro convegno (clicca QUI): 

Trieste e Le Vie Del Petrolio: Arabia, Trieste, Europa Centrale
Martedì 11 aprile alle ore 18
Sala Piccola Fenice, via S. Francesco 5, Trieste
Parteciperanno: 

ALESSIO LILLI General Manager TAL presidente e amministratore delegato della SIOT  di cui ricorre il Cinquantenario.
ZENO D’AGOSTINO presidente Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale.
Un rappresentante della SAIPEM, leader mondiale nelle perforazioni sottomarine (siamo in attesa di conoscere il nome del relatore).

Riportiamo sotto l' articolo del Corriere

Il drone marino che riparerà i gasdotti sott’acqua Saipem: «Il futuro è l’estrazione del petrolio sul fondo del mare»


MESTRE Droni pilotati a distanza, dove l’uomo non può arrivare: non su pianeti sconosciuti, però, bensì sul fondale marino. Sono i macchinari sviluppati nel polo di Marghera da Saipem, il colosso delle costruzioni di tubi sottomarini per il settore degli idrocarburi come petrolio e gas. Sonsub, l’azienda di innovazione della sede veneziana, è una fucina di gioielli tecnologici e ieri ha aperto le porte alla stampa per la prima volta: la punta di diamante del futuro prossimo è il progetto «Hydrone», un drone acquatico con bracci meccanici, pilotato dovunque via wifi e pensato per ridurre i costi e rendere autonoma la manutenzione degli impianti.
Non ci sarà più bisogno di una nave di supporto, a differenza del robot «Innovator 2.0», attualmente in uso per la costruzione dei condotti, che è vincolato a un cavo lungo oltre sette chilometri, con costi molto elevati. Ora «Hydrone» è in fase di test a Trieste e sarà lanciato nel 2019: «Si tratta del primo esemplare al mondo di questo tipo, interamente realizzato a Marghera - spiega Massimo Fontolan, vicepresidente di Sonsub - darà origine a una famiglia di modelli che limiteranno l’intervento umano e abbatteranno i costi per estrarre petrolio». Gli ingegneri della Saipem programmano anche il software dei mezzi, elaborati a partire dall’esperienza pratica: «Non abbiamo divisione tra operativi e ricercatori – prosegue Fontolan - chi propone idee sui progetti le matura usando le tecnologie sul campo». L’azienda punta a rivoluzionare il modo stesso di estrarre il petrolio, per rendere conveniente lo sfruttamento dei giacimenti anche se il prezzo scende: «A lungo termine il futuro è spostare tutto il processo, dalla trivellazione al trattamento delle sostanze, sul fondo del mare», sottolinea Fontolan.
La tecnologia «Springs», sviluppata in collaborazione con i giganti francesi Total e Veolia, va in questa direzione e permette di trattare e pompare l’acqua marina per l’estrazione del petrolio attraverso filtri posti sul fondale, senza doverla trasportare da impianti sulla terraferma. Saipem ora punta a seguire tutte le fasi degli impianti sottomarini, dalla posa delle tubature alla manutenzione, utilizzando le tecnologie sfornate dal polo di Marghera, che impiega 150 persone a tempo pieno, prevalentemente ingegneri: nata negli anni ‘90 dall’acquisto di Sonat Subsea e Tecnomare Industriale da parte di Saipem, Subsea è oggi una delle tre aziende al mondo con il più alto livello tecnologico del settore.



venerdì 24 marzo 2017

"L’Europa festeggia 60 anni con un Regno in meno e due fratture in più "- UN ARTICOLO DI LIMES IN ESCLUSIVA PER I NOSTRI LETTORI

L’Europa festeggia 60 anni con un Regno in meno e due fratture in più
Il sessantenario dei Trattati di Roma è segnato dal Brexit incombente e dalle proteste di Polonia e Grecia. Atene e Varsavia sollevano questioni che Bruxelles e Berlino, dopo i festeggiamenti, non potranno permettersi di ignorare.
Sabato a Roma si riuniscono i capi di Stato e di governo dell’Unione Europea (tranne il Regno Unito) per celebrare i 60 anni dai Trattati istitutivi delle comunità europee.
Formalmente, più una festa che un vero vertice anche se per l’occasione l’Europa è chiamata a dare prova di unità. Ora che Brexit ha anche una data, la dichiarazione finale dell’incontro dovrà tracciare la strada da percorrere insieme per coloro che rimarranno nell’Ue.
  1. Gli assi portanti della nuova Unione saranno quattro, secondo quanto si legge nella bozza della dichiarazione finale.
  1. La sicurezza, declinata come migliore gestione delle frontiere esterne e come lotta al terrorismo;
  2. La creazione di crescita, anche approfondendo l’Unione economica e monetaria;
  3. Il rafforzamento di una dimensione sociale, nel rispetto delle diversità dei sistemi nazionali;
  4. Una maggiore integrazione in materia di difesa (qui gli accenni sono vaghi).
Il rischio è che non tutti rispondano all’appello: Grecia e Polonia hanno minacciato lo strappo. Le loro opposizioni sono significative, perché si muovono lungo due linee di frattura all’interno dell’Unione.
Atene rappresenta la tradizionale spaccatura Nord-Sud, eredità della crisi iniziata nel 2008. Il focolaio greco non è mai stato debellato e il rischio Grexit è sempre dietro l’angolo. L’opposizione latente tra un’Europa carolingia e una mediterranea che vive al di sopra dei propri mezzi, rinvenibile nella narrazione utilizzata dal presidente olandese dell’Eurogruppo Dijsselbloem nei giorni scorsi, persiste.

Dietro la minaccia di veto, c’è però il solito copione di Tsipras: l’obiettivo è ottenere il supporto europeo alla tranche del terzo piano di salvataggio, oggi in discussione a Bruxelles con il Fondo monetario internazionale.

L’altra frattura sta emergendo tra Est e Ovest.

Chiama in causa il rapporto con la Russia (e di riflesso con gli Stati Uniti), ma in ambito Ue deriva dallo scontro sulla gestione dei migranti. Anche se al momento lotta da sola, la posizione di Varsavia è quella del blocco orientale, che si oppone al concetto di Europa a più velocità. La prospettiva per chi resta fuori è quella di allentare la presa rispetto all’integrazione del nucleo che procede più spedito, fino a far sorgere il dubbio di un’effettiva appartenenza allo stesso progetto politico.

Anche in questo caso, l’opposizione è per ora più mediatica che sostanziale: il governo di Beata Szydło deve mostrarsi rigido con Bruxelles dopo la rielezione del “nemico” Tusk a presidente del Consiglio Europeo. La Polonia ha già bloccato le dichiarazioni dell’ultimo Consiglio. L’accordo sul testo della Dichiarazione di Roma è però già stato raggiunto nei giorni scorsi dalle diplomazie di tutti i 27: gli aspetti critici sono stati stemperati e le varie istanze recepite.

Difficile che si ripeta quanto successo a Berlino per il cinquantenario dai Trattati di Roma, quando alcuni membri (tra cui la Polonia) si rifiutarono di firmare la dichiarazione finale.
Ma le fratture che finiranno sotto i tappeti del Campidoglio sono destinate a riemergere dopo il vertice.

mercoledì 22 marzo 2017

LA PRIMA CONSEGUENZA POLITICA DELL' ATTENTATO A WESTMINSTER - UN ARTICOLO DI LIMES


WESTMINSTER E SCOXIT
Londra è stata colpita da quello che Scotland Yard considera un atto di terrorismo.
Al parlamento, dove si trovava anche la premier Theresa May, dopo l’accoltellamento di un poliziotto c’è stata una sparatoria terminata con l’uccisione dell’assalitore. In precedenza sul ponte di Westminster un veicolo, sembrerebbe guidato dallo stesso uomo armato di coltello, ha investito alcune persone.
La polizia metropolitana della capitale britannica ha parlato di diverse “vittime”, senza distinguere tra feriti e morti. Questi ultimi sono almeno tre.
Non si conoscono identità e movente dei responsabili. Le modalità di esecuzione (coltello e automezzo contro la folla) e la data di oggi – primo anniversario delle stragi di Bruxelles – portano a pensare al coinvolgimento di miliziani o simpatizzanti dello Stato Islamico.
L’attentato a Westminster ha avuto una prima conseguenza politica, che se fosse scoperta la matrice jihadista dell’attacco può essere considerata preterintenzionale. Il parlamento della Scozia ha infatti sospeso il dibattito che sarebbe dovuto sfociare in un voto a favore del secondo referendum sull’indipendenza dal Regno Unito, richiesto dalla premier scozzese Nicola Sturgeon.
Perché la consultazione abbia luogo, dopo l’assenso di Holyrood servirà quello di Theresa May, che non vuole rischiare la Scoxit durante i negoziati con Bruxelles per il divorzio del Regno Unito stesso dall’Unione Europea. Sembrano del medesimo avviso anche gli scozzesi: secondo un sondaggio di YouGov, preferirebbero votare sull’indipendenza dopo l’eventuale uscita di Londra dall’Ue o al massimo appena prima.
A proposito di Brexit e sondaggi: i cittadini di Sua Maestà vorrebbero conservare la libera circolazione delle merci con il Vecchio Continente e contemporaneamente rinunciare a quella delle persone provenienti dai paesi dell’Ue. Una posizione negoziale insostenibile.
La bozza di piano di Downing Street per il controllo dell’immigrazione post-Brexit, anticipata dal Times, affiderebbe parte del controllo a padroni di casa e datori di lavoro.
Con l’attacco a Westminster, oggi Scoxit e Brexit passano inevitabilmente in secondo piano.

NUOVO CONVEGNO IN PREPARAZIONE: TRIESTE E LE VIE DEL PETROLIO: ARABIA - TRIESTE - EUROPA CENTRALE


E' in preparazione il nuovo convegno del Limes Club di Trieste

TRIESTE E LE VIE DEL PETROLIO 

ARABIA - TRIESTE - EUROPA CENTRALE
che si terrà 

martedì 11 aprile alle 18
Sala Piccola Fenice 
via S. Francesco 5, Trieste

Hanno già confermato la partecipazione:
ALESSIO LILLI General Manager TAL presidente e amministratore delegato della SIOT
ZENO D’AGOSTINO  presidente Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale

Stiamo raccogliendo altre adesioni in attesa di conferma: in particolare della SAIPEM, leader mondiale nelle perforazioni sottomarine, che a Trieste ha un' importante base in sviluppo, che utilizza il regime di Porto Franco.

Il Porto di Trieste è in una posizione geopolitica strategica sulle "Vie del Petrolio", ma anche del gas, che alimentano le necessità energetiche dell' Europa Centrale. Non è per caso che da 50 anni vi opera l' oleodotto SIOT che raggiunge la Germania, e che anche un' azienda leader nel settore delle perforazioni sottomarine come la SAIPEM ha una sua importante base grazie al particolare regime di Porto Franco con importanti ricadute economiche sull' intero territorio. 

Il convegno si propone di illustrare le potenzialità attuali e future del Porto di Trieste nel settore Oil&Gas e la sua valenza strategica a livello internazionale.


Qui sotto la locandina PROVVISORIA che sarà integrata man mano che arrivano le conferme ufficiali:


sabato 18 marzo 2017

EUROPA A DUE VELOCITA': INTERESSI TEDESCHI E ITALIANI DIVERGENTI - E QUELLI DI TRIESTE ? UN ARTICOLO DI GALLI DELLA LOGGIA SUL CORRIERE CHIEDE UNA RIFLESSIONE DA FARE ANCHE DA NOI -

Ernesto Galli della Loggia oggi sul Corriere della Sera affronta lo spinoso tema dell' Europa a più velocità verso cui ci stiamo avviando.
L' articolo evidenzia la differenza fra interessi nazionali italiani e quelli di Berlino, che sono dominanti, e chiede una riflessione.

Sarebbe opportuna una riflessione anche a Trieste su quali potrebbero essere le conseguenze locali di questa situazione in evoluzione e su quali siano gli interessi della nostra comunità.
Infatti Trieste si trova esattamente sul punto di faglia fra area economica germanica e area intermedia, ma con il Porto Franco Internazionale che lavora all' 85% con l' hinterland mitteleuropeo "estero su estero" ed è di importanza strategica per i rifornimenti petroliferi, tramite l' oleodotto, della Germania del Sud (90% del fabbisogno della Baviera) e dell' Austria (100% del fabbisogno).
Una seria riflessione è urgente, anche a Trieste.


Corriere della Sera
 - 18 marzo 2017 - pagina 1 clicca QUI
LA UE A PIÙ VELOCITÀ

l’illusione dell’europa flessibile

di Ernesto Galli della Loggia
La maggioranza dell’opinione pubblica del nostro continente non vuole salti nel buio. Non ama affatto l’Unione Europea com’è oggi ma non è disposta a correre il rischio dell’uscita dall’euro o della rinuncia/cancellazione del progetto comunitario. È questo, mi sembra, il messaggio delle elezioni di mercoledì in Olanda: non già «una diga contro i populisti», come ha scritto qualcuno, ma un estremo atto di fiducia concesso dai cittadini europei alle proprie classi politiche perché cambino le molte cose che ci sono da cambiare nell’edificio di Bruxelles. Elezioni, tra l’altro, che probabilmente avrebbero avuto un esito diverso se non ci avesse pensato l’arroganza del presidente turco Erdogan a servire su un piatto d’argento al premier olandese Rutte l’occasione di presentarsi in extremis come il campione dell’indipendenza e dell’identità nazionali.
Ma proprio rispetto a questo estremo atto di fiducia in una possibile svolta dell’Ue appare assolutamente deludente la risposta appena data da un gruppo di Paesi dell’Unione Europea membri da più lunga data (in sostanza per ora i sei originari, inclusi dunque Italia, Francia, Spagna e Germania) di dare vita ad un’Europa «a più velocità». Che di fatto sembra segnare più che un rimedio alla crisi europea l’inizio della fine del sogno europeista.
Innanzi tutto per una ragione ovvia: perché quella decisione significa l’ammissione di una sconfitta non da poco.
L a sconfitta della politica di allargamento da 15 a 27 membri, perlopiù dell’Europa centro-orientale, che si realizzò dal 2004 al 2007. L’allargamento, fortissimamente voluto da Romano Prodi — desideroso di concludere con un successo d’immagine la sua presidenza della Commissione dell’Unione, tutt’altro che esente da critiche — e altresì molto benvisto dalla Germania per rafforzare il proprio ruolo di dominus dell’Unione grazie alla tradizionale egemonia tedesca in quello spazio del continente, fa segnare dopo dieci anni un bilancio in passivo. Ha contribuito a complicare i rapporti con la Russia, non ha scalfito in misura apprezzabile il duro fondo nazionalistico delle culture politiche balcaniche né i molti aspetti illiberali delle loro istituzioni, ha rappresentato un costante ostacolo alla possibile adozione a Bruxelles di linee d’azione comune. In generale, nella vita dell’Unione l’allargamento ha corrisposto non già ad un indebolimento bensì ad un rafforzamento del punto di vista nazionale, dal momento che quasi sempre i Paesi dell’Europa centro-orientale si sono mostrati assai più inclini a sfruttare i vantaggi dell’appartenenza europea che a dividerne gli obblighi e i pesi. Senza contare il noto effetto negativo di quell’allargamento: il timore diffusosi nelle opinioni pubbliche dei Paesi più sviluppati dell’Ue per le forme di una possibile anche se spesso immaginaria «concorrenza sleale» da parte dei nuovi arrivati (il mito del famigerato «idraulico polacco»), e il conseguente calo di consensi che ne è venuto all’Unione nel suo complesso.
L’allargamento, insomma, è stato l’esempio forse più significativo della superficialità con cui le classi dirigenti europee hanno fin qui gestito la costruzione europea. Ma — ciò che più conta — è stato anche la prova che il concreto progetto europeista, «l’europeismo reale», se così si può dire, inaugurato sessanta anni fa e interamente fondato su un elemento trainante di tipo economico, non è in grado di superare le profonde divisioni che la storia ha creato nel continente tra la sua parte occidentale e quella orientale. Semmai anzi le accentua (vedi il caso della Grecia). La formula dell’«Europa a più velocità» è la presa d’atto di questo fallimento (non confessato: secondo la prassi di tutti i gruppi dirigenti inadeguati al loro compito, i quali credono di esorcizzare con il silenzio le realtà scomode). Che ne sia anche una plausibile via d’uscita è però tutto da vedere.
Specialmente per tre motivi. Il primo, del tutto evidente, è che la proposta introduce in un progetto che voleva essere di unificazione, il principio opposto della divisione. Ideologicamente e simbolicamente è un colpo durissimo. Sarà difficile togliere dalla mente dei Paesi diciamo così «a minore velocità» l’impressione di essere per ciò stesso i parenti poveri della compagnia sottoposti a un direttorio di fatto. Tanto più — ed è il secondo motivo — che la proposta, a riprova del suo carattere sostanzialmente improvvisato, non è stata accompagnata da alcun suggerimento circa l’architettura istituzionale a cui essa dovrebbe accompagnarsi. Le ipotesi sul tavolo non mancano ma su questo argomento a livello ufficiale regna finora il silenzio. Il problema cruciale è sempre quello: come prenderanno le decisioni comuni i «Paesi guida», chiamiamoli così, dell’Unione? E tali decisioni quali ambiti riguarderanno? Con quali vincoli e obblighi reciproci (penso in particolare alla distribuzione delle risorse) e con quali condizionamenti per i Paesi a minore velocità? D’altra parte i «Paesi guida» da soli non hanno certo il potere di modificare in nulla le attuali attribuzioni e competenze degli organi della Ue a 25 (Commissione, Consiglio, Parlamento): e allora? Rimarrà la vecchia architettura alla quale se ne aggiungerà una nuova? Secondo quali modalità?
Resta infine tutto da vedere — terzo motivo di grave perplessità diciamo così tutta nostra — che si tratti di una via d’uscita corrispondente agli interessi dell’Italia: quegli interessi nazionali che l’europeismo trionfante ha a lungo creduto di esorcizzare con l’arma di un sussiegoso disprezzo, salvo doverne poi subire il rude contraccolpo quando negli ultimi tempi è cominciato a prevalere presso l’opinione pubblica un punto di vista ben diverso. Ormai l’empito egemonico della Germania è un dato scontato, così come la dura spregiudicatezza del suo governo, il quale a parole si proclama sempre europeista a 18 carati salvo perseguire in realtà solo e sempre gli interessi esclusivamente del proprio Paese, e tener presente solo e sempre i desiderata dell’elettorato tedesco. Ebbene: siamo davvero sicuri che il potere di Berlino non esca ancora più rafforzato dalla nuova configurazione dell’Europa a due velocità? Siamo sicuri che il minor numero degli interlocutori non finirà per rendere ancor più difficile di quanto sia stato fino ad oggi arginare le ambizioni tedesche? Su quali garanzie in proposito l’Italia pensa di poter contare?
Sono domande che unite alle precedenti forse meriterebbero prima o poi qualche risposta.